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Massimo della pensione: come ottenerlo?

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Come ottenere il trattamento di pensione più alto possibile presso l’Inps: quote di trattamento calcolate col sistema retributivo e contributivo.

Voglio andare in pensione col massimo: quante volte abbiamo sentito questa frase, o l’abbiamo pensata in prima persona? Ottenere il più alto trattamento di pensione possibile, certamente, è un desiderio di tutti: ma che cosa vuol dire andare in pensione col massimo? C’è un massimo che si può raggiungere ai fini della pensione, oltre il quale non si può andare? E si tratta di un massimo relativo all’ammontare dell’assegno, quindi di un trattamento che non può salire oltre un certo limite, oppure di un massimo relativo al numero di anni di contributi che possono essere accreditati?

In genere, su questo argomento si fa molta confusione: la dicitura “andare in pensione col massimo” è riferita, in realtà, al vecchio calcolo retributivo della pensione presso alcuni fondi, per il quale si prevedeva la determinazione dell’assegno sulla base di un massimo di quarant’anni di contributi.

Adesso, però, il calcolo retributivo integrale non si applica più, per chi appartiene alle gestioni previdenziali amministrate dall’Inps, perché la legge Fornero ha previsto, per tutti, il calcolo contributivo della pensione a partire dall’anno 2012.

Ma procediamo per ordine, e facciamo il punto sul massimo della pensione: come ottenerlo nelle quote retributive e contributive del trattamento, chi può riuscire ad andare col massimo.

Esiste un massimo della pensione?

Innanzitutto, chiariamo che un massimo della pensione, in senso assoluto, non esiste. Considerando difatti che il calcolo interamente retributivo è stato eliminato, non c’è un tetto massimo di anni di contributi sulla cui base quantificare il trattamento di pensione.

Non esiste nemmeno un importo massimo, oltre il quale la pensione non può salire (ricordiamo, però, la questione del taglio delle pensioni d’oro, che per i trattamenti più alti può arrivare al 40%; inoltre ricordiamo che, più è alto il trattamento, più è tassato).

Come funziona il calcolo della pensione?

Apriamo una piccola parentesi, e ricordiamo che il calcolo retributivo della pensione si basa, per la generalità degli iscritti all’Inps, sulla media delle ultime retribuzioni o redditi, e sulle settimane contribuite:

  • sino al 1995, per chi ha diritto al calcolo misto della pensione (cioè per chi ha meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995);
  • sino al 2011 per chi, in passato, aveva diritto al calcolo integralmente retributivo della pensione (cioè per chi ha più di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995).

Il calcolo contributivo, invece, si basa sui contributi versati e sull’età pensionabile. Lasciamo stare, per non complicare la trattazione, l’applicazione delle rivalutazioni ai redditi o alle retribuzioni ed ai contributi. (per chi vuole approfondire, comunque, consiglio di leggere: Calcolo retributivo della pensione; Calcolo contributivo della pensione).

Come far salire l’importo della pensione: quota retributiva

Per quanto riguarda le quote retributive della pensione, cioè quelle calcolate con il sistema retributivo, abbiamo appena osservato che i periodi di contributi sulla cui base calcolare il trattamento non possono mai crescere, in quanto sono fermi al 31 dicembre 1995 per i cosiddetti misti ed al 31 dicembre 2011 per gli “ex retributivi puri”.

I periodi possono essere incrementati, eventualmente, se sono riscattati dei periodi precedenti alle date esposte. Può salire, tuttavia, la retribuzione pensionabile, cioè la media delle ultime retribuzioni, o degli ultimi redditi: in sostanza, chi ha prospettive di crescita a fine carriera, vede comunque salire la quota retributiva della pensione, perché diventa più alta la media degli ultimi stipendi o redditi. Attenzione, però: se al termine della carriera ci sono prospettive di peggioramento, cioè c’è il rischio di percepire degli stipendi più bassi, la quota retributiva della pensione scende.

Quindi restare al lavoro non significa necessariamente ottenere il massimo della pensione.

Come far salire l’importo della pensione: quota contributiva

Per quanto riguarda la parte della pensione calcolata con il sistema contributivo, invece, si tratta di una quota che non può mai abbassarsi, ma che è destinata a salire, in quanto il montante contributivo, cioè la somma dei contributi accantonati, può solo essere incrementato e rivalutato.

Il montante contributivo è trasformato in pensione da un coefficiente di trasformazione, cioè da una cifra espressa in percentuale: questa cifra sale con il crescere dell’età pensionabile. Tuttavia, bisogna considerare che, periodicamente, i coefficienti di trasformazione, stabiliti con apposito decreto, vengono diminuiti, nel caso in cui sia riscontrato un incremento della speranza di vita media.

Per chi, dunque, ha intenzione di ritardare la pensione confidando nella sola crescita del coefficiente di trasformazione, la situazione previdenziale va valutata con attenzione: l’aumento dell’assegno di pensione, in rapporto al sacrificio che consiste nella permanenza al lavoro, o nel privarsi per anni della pensione, può non risultare particolarmente conveniente.


Pensione casalinghe, cos’è e come funziona?

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Chi può iscriversi al fondo Inps casalinghe, quanti contributi si pagano, a quanto ammonta la pensione e quando viene liquidata.

Sei un casalingo o una casalinga, o comunque non sei occupato, non stai versando i contributi previdenziali volontari all’Inps e non hai diritto all’accredito di contributi figurativi? Forse non sai che, per integrare la tua pensione, o comunque per garantirti una rendita nel caso tu non abbia mai versato contributi, puoi iscriverti al fondo pensione delle casalinghe. Chi è iscritto al fondo casalinghe, difatti, può ottenere la pensione anche a 57 anni di età, e con soli 5 anni di contributi. Fai attenzione, però, l’Inps non regala mai nulla: la pensione liquidata dal fondo casalinghe dipende esclusivamente dai contributi versati, in quanto è calcolata col sistema contributivo e non è integrata al minimo. Se vuoi una pensione che ti garantisca un reddito dignitoso, dovrai effettuare dei versamenti ingenti, non ti basterà certamente il versamento minimo mensile pari a 25,82 euro. Inoltre, devi sapere che i contributi versati al fondo casalinghe non possono essere ricongiunti, cumulati e totalizzati alla contribuzione presente in altre gestioni previdenziali. Detto questo, l’iscrizione al fondo casalinghe può comunque costituire un’alternativa alla previdenza complementare, in quanto non comporta particolari vincoli per gli iscritti, che non sono obbligati ad effettuare versamenti tutti i mesi. Ma procediamo per ordine e facciamo il punto sulla pensione casalinghe: cos’è e come funziona, quando viene liquidata, come si calcola.

Chi si può iscrivere alla pensione casalinghe?

Per potersi iscrivere al Fondo casalinghe è necessario soddisfare le seguenti condizioni:

  • età tra i 16 e i 65 anni;
  • svolgimento di un’attività dedita alla cura della famiglia e connessa con le proprie responsabilità familiari, senza vincoli di subordinazione;
  • non essere titolari di una pensione diretta (cioè di una pensione che non sia di reversibilità);
  • non avere rapporti di lavoro dipendente o autonomo per i quali si sia obbligati a iscriversi ad un altro ente o cassa previdenziale, a meno che non sia un’attività part time con uno stipendio così basso da ridurre le settimane utili alla pensione (in pratica la paga settimanale deve risultare inferiore a 205 euro circa).

Quanti contributi si devono versare al fondo casalinghe?

Una volta iscritti al fondo casalinghe, non si è obbligati a versare un minimo di contributi; tuttavia, perché risulti accreditato almeno un mese di contributi, è necessario versare almeno 25,82 euro, mentre, perché sia accreditato tutto l’anno, bisogna versare all’Inps 310 euro. Se si versa di meno, saranno accreditati i soli mesi corrispondenti alla cifra versata: ad esempio, se si versano 150 euro, l’Inps accredita 5 mesi di contributi utili alla pensione.

Se in un anno si versano più di 310 euro, i contributi non possono essere “spalmati” in anni diversi, anche se non interamente coperti, ma servono soltanto ad aumentare la misura dell’assegno di pensione.

A quale età si ottiene la pensione nel fondo casalinghe?

Nel fondo casalinghe è possibile ottenere la pensione a 57 anni, ma soltanto se l’assegno supera 549,59 euro mensili, cioè 1,2 volte l’assegno sociale (che per il 2019 ammonta a 457,99 euro). In caso contrario, cioè se la rendita mensile a cui si ha diritto risulta più bassa, bisogna aspettare i 65 anni per ottenere la pensione; una volta compiuti i 65 anni, è possibile ricevere la pensione dal fondo Inps casalinghe senza dover rispettare alcuna soglia minima di reddito.

Quanti anni di contributi ci vogliono per la pensione nel fondo casalinghe?

Per ottenere la pensione nel fondo casalinghe sono necessari almeno 5 anni, cioè 60 mesi, di contributi.

Come si calcola la pensione nel fondo casalinghe?

Il calcolo della pensione, sia per la pensione anticipata casalinghe a 57 anni che per quella a 65 anni, viene effettuato col sistema contributivo, che si basa sui versamenti accantonati, rivalutati e convertiti in assegno da un coefficiente di trasformazione.

In pratica, per calcolare la pensione casalinghe bisogna:

  • rivalutare i contributi accantonati ogni anno, in base alla media mobile quinquennale della crescita della ricchezza nazionale, ovvero in base all’incremento del Pil nominale, che comprende anche il tasso di inflazione che si registra anno per anno;
  • sommare i contributi rivalutati, ottenendo così il montante contributivo;
  • moltiplicare il montante contributivo per il coefficiente di trasformazione, una cifra espressa in percentuale che varia in base all’età;
  • si ottiene così la pensione casalinghe spettante nell’anno.

I coefficienti di trasformazione della somma dei contributi in pensione, che variano con l’età, per il fondo casalinghe sono:

  • 4,90, per chi si pensiona a 57 anni;
  • 5,05 per chi si pensiona a 58 anni;
  • 5,20 per chi si pensiona a 59 anni;
  • 5,37 per chi si pensiona a 60 anni;
  • 5,54 per chi si pensiona a 61 anni;
  • 5,73 per chi si pensiona a 62anni;
  • 5,93 per chi si pensiona a 63 anni;
  • 6,14 per chi si pensiona a 64 anni;
  • 6,36 per chi si pensiona a 65 anni.

Esempio di calcolo pensione fondo casalinghe

Facciamo un esempio di calcolo per capire meglio a quanto ammonta la pensione casalinghe:

  • Maria, casalinga, ha un montante contributivo (cioè la cifra che corrisponde alla somma dei contributi versati, rivalutati) pari a 15mila euro;
  • Ottiene la pensione a 65 anni;
  • la sua pensione sarà pari a 15000 x 6,36%, cioè a 954 euro annui, pari a circa 73 euro mensili.

La pensione casalinghe si può integrare al minimo?

La pensione casalinghe non è integrabile al minimo e non è soggetta a perequazione, cioè agli adeguamenti periodici all’inflazione. Può però essere cumulata con l’assegno sociale. Ricordiamo, infatti, che l’assegno sociale spetta, in misura ridotta:

  • ai non coniugati con reddito sino a 5.889 euro annui;
  • ai coniugati con reddito sino a 11.778 euro annui (in questo caso si deve però sommare il reddito del coniuge).

I contributi del fondo casalinghe si possono sommare agli altri contributi?

Come abbiamo anticipato, il fondo casalinghe non è ricongiungibile a nessun altro fondo di previdenza, né cumulabile o totalizzabile. In buona sostanza, per calcolare la pensione casalinghe si possono contare solo i contributi presenti nel fondo casalinghe, e i contributi accantonati nel fondo casalinghe non possono essere sommati o riuniti con quelli di altre gestioni previdenziali.

Ho 60 anni: quando vado in pensione?

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Quando può pensionarsi chi ha 60 anni di età: prepensionamento, pensione anticipata, pensione di vecchiaia.

Prima dell’entrata in vigore della legge Fornero [1], molti lavoratori avevano la possibilità di pensionarsi con soli 60 anni di età: uscivano a 60 anni per vecchiaia, in particolare, la maggioranza delle lavoratrici, assieme a gran parte di coloro che potevano beneficiare della pensione di anzianità.

Dal 1° gennaio 2019, l’età per la pensione di vecchiaia è pari a 67 anni: ottenere la pensione con meno di 60 anni di età, tuttavia, è ancora possibile, grazie ad alcune deroghe, agevolazioni e regole previste da fondi previdenziali speciali, che consentono l’uscita dal lavoro con questo larghissimo anticipo.

Ma quando va in pensione chi ha 60 anni? La risposta dipende dalla gestione previdenziale alla quale si è iscritti e dagli anni di contributi accreditati. Chi ha 20 anni di contributi, ad esempio, deve attendere altri 7 anni per ottenere la pensione di vecchiaia, più gli eventuali adeguamenti alla speranza di vita. A chi possiede almeno 36 anni di contributi e sta continuando a lavorare bastano invece 2 anni di attesa, per uscire con la nuova pensione quota 100, che si ottiene con 38 anni di contributi e 62 anni di età. Le lavoratrici di 60 anni con almeno 35 anni di contributi possono poi pensionarsi subito, grazie all’opzione donna, che consente l’uscita dal lavoro con 58 o 59 anni di età e 35 anni di contributi, se i requisiti sono maturati al 31 dicembre 2018. In altri casi ancora, a 60 anni è possibile fruire non di una vera e propria pensione, ma del prepensionamento, una prestazione di sostegno al reddito che accompagna l’interessato sino alla maturazione dei requisiti per la quiescenza.

Se dunque la tua domanda è: “Ho 60 anni, quando vado in pensione?” facciamo subito il punto della situazione: quando si può andare in pensione con meno di 60 anni, quanto deve aspettare per la pensione anticipata e di vecchiaia chi ha 60 anni.

Pensione anticipata a 60 anni

Hai 60 anni e hai iniziato a lavorare da giovanissimo? Forse hai già diritto all’uscita dal lavoro, grazie alla pensione anticipata.

Questo trattamento si ottiene, a prescindere dall’età, con 42 anni e 10 mesi di contributi, per i lavoratori, e con 41 anni e 10 mesi di contributi, se donna. A partire dal 2019, sono applicate delle finestre mobili di 3 mesi, dalla data di maturazione dei requisiti.

Per chi possiede almeno 12 mesi di contributi da effettivo lavoro accreditati prima del 19° anno di età, è possibile pensionarsi con soli 41 anni di contributi, grazie alla pensione anticipata precoci se si appartiene a una categoria debole (invalidi dal 74%, caregivers o disoccupati di lungo corso) o si è addetti ai lavori gravosi

Pensione di vecchiaia: quanto aspetta chi ha 60 anni?

Se hai 60 anni e 20 anni di contributi (15 se sei beneficiario della Deroga Amato), purtroppo non puoi ottenere la pensione di vecchiaia, in quanto l’età pensionabile, per il 2019, è pari a 67 anni.

Devi dunque aspettare almeno 7 anni per uscire dal lavoro, al 2026. Perché almeno? Perché purtroppo all’età per la pensione di vecchiaia si applicano gli adeguamenti alla speranza di vita, che dovrebbero essere pari, se si rispecchiano le previsioni, a 3 mesi ogni biennio. Quindi potresti attendere addirittura 7 anni e 9 mesi.

Pensione di vecchiaia per invalidità

Le donne con invalidità pensionabile almeno pari all’80%, se dipendenti del settore privato, possono pensionarsi per vecchiaia con meno di 60 anni: il requisito previsto è infatti di soli 56 anni di età e un minimo di 20 anni di contributi (15 per chi beneficia di una delle deroghe Amato). Gli uomini in possesso dei requisiti prescritti e con 60 anni di età devono invece attendere un anno, perché il requisito è più alto, pari a 61 anni di età.

Per i non vedenti i requisiti di età sono pari a 56 anni per gli uomini ed a 51 anni per le donne, con un minimo di 10 anni di contributi.

Si applica poi una finestra di attesa di 12 mesi.

Opzione donna

Le lavoratrici con almeno 60 anni, se in possesso di almeno 35 anni di versamenti nella stessa gestione previdenziale, possono già pensionarsi. Le lavoratrici che hanno raggiunto 35 anni di contributi alla data del 31 dicembre 2018, ed hanno compiuto 58 anni alla stessa data (59 anni se lavoratrici autonome), possono difatti ottenere la pensione con questo requisito di età agevolato, grazie al beneficio conosciuto come Opzione donna.

In cambio dell’agevolazione, però, il trattamento è ricalcolato col sistema contributivo. Si applica inoltre una finestra pari a 18 mesi per le autonome ed a 12 mesi per le dipendenti.

Pensione di anzianità e di vecchiaia gestioni speciali

Per i lavoratori del comparto difesa e sicurezza, marittimi, sportivi e dello spettacolo, ci sono particolari agevolazioni che consentono di pensionarsi anche con un’età inferiore a 60 anni. Per approfondire: Pensione con meno di 60 anni.

Prepensionamento

Grazie agli strumenti di prepensionamento, come l’isopensione e l’assegno straordinario, è possibile uscire dal lavoro a 60 anni, in quanto queste due prestazioni consentono ai dipendenti di anticipare la pensione sino a un massimo di 7 anni senza perdere la retribuzione. Inoltre, a prescindere dall’età, questi strumenti permettono di uscire dal lavoro quando non mancano più di 7 anni dalla maturazione dei requisiti per la pensione anticipata.

Il prepensionamento non è una pensione anticipata, anche se la prestazione a cui il lavoratore ha diritto è vicina al trattamento di pensione spettante: si tratta, invece, di una prestazione previdenziale a sostegno del reddito, come la disoccupazione e la mobilità.

Ape volontario, aziendale e sociale: quanto aspetta chi ha 60 anni?

Con l’Ape, l’anticipo pensionistico, è possibile uscire dal lavoro con un minimo di 63 anni, se si possiedono almeno 20 anni di contributi (con l’Ape volontario o aziendale, i cui costi sono a carico del lavoratore), oppure con un minimo di 30 o 36 anni di contributi con l’Ape sociale (che è a carico dello Stato e riservato ad alcune categorie protette di lavoratori; le donne beneficiano di uno sconto nel requisito contributivo).

Chi ha 60 anni, però, potrebbe non beneficiare mai di questi strumenti, in quanto allo stato attuale sono stati estesi solo a chi matura i requisiti entro il 31 dicembre 2019.

Quota 100: quanto aspetta chi ha 60 anni?

Chi ha 60 anni, se possiede almeno 36 anni di contributi e sta continuando a versare la contribuzione, deve attendere solo 2 anni per uscire con la nuova pensione quota 100, che si ottiene con 38 anni di contributi e 62 anni di età.

Prepensionamento quota 100

Chi ha 60 anni può comunque beneficiare del prepensionamento quota 100, grazie al quale possono uscire dal lavoro i dipendenti in esubero ai quali non mancano più di 3 anni per raggiungere la pensione con quota 100. In sostanza, ci si può pensionare con quota 94, ossia con soli 59 anni di età e 35 anni di contributi: si tratta di una nuova possibilità prevista dal decreto pensioni [2].

Con la quota 94 si ottiene non una vera e propria pensione, ma un assegno di prepensionamento, cioè una prestazione di accompagnamento alla pensione, d’importo pari, o molto vicino, al futuro trattamento spettante, come l’isopensione e l’assegno straordinario.

Per approfondire: Quota 100 e prepensionamento.

Pensione casse professionali

Hai 60 anni e possiedi versamenti presso una cassa dei liberi professionisti? I requisti per andare in pensione variano a seconda della gestione previdenziale, ma sono diverse le gestioni che offrono la possibilità di uscire dal lavoro con requisiti flessibili.

Per farti un’idea: Pensione cumulo professionisti, requisiti.

Conviene pensionarsi dopo?

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Se si ritarda il momento dell’uscita dal lavoro l’assegno di pensione aumenta?

Di recente, molti esperti in campo previdenziale hanno messo in guardia i lavoratori in merito alle conseguenze negative collegate all’uscita anticipata dal lavoro. In particolare, è stata oggetto di numerose discussioni la nuova pensione con quota 100, che consente di uscire dal lavoro con un anticipo massimo di cinque anni rispetto al requisito di età richiesto per la pensione di vecchiaia (attualmente pari a 67 anni).

Anche se per ottenere la pensione quota 100, difatti, non sono applicate penalizzazioni dirette nel calcolo, a parere degli esperti è sempre presente una penalizzazione indiretta dovuta all’uscita anticipata, che comporta, giocoforza, la maturazione di un trattamento di pensione più basso.

Ma è veramente così? Chi si pensiona prima ottiene un trattamento più basso? In realtà, i parametri da prendere in considerazione per capire se conviene pensionarsi dopo sono diversi, e cambiano non solo a seconda del tipo di pensione considerato, ma anche della gestione previdenziale alla quale il lavoratore è iscritto, alla sua anzianità contributiva ed alla categoria a cui appartiene. Ma procediamo per ordine e facciamo il punto della situazione.

Come funziona il calcolo della pensione?

Innanzitutto, per capire se conviene pensionarsi dopo è fondamentale conoscere come funzionano i principali sistemi di calcolo della pensione.

L’Inps, per la generalità degli iscritti, prevede:

  • il calcolo retributivo, che è basato sulle ultime retribuzioni o sugli ultimi redditi e sulle settimane di contributi accreditate;
  • il calcolo contributivo, che invece è basato sui versamenti effettuati e sull’età pensionabile.

Per approfondire meglio i sistemi di calcolo della pensione, puoi leggere la nostra Guida al calcolo retributivo e la Guida al calcolo contributivo.

Ad ogni modo, devi sapere che il calcolo retributivo si applica relativamente alle annualità sino al 31 dicembre 2011, per chi possiede più di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, o sino a quest’ultima data, per chi possiede meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995.

Il calcolo contributivo invece si applica:

  • dal 1° gennaio 2012, per chi possiede più di 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995 (si tratta dei cosiddetti “ex retributivi puri”);
  • dal 1° gennaio 1996, per chi possiede meno di 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995 (si tratta dei cosiddetti “contribuenti misti”), o per chi non possiede affatto contributi alla stessa data (i cosiddetti “contributivi puri”).

La quota retributiva della pensione aumenta per chi esce più tardi dal lavoro?

Ritardare il pensionamento non sempre giova alla quota retributiva del trattamento. Questa quota, infatti, è basata sulla media degli ultimi stipendi o degli ultimi redditi, e sulle settimane di contributi versati sino al 31 dicembre 2011, per gli “ex retributivi puri”, oppure sino al 31 dicembre 1995, per i “contribuenti misti”. In pratica, le settimane di contributi relative alla quota retributiva della pensione non possono aumentare se si ritarda l’uscita dal lavoro (eventualmente, possono aumentare col riscatto dei contributi, cioè con la copertura di vecchi periodi privi di contribuzione).

Relativamente alla quota retributiva della pensione, può invece aumentare la retribuzione pensionabile, cioè la media degli ultimi anni di stipendi o di redditi, se si prevede un miglioramento a fine carriera.

Non sono rari, però, i casi in cui la retribuzione del lavoratore diminuisce al termine della carriera. Ad esempio, può accadere che negli ultimi anni di carriera al lavoratore non siano richiesti straordinari, o affidati incarichi extra per i quali percepiva regolarmente, in precedenza, premi o compensi aggiuntivi entranti a far parte dell’imponibile previdenziale.

Può accadere anche che, negli ultimi anni di carriera, il lavoratore scelga il part time, cioè un orario lavorativo ridotto, facendo così calare sensibilmente il suo stipendio. In tutti questi casi, la permanenza al lavoro può addirittura abbassare la quota retributiva.

La quota contributiva della pensione aumenta per chi esce più tardi dal lavoro?

Un discorso differente riguarda la quota contributiva della pensione: questa, essendo basata sulla somma dei contributi accreditati nell’arco della vita lavorativa e sull’età pensionabile, non può mai diminuire, anche se in alcuni anni non si registrano versamenti.

La permanenza al lavoro, quindi, non può far altro che incrementare la quota contributiva della pensione. Bisogna anche considerare che, nel calcolo contributivo, risultano fondamentali i coefficienti di trasformazione, cioè quelle cifre che, espresse in percentuale, trasformano la somma dei contributi (il montante contributivo) in assegno di pensione. Questi coefficienti crescono all’aumentare dell’età pensionabile: pertanto, restare al lavoro giova sicuramente alla quota contributiva della pensione.

Attenzione, però: se si ritarda il pensionamento senza versare nuovi contributi, quindi senza restare al lavoro, il beneficio nella quota contributiva può risultare minimo: non bisogna dimenticare infatti che, a seguito degli incrementi della speranza di vita media, periodicamente i coefficienti di trasformazione vengono abbassati. Pertanto, nonostante il montante contributivo sia rivalutato ogni anno, la diminuzione dei coefficienti di trasformazione potrebbe neutralizzare, o quasi, il beneficio derivante dalla rivalutazione dei contributi.

Quanto tempo ci vuole per recuperare i contributi versati?

Un’altra valutazione da effettuare, in merito alla data di pensionamento, riguarda il recupero dei contributi accreditati: in quanti anni di pensione si riesce a recuperare quello che è stato versato nell’arco della vita lavorativa? Per quanto riguarda la quota contributiva della pensione, i coefficienti di trasformazione sono studiati in modo da consentire un “recupero” dei versamenti in circa vent’anni.

In parole semplici, 20 anni di pensione restituiscono al lavoratore, più o meno, quello che ha versato (non dimentichiamo, poi, che la maggior parte della contribuzione, per i dipendenti e per i collaboratori, è versata dal datore di lavoro o dal committente).

Il discorso è più complesso, tuttavia, se consideriamo anche la rivalutazione del capitale versato, ed i periodi soggetti al calcolo retributivo della prestazione.

Tirando le somme, ad ogni modo, pensionarsi dopo non sempre conviene: chi si pensiona troppo tardi rischia di non recuperare mai l’ingente capitale versato nell’arco della vita lavorativa.

Calcolo Isee disabili

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Quali prestazioni di assistenza devono essere incluse nella dichiarazione Dsu dei disabili, nucleo familiare Isee sociosanitario.

Gli invalidi, i portatori di handicap ed i non autosufficienti hanno diritto a diverse agevolazioni, indennità e prestazioni di assistenza: abbiamo elencato tutti gli aiuti nella nostra guida Legge 104, benefici per i disabili. Per poter richiedere alcuni benefici, però, è indispensabile presentare la dichiarazione Isee, o Dsu (dichiarazione sostitutiva unica): si tratta di un documento nel quale sono indicati i redditi ed il patrimonio di tutti i componenti del nucleo familiare. Sulla base dei dati dichiarati, l’Inps elabora l’indicatore della situazione economica equivalente della famiglia (l’Isee, appunto), l’indicatore della situazione reddituale (Isr), quello della situazione patrimoniale (Isp), ed ulteriori indicatori, che possono variare a seconda delle prestazioni o agevolazioni richieste.

Nel caso in cui debbano essere richiesti benefici, prestazioni o agevolazioni a favore dei disabili, la dichiarazione da presentare è l’Isee sociosanitario: nella dichiarazione può essere indicato un nucleo familiare ristretto. Inoltre, non sono più considerate tra i redditi le prestazioni assistenziali (come l’accompagnamento), previdenziali e indennitarie riconosciute ai disabili. Tuttavia, l’eliminazione di questi trattamenti dai redditi considerati ai fini Isee ha determinato la cancellazione delle precedenti franchigie spettanti ai disabili.

Facciamo allora il punto della situazione sul calcolo Isee disabili: chi è considerato disabile ai fini della dichiarazione Isee, quali prestazioni non devono essere incluse nella dichiarazione, quale modulo compilare, quali componenti del nucleo familiare si devono indicare.

Chi sono i disabili ai fini Isee?

Chi è considerato disabile ai fini Isee? Risulta disabile chi soddisfa le condizioni indicate nell’Allegato 3 al decreto Isee [1]: il decreto, in particolare, differenzia le persone con disabilità media dalle persone con disabilità grave e dai non autosufficienti. Vediamo chi rientra nelle definizioni, in base alla tabella sottostante.

Categorie
Disabilità Media
Disabilità Grave
Non autosufficienza
Invalidi civili di età compresa tra 18 e 67 anni – Invalidi 67-99% – Inabili totali – Cittadini di età compresa tra 18 e 67 anni con diritto all’indennità di accompagnamento
Invalidi civili minori di età – Minori di età con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età (diritto all’indennità di frequenza) – Minori di età con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età e in cui ricorrano le condizioni di cui alla L. 449/1997, art. 8 o della L. 388/2000, art. 30 Minori di età con diritto all’indennità di accompagnamento
Invalidi civili Over 65 (dal 2019 over 67) – Over 67 con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età, invalidi 67-99% – Over 67 con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età, inabili 100% ( – Cittadini Over 67 con diritto all’indennità di accompagnamento
Ciechi civili – Art 4 L. 138/2001 – Ciechi civili parziali – Ciechi civili assoluti
Sordi civili – Invalidi Civili con cofosi esclusi dalla fornitura protesica – Sordi pre-linguali
INPS – Invalidi (L. 222/84, artt. 1 e 6 – D.Lgs. 503/92, art. 1, comma 8) – Inabili (L. 222/84, artt. 2, 6 e 8) – Inabili con diritto all’assegno per l’assistenza personale e continuativa
INAIL – Invalidi sul lavoro 50-79%- Invalidi sul lavoro 35-59% – Invalidi sul lavoro 80-100%- Invalidi sul lavoro -59% – Invalidi sul lavoro con diritto all’assegno per l’assistenza personale e continuativa
INPS gestione ex INPDAP – Inabili alle mansioni – Inabili (L. 274/1991, art. 13 – L. 335/95, art. 2)
Trattamenti di privilegio ordinari e di guerra – Invalidi con minorazioni globalmente ascritte alla terza ed alla seconda categoria Tab. A DPR 834/81 – Invalidi con minorazioni globalmente ascritte alla prima categoria Tab. A DPR 834/81 – Invalidi con diritto all’assegno di superinvalidità
Handicap – Art 3 comma 3 L.104/92: handicap in situazione di gravità

Come funziona l’Isee disabili?

L’Isee disabili, o Isee sociosanitario, è il modello di dichiarazione che si deve compilare per richiedere:

  • prestazioni di natura sociale e sanitaria (quali la degenza o il ricovero in determinate strutture, per i soggetti non autosufficienti);
  • prestazioni di assistenza domiciliare, bonus per acquisti ed altri servizi a favore dei disabili.

Per ricevere queste prestazioni, è indispensabile che nel nucleo familiare sia presente un disabile (invalido, portatore di handicap, non autosufficiente, come definito nella precedente tabella), la cui condizione di svantaggio sia certificata.

Come si calcola l’Isee disabili?

il modello Isee sociosanitario, nel calcolo dell’indicatore della situazione economica, è più “generoso” rispetto all’Isee ordinario (quello utilizzato dalla generalità delle famiglie), poiché restringe il nucleo, includendo solo i redditi del disabile, del coniuge e dei figli, e poiché prevede una maggiorazione della scala di equivalenza (che serve come divisore sulla cui base calcolare l’Isee) pari a 0,5 punti.

Sono esclusi dal calcolo Isee i redditi di natura assistenziale, cioè le prestazioni di assistenza (accompagnamento, pensione sociale, pensione di invalidità, indennità e assegni per gli invalidi civili, ciechi, sordi, etc.) esenti Irpef: queste entrate, difatti, non costituiscono un incremento di ricchezza, ma si tratta di somme riconosciute per far fronte a situazioni di bisogno.

Chi fa parte del nucleo familiare Isee disabili?

Nell’Isee sociosanitario può essere indicato un nucleo familiare ristretto, composto dal beneficiario della prestazione, dal coniuge, dai figli minorenni e dai figli maggiorenni (che vanno inclusi solo se fiscalmente a carico e se non coniugati e senza figli).

In base alle recenti modifiche del decreto in materia di reddito di cittadinanza e pensioni, il figlio maggiorenne non convivente con i genitori fa parte del nucleo familiare dei genitori esclusivamente quando è di età inferiore a 26 anni, è nella condizione di essere a loro carico a fini Irpef, non è coniugato e non ha figli.

Come inserire il nucleo familiare ristretto nell’Isee disabili?

Chi vuole far riferimento, nella dichiarazione Isee, a un nucleo familiare ristretto, composto solo da coniugefigli richiedente, in caso di prestazioni socio-sanitarie (o di prestazioni collegate a corsi di dottorato di ricerca), deve compilare il modulo MB1 rid.

Come si compila l’Isee disabili?

L’Isee socio-sanitario, all’interno della dichiarazione Isee, è il modulo MB3.

Questo modulo va compilato solo se si devono richiedere prestazioni di natura sociale e sanitaria, come la degenza o il ricovero in determinate strutture, se devono essere richieste prestazioni di assistenza domiciliare, bonus per acquisti ed altri servizi a favore dei disabili.

Le prestazioni possono essere richieste per il dichiarante o per un suo parente non autosufficiente.

Rifiuto part-time: possono licenziarmi?

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Il lavoratore dipendente può essere licenziato se rifiuta la riduzione dell’orario di lavoro?

Il tuo datore di lavoro ti ha chiesto di passare al part time, perché l’azienda si trova in una situazione di difficoltà, dal punto di vista economico. Tu non vorresti ridurre l’orario di lavoro, perché non puoi permetterti la diminuzione dello stipendio: hai tuttavia paura di essere licenziato, rifiutando il part time. Sai, infatti, che ci sono state delle recenti modifiche in materia di contratti di lavoro effettuate dal Jobs Act, ed in particolare dal Testo unico dei contratti [1], che rendono il rapporto lavorativo più elastico e danno al datore di lavoro la possibilità di licenziare più facilmente.

Ma è davvero così? Chi rifiuta il passaggio al part-time può essere licenziato?

Per rispondere esaurientemente alla domanda: rifiuto part-time: possono licenziarmi? Vediamo nel dettaglio in quali casi il datore può ridurre l’orario di lavoro, e quali sono le possibilità di opporsi per il dipendente.

Come funziona il part time

Il termine part time, o tempo parziale è riferito al contratto di lavoro con un orario inferiore a quello ordinario (pari a 40 ore settimanali, per la generalità dei lavoratori dipendenti [2]), o a quello, eventualmente, minore previsto dallo specifico contratto collettivo applicato nell’azienda.

Il part time può essere orizzontale (l’orario giornaliero è ridotto, ma l’attività è svolta in tutte le giornate lavorative), verticale (l’orario giornaliero è pieno, ma l’attività è svolta solo in alcune giornate lavorative), o misto (si tratta di una combinazione di part time verticale ed orizzontale).

Il lavoratore part time ha gli stessi diritti del dipendente a tempo pieno, ma le spettanze sono ridotte in proporzione all’effettivo lavoro prestato: in parole semplici, lo stipendio è ridotto, assieme ai contributi, ai ratei ed alle mensilità aggiuntive.

La riduzione dell’orario di lavoro si concretizza dunque in una situazione di generale svantaggio economico, che viene però accettata dal dipendente in cambio di maggiore tempo libero, utile magari a conciliare le esigenze personali o familiari con l’impiego.

Nel caso in cui il dipendente non abbia l’esigenza di ridurre l’orario, tuttavia, è difficile che questi possa acconsentire al passaggio al part-time, viste le penalizzazioni economiche, talvolta notevoli, basate sull’effettiva riduzione dell’orario.

Come funzionano le clausole elastiche?

Il decreto attuativo del Jobs Act, di riordino dei contratti di lavoro, ha reso il part time ancora più appetibile per le aziende, prevedendo la possibilità di ricorrere a clausole elastiche per richiedere ore di lavoro supplementare (aggiuntive rispetto al tempo parziale pattuito, ma al di sotto dell’orario ordinario di lavoro).

In pratica, grazie alle clausole elastiche il contratto di lavoro può essere stipulato con un orario minimo, che può essere ampliato temporaneamente, secondo le esigenze dell’azienda: in questo modo, la prestazione dei dipendenti può essere modulata in base alle esigenze produttive, senza che l’impresa sopporti un onere pieno in periodi di bassa produttività.

Bisogna però tener presente che:

  • le clausole elastiche devono essere previste dal contratto collettivo, anche territoriale o aziendale, e stipulate per iscritto col lavoratore; se non previste dal contratto collettivo, datore e lavoratore possono pattuirle solo in sede protetta (presso le apposite commissioni di certificazione);
  • l’aumento delle ore lavorative nell’accordo deve prevedere una maggiorazione della paga oraria, per il dipendente, pari almeno al 15% della retribuzione oraria globale di fatto;
  • è previsto un preavviso minimo da fornire al dipendente, pari a 2 giorni;
  • la misura massima dell’aumento orario non può eccedere il limite del 25% della normale prestazione annua a tempo parziale

Rifiuto del part time: è legittimo il licenziamento?

Il dipendente che rifiuta il part time non può essere licenziato: malgrado le recenti modifiche in materia di rapporti di lavoro effettuate dal Jobs Act, ed in particolare dal Testo unico di riordino dei contratti [1], è illegittimo il recesso del datore dovuto soltanto al rifiuto di ridurre l’orario da parte del lavoratore. Lo ha stabilito, con una nota sentenza [3], la Corte di Cassazione.

Perché il licenziamento possa risultare legittimo, è difatti necessaria l’esistenza di obiettive esigenze dell’azienda che impediscano di utilizzare proficuamente l’attività lavorativa a tempo pieno: non è sufficiente, cioè, provare che mantenere un dipendente a tempo pieno comporti semplicemente un pregiudizio economico.

In altre parole, perché il datore di lavoro possa licenziare il dipendente che rifiuta di convertire il rapporto da full-time a part-time, è necessario provare l’impossibilità di utilizzare proficuamente la prestazione a tempo pieno del lavoratore.

Una prova certamente non semplice, che non si esaurisce nella dimostrazione di un mero pregiudizio economico: l’utilizzo del lavoratore full-time non deve soltanto comportare una maggiore spesa, ma deve infatti risultare non proficuo, per poter procedere al licenziamento.

Indennità di disoccupazione agricola

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Indennità di disoccupazione dei lavoratori agricoli: chi ne ha diritto, requisiti, come si calcola, quando si chiede.

L’indennità di disoccupazione a favore dei lavoratori agricoli non deve essere confusa con la Naspi, perché è una prestazione diversa da quella riconosciuta alla generalità dei dipendenti.

L’indennità di disoccupazione agricola, infatti, serve per compensare i lavoratori agricoli per un periodo di disoccupazione già trascorso, e non per una disoccupazione successiva alla presentazione della domanda: il trattamento infatti viene corrisposto sulla base dello stato di disoccupazione verificatosi nell’anno precedente a quello di presentazione della richiesta d’indennità.

Ma procediamo per ordine e facciamo il punto sulla disoccupazione dei lavoratori agricoli: a chi spetta, quali sono i requisiti, come si determina, quando inviare la domanda.

A chi spetta la disoccupazione agricola?

Le categorie di lavoratori agricoli che possono beneficiare dell’indennità di disoccupazione sono:

  • gli operai con contratto a tempo indeterminato (Oti), compresi i salariati fissi (Sf) e i braccianti fissi (Bf); quest’ultima categoria, pur risultando la durata del rapporto di lavoro dal 1ogennaio al 31 dicembre dell’anno, svolge spesso un numero di giornate di attività inferiore a 312; i dati contributivi relativi agli Oti sono rilevabili dalle denunce aziendali periodiche;
  • gli operai con contratto a tempo determinato (Otd), compresi i giornalieri, con un numero massimo di giornate accreditabili non superiore a 180 (salvo la diversa volontà delle parti); gli aventi diritto all’assicurazione devono essere individuati nell’apposito elenco nominativo, la cui validità è fissata ad anno civile.

Possono beneficiare del trattamento di disoccupazione anche i dipendenti delle cooperative, mentre sono esclusi gli impiegati e i dirigenti dipendenti da imprese agricole: a queste categorie non si applica, difatti, la contribuzione agricola.

Disoccupazione agricola per operai a tempo indeterminato: quando spetta

Gli operai a tempo indeterminato possono fruire del trattamento di disoccupazione ordinaria in presenza dei seguenti requisiti:

  • anzianità assicurativa di almeno 2 anni come dipendenti agricoli (compreso quello per cui è richiesta l’indennità);
  • accreditamento nell’anno per cui è richiesta l’indennità e nell’anno precedente di almeno 102 contributi giornalieri.

Agli operai a tempo indeterminato, licenziati il 31 dicembre a conclusione di un’attività lavorativa per la quale risulta coperto l’intero anno solare, non può essere riconosciuta l’indennità di disoccupazione agricola, in quanto non residuano nell’anno di competenza giornate indennizzabili.

I lavoratori in questione, esclusi dal diritto alla disoccupazione agricola, possono però accedere alla Naspi se nei 4 anni o negli ultimi 12 mesi che precedono la cessazione del rapporto di lavoro possono far valere contribuzione prevalente nel settore non agricolo [1].

In caso di dimissioni:

  • relativamente all’unico o ai diversi rapportidi lavoro instaurati nell’anno di riferimento della prestazione, l’indennità di disoccupazione non viene riconosciuta;
  • se l’interessato ha instaurato più rapporti di lavoro nell’anno di riferimento e uno o più rapporti (ma non tutti) si sono conclusiper dimissioni, i relativi periodi sono da ritenere utili sia ai fini del diritto che del numero delle giornate di disoccupazione da liquidare; non sono però indennizzabili tutti i periodi di inoccupazione intercorrenti tra un rapporto cessato per dimissioni ed un nuovo rapporto.

Disoccupazione agricola per operai a tempo indeterminato: quanto spetta e quanto dura.

L’indennità di disoccupazione per Oti ammonta al 30% della retribuzione effettiva, non comprensiva della voce denominata “quota di Tfr”.

La durata ammonta a un numero di giornate pari a quelle lavorate, nei limiti del parametro annuo di 365 giorni.

I lavoratori agricoli con contratto a tempo indeterminato che vengono licenziati durante il periodo di godimento del trattamento di integrazione salariale (Cig) hanno diritto all’indennità di disoccupazione nella misura del 40% della retribuzione. Il diritto alla prestazione decorre dalla data di cessazione del rapporto, previa presentazione, da parte dell’azienda, dell’elenco dei lavoratori licenziati a cui si riferiva la domanda di integrazione salariale.

Disoccupazione agricola per operai a tempo determinato: quando spetta

A seconda dei requisiti dei quali sono in possesso, gli operai a termine possono beneficiare alternativamente del trattamento di disoccupazione ordinaria o speciale.

In entrambi i casi, è richiesto che l’Otd sia in possesso di un’anzianità assicurativa di almeno 2 anni, (compreso quello per cui è richiesta l’indennità), prevalentemente come dipendente nel settore agricolo.

Nello specifico, gli operai a tempo determinato possono fruire del trattamento di disoccupazione ordinaria in presenza dei seguenti requisiti:

  • disoccupazione agricola ordinaria: accreditamento nell’anno per cui è richiesta l’indennità e nell’anno precedente di almeno 102 contributi giornalieri;
  • disoccupazione agricola speciale:
    • almeno 101 giornate di lavoro nell’anno cui si riferisce la prestazione;
    • almeno 151 giornate di lavoro nell’anno cui si riferisce la prestazione.

Disoccupazione agricola per operai a tempo determinato: quanto spetta e quanto dura

La disoccupazione agricola per gli Otd è pari al 40% della retribuzione del lavoratore assoggettata a contributi, moltiplicata per il numero di giornate lavorate (al netto del contributo di solidarietà del 9%, per ogni giornata indennizzata nel limite massimo di 150 giorni).

La durata ammonta al numero di giornate di iscrizione negli elenchi nominativi, entro il limite di 365 giornate del parametro annuo di riferimento.

Per calcolare le giornate da indennizzare occorre considerare, oltre alle giornate svolte nel settore agricolo, anche quelle svolte come lavoratore subordinato nel settore non agricolo purché, nell’anno o nel biennio cui si riferisce la domanda, sia prevalente l’attività svolta nel settore agricolo.

In primo luogo, quindi, deve essere verificata la prevalente attività agricola nell’anno di riferimento della prestazione. In caso di prevalenza, l’indennità va liquidata nel settore agricolo, cumulando l’attività agricola con quella non agricola. In caso contrario, occorre accertare la prevalenza dell’attività agricola nel biennio:

  • in caso positivo, la prestazione va liquidata cumulando l’attività agricola con quella non agricola;
  • in caso negativo, la domanda deve essere gestita dal settore non agricolo

Quando si presenta la domanda di disoccupazione agricola?

La domanda di indennità di disoccupazione agricola deve essere presentata entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di riferimento della prestazione:

  • direttamente all’Inps, tramite i servizi telematici del portale web dell’istituto (per chi possiede Pin dispositivo, Spid o Cns);
  • tramite gli enti di patronato;
  • attraverso il contact center.

Per ulteriori approfondimenti: Domanda disoccupazione agricola.

Pensione minima casalinghe

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È vero che le casalinghe possono pensionarsi con pochissimi anni di contributi col diritto al trattamento minimo?

Ah, le casalinghe…Beate loro! Basta che paghino 5 anni di contributi per pensionarsi col minimo! Perché non ci ho pensato anch’io? Scommetto che simili affermazioni sono giunte anche alle tue orecchie. Si tratta di una fake news? È mai possibile che, con soli 5 anni di contributi, le casalinghe possano pensionarsi e ricevere l’equivalente del trattamento minimo, pari a 513,01 euro al mese (per il 2019)?

In realtà, chi afferma questo fa un po’ di confusione: è vero che le casalinghe possono pensionarsi con un minimo di 5 anni di contributi, ed è anche vero che un trattamento minimo è previsto.

La pensione minima casalinghe, però, ha una funzione “contraria” a quella del trattamento minimo: mentre l’integrazione al trattamento minimo, difatti, integra la pensione spettante sino ad arrivare al cosiddetto minimo vitale mensile, il trattamento minimo presso il fondo casalinghe è un importo minimo al di sotto del quale non si può andare, se ci si vuole pensionare. In parole semplici, se la casalinga vuole pensionarsi a 57 anni di età con 5 anni di contributi, deve raggiungere un assegno almeno pari a 549,59 euro mensili, cioè a 1,2 volte l’assegno sociale (che per il 2019 ammonta a 457,99 euro). In caso contrario, cioè se la rendita mensile a cui la casalinga ha diritto risulta più bassa, deve aspettare i 65 anni per ottenere la pensione.

Ma come può una casalinga ottenere una pensione almeno pari a 549,59 euro a 57 anni? Soltanto versando contributi in misura sufficiente, considerando che non ha diritto a integrazioni o maggiorazioni del trattamento, che non può unire i contributi accreditati presso le altre gestioni previdenziali, e che l’assegno è calcolato sulla sola base dei versamenti, col sistema integralmente contributivo.

In sostanza, alle casalinghe (ma anche ai casalinghi: il fondo casalinghe è aperto a uomini e donne, purché svolgano un’attività dedita alla cura della famiglia e connessa con le proprie responsabilità familiari) il fondo pensione non regala nulla.

Ma procediamo per ordine e cerchiamo di capire meglio come funziona la pensione delle casalinghe.

Chi può iscriversi al fondo casalinghe?

Chiunque può iscriversi al fondo casalinghe, purché non lavori, non sia titolare di pensione, abbia tra i 16 e i 65 anni e svolga un’attività non dipendente connessa alla cura della casa e della famiglia (se vuoi saperne di più, leggi: Pensione nel fondo casalinghe).

Sono obbligato a versare i contributi se mi iscrivo al fondo casalinghe?

Chi si iscrive al fondo casalinghe non è obbligato a versare i contributi. Tuttavia, se desideri che l’Inps ti accrediti un anno di contributi, devi versare almeno 25,82 euro al mese, pari a 310 euro annui. Quest’anno sei riuscito a mettere da parte 100 euro? L’Inps ti accrediterà solo 3 mesi di contributi (100 diviso 25,82 dà, infatti, 3,87, quindi non arrivi nemmeno all’accredito di 4 mesi di contributi).

Quanto mi ci vuole per la pensione minima casalinghe?

Abbiamo osservato che una casalinga (o un casalingo) può pensionarsi a 57 anni solo se raggiunge un trattamento mensile pari a 549,59 euro. Ma quanto bisogna versare per raggiungere un simile trattamento?

Considerando che il coefficiente di trasformazione, per gli iscritti al fondo che si pensionano a 57 anni, è 4,90, bisogna aver versato, nell’arco della vita lavorativa, almeno 145.809,59 euro. Difatti, 145.809,59 euro, moltiplicato 4,90%, dà una pensione annua pari a 7.144,67 euro, mensile pari a 549,59 euro.

Vero è che i 145.809,59 euro non devono essere interamente versati da te, parte della cifra è anche il frutto della rivalutazione del montante contributivo, cioè della somma dei contributi. Le rivalutazioni, ad ogni modo, non sono molto alte.

Vuoi capire qualcosa di più? Leggi la Guida al calcolo contributivo della pensione.

Si può ottenere la pensione minima casalinghe con 5 anni di versamenti?

Puoi ottenere la pensione minima casalinghe, a 57 anni, anche con soli 5 anni di versamenti, certo. Considera però che, in questo caso, devi versare circa 29.160 euro ogni anno, una cifra tutt’altro che indifferente.

La mia vicina, casalinga, prende la pensione minima e non ha versato contributi

Sicuramente la tua vicina sta facendo un po’ di confusione: se non ha versato contributi non può percepire la pensione minima presso il fondo casalinghe, ma l’assegno sociale, che è una prestazione di assistenza, per la quale non è necessario versare contributi.

L’assegno sociale spetta anche a te, se hai:

  • almeno 67 anni di età;
  • la cittadinanza italiana, o, in alternativa, la cittadinanza di un Paese europeo, se sei iscritto all’anagrafe del comune di residenza, oppure, ancora, la cittadinanza di un Paese Terzo, se possiedi il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo;
  • la residenza effettiva, stabile e continuativa per almeno 10 anni nel territorio italiano;
  • un reddito non superiore a 5.953,87 euro annui, se sei single;
  • un reddito non superiore a 11 .907,74 euro annui, se sei sposato (in questo caso, al tuo reddito è sommato il reddito del coniuge).

Ricorda che da aprile 2019, per gli over 67, è possibile percepire la pensione di cittadinanza. Hai meno di 67 anni? Puoi percepire, se possiedi i requisiti, il reddito di cittadinanza.

Se non ottengo la pensione minima casalinghe non prendo la pensione?

Se non ottieni una pensione almeno pari a 1,2 volte l’assegno sociale, devi attendere 65 anni per pensionarti nel fondo casalinghe.


Busta paga senza tasse: chi ne ha diritto?

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In quali casi al lavoratore dipendente non sono applicate le ritenute fiscali nella paga mensile: lavoratori domestici, forfettari.

Lo stipendio netto in busta paga, per la maggior parte dei lavoratori, risulta notevolmente inferiore alla retribuzione lorda: su questa cifra, difatti, il datore di lavoro trattiene non solo i contributi previdenziali a carico del lavoratore, ma anche le imposte a suo carico (Irpef, imposta sul reddito delle persone fisiche, e addizionali).

Chi ha un lordo di 1500, difatti, solitamente si ritrova con un netto in busta pari a 1200 euro, chi prende 2mila euro lordi si ritrova con 1500 euro in tasca, a chi prende 2500 euro restano soltanto 1700 euro “puliti” (ne abbiamo parlato in: Busta paga, dal lordo al netto). La situazione peggiora, poi, per chi si ritrova con la busta paga gravata da ulteriori imposte (ad esempio l’Irpef a debito risultante dalla dichiarazione 730), da contributi previdenziali aggiuntivi (fondi sanitari, previdenza complementare…), o da ulteriori oneri, come la cessione del quinto o il pignoramento dello stipendio.

Tuttavia, ci sono diversi lavoratori dipendenti che non subiscono ritenute fiscali in busta paga: si tratta di coloro che, avendo uno stipendio particolarmente basso, beneficiano di detrazioni fiscali che superano l’Irpef lorda da pagare, quindi non si ritrovano con Irpef a debito da trattenere nel cedolino paga, e non sono tenuti al versamento dell’addizionale regionale e comunale (per queste due imposte, tuttavia, il dovuto cambia a seconda della residenza del lavoratore).

Ci sono poi i lavoratori domestici ed i dipendenti dei datori di lavoro che hanno scelto il nuovo regime forfettario: in questi casi, il datore di lavoro non è un sostituto d’imposta, quindi non deve applicare ritenute fiscali sulla paga mensile. Attenzione, però, non subire trattenute in busta paga non significa che non si devono pagare le tasse: il dipendente, se il datore di lavoro non è sostituto d’imposta, dovrà calcolare le tasse da pagare presentando la dichiarazione dei redditi, e versarle tramite modello F24.

Ma procediamo per ordine, e facciamo il punto sulla Busta paga senza tasse: chi ne ha diritto, quali sono gli adempimenti che devono effettuare datore di lavoro e dipendente.

Busta paga senza tasse per chi ha lo stipendio basso

Innanzitutto, non subisce trattenute fiscali in busta paga chi ha un reddito di lavoro dipendente molto basso, al di sotto di 8mila euro annui: in questi casi, difatti, si applica una detrazione fiscale (un importo che diminuisce l’Irpef lorda) che supera l’imposta dovuta, quindi non sorge alcun debito d’imposta per il lavoratore.

Bisogna comunque tener presente che non tutti coloro che hanno uno stipendio sotto gli 8mila euro annui sono esonerati dal pagamento delle tasse:

  • in primo luogo, perché le addizionali potrebbero risultare comunque dovute;
  • il lavoratore, poi, potrebbe essere titolare di altri redditi imponibili fiscalmente: in questo caso, dovrà pagare le tasse, al più tardi, in sede di dichiarazione dei redditi;
  • la detrazione per redditi di lavoro dipendente, poi, deve essere rapportata ai giorni di lavoro nell’anno (spetta comunque una detrazione minima annua di 690 euro per i contratti a tempo indeterminato e di 1380 euro per i contratti a termine).

Busta paga senza tasse per chi ha un datore di lavoro forfettario

Il dipendente che ha un datore di lavoro aderente al regime forfettario può non subire le ritenute fiscali in busta paga.

Se il datore di lavoro, difatti, adotta questo regime agevolato (come modificato dalla Legge di Bilancio

2019), ha la possibilità di assumere dipendenti, senza limiti di spesa, ed è esonerato dall’obbligo di rivestire (pur avendone la facoltà) la qualifica di sostituto d’imposta [1].

In altre parole, il datore di lavoro forfettario non è tenuto ad operare ed a versare le ritenute d’acconto, comprese quelle dovute sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori subordinati.

Ai dipendenti di aziende e professionisti forfettari viene dunque corrisposto lo stipendio:

  • al netto dei contributi previdenziali;
  • ma al lordo delle ritenute fiscali, cioè delle tasse.

Il datore di lavoro forfettario ha la possibilità, comunque, di rivestire la qualifica di sostituto d’imposta, quindi di operare le ritenute fiscali: in questo caso, considerando che il comportamento andrebbe estero a tutti i rapporti intrattenuti dal contribuente (anche con professionisti o collaboratori occasionali), correrebbe però il rischio che il comportamento sia interpretato dall’Agenzia come applicazione del regime ordinario e non del regime agevolato (sul punto si attendono dei chiarimenti ufficiali).

Datore di lavoro che non fa le trattenute fiscali: adempimenti

Il datore di lavoro forfettario che non effettua le trattenute fiscali in busta paga:

  • deve compilare il Lul, il Libro unico del lavoro, con tutti i dati obbligatori, ma senza l’applicazione di alcuna ritenuta né a titolo di Irpef, né per le addizionali;
  • deve calcolare e applicare, in ogni caso, le ritenute a fini previdenziali ed assistenziali, e presentare ogni mese la denuncia contributiva all’Inps;
  • deve inviare comunque la certificazione unica Cu entro il 7 marzo, ma senza l’indicazione delle ritenute fiscali, essendo tenuto a compilare unicamente la sezione relativa ai dati previdenziali e assistenziali;
  • deve rilasciare al lavoratore la certificazione con le ritenute previdenziali operate e le somme corrisposte nell’anno;
  • non deve inviare il modello 770.

Lavoratore che non ha tasse in busta paga: adempimenti

Il lavoratore che, nell’anno, non ha subito ritenute fiscali in busta paga:

  • deve determinare le tasse da pagare in sede di dichiarazione dei redditi;
  • deve pagare le tasse eventualmente dovute con modello F24.

Datore di lavoro domestico: adempimenti

Anche i lavoratori domestici non subiscono ritenute in busta paga, considerando che il datore di lavoro non è un sostituto d’imposta. Questi, difatti, deve trattenere al collaboratore domestico (colf, badanti…) solo i contributi previdenziali a suo carico (per conoscerli, vedi: Calcolo contributi colf), non le tasse.

Deve poi dare al lavoratore, almeno 30 giorni prima della scadenza dei termini di presentazione della dichiarazione dei redditi o in caso di cessazione del rapporto di lavoro, una sorta di certificazione unica, o meglio un documento che attesti:

  • i dati anagrafici del lavoratore e del datore di lavoro, comprensivi di codice fiscale;
  • l’anno di riferimento, cioè l’anno in cui sono stati prodotti i redditi;
  • il totale delle somme lorde erogate nel periodo di riferimento: retribuzione, tredicesima, eventuali anticipi o liquidazioni del Tfr;
  • gli importi trattenuti al lavoratore per versamenti Inps e Cassacolf;
  • il valore del vitto e alloggio usufruito se il lavoratore è convivente.

Bolletta acqua con consumi anomali, che fare?

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Quali rimedi per l’utente, se la bolletta dell’acqua presenta dei consumi più alti di quelli effettivi? 

Ho una casa sfitta da anni, mi è arrivata una bolletta dell’acqua con un importo pari a migliaia di euro, anche se non ho consumato nulla; ho fatto il reclamo ma mi hanno risposto che le letture periodiche sono obbligatorie solo dal 2017: ha ragione l’ente?

Purtroppo, situazioni simili al caso appena descritto sono abbastanza frequenti: capita spesso che, a fronte di consumi esigui o inesistenti, sia recapitata una bolletta dell’acqua con un importo eccessivamente elevato, talvolta abnorme.

Ma in caso di bolletta dell’acqua con consumi anomali, che fare? Il gestore del servizio idrico deve rettificare la fattura, oppure il consumatore è comunque obbligato a pagare?

Non esiste, purtroppo, un’unica risposta a questa domanda: l’utente dimostrare che l’anomalia è dovuta a fattori esterni al suo controllo, che non potevano essere evitati nemmeno con un’attenta e diligente custodia dell’impianto.

Ma procediamo per ordine, e vediamo, innanzitutto, come evitare le “bollette pazze” dell’acqua, e che cosa fare nel caso in cui sia recapitata una fattura con consumi eccessivi.

Bolletta con consumi anomali: che cosa controllare

Per quanto riguarda le bollette dell’acqua con consumi eccessivi anomali, la prima cosa da fare è controllare il dettaglio della fattura, per capire quali importi sono stati addebitati quali quota fissa, quali come corrispettivo per la depurazione e il servizio fognatura, e quali come consumi effettivi.

Se dalla bolletta si riscontra che i consumi idrici sono eccessivi rispetto ai consumi reali, è opportuno controllare immediatamente la presenza di perdite; se non vi sono perdite, bisogna immediatamente far controllare il contatore, per verificare se è guasto e “gira a vuoto”.

Bolletta acqua: se il gestore addebita consumi presunti

In diversi casi, accade però che i consumi siano eccessivi perché calcolati presuntivamente, sulla base dei vecchi consumi.

Dal 2017, per le società fornitrici non è più possibile fatturare in bolletta i consumi presunti: lo ha deciso l’Autorità Garante per l’Energia Elettrica e Gas, con una delibera del 2016 [1]: all’utente deve essere garantita la possibilità di effettuare l’autolettura del contatore e di comunicarla con elasticità; in assenza di autolettura, devono essere comunque effettuate almeno 2 letture l’anno dall’ente gestore, in alcuni casi tre.

Nel dettaglio, dal 2017, nel caso di utenti, famiglie o condomini, con consumi medi annui fino a 3.000 metri cubi, i gestori (si tratta dei gestori del Sistema idrico integrato (Sii) che, a qualunque titolo, gestiscono l’attività di acquedotto e operano sul territorio nazionale) devono effettuare almeno 2 tentativi di lettura all’anno, distanziati almeno 150 giorni solari l’uno dall’altro; oltre i 3mila metri cubi, l’obbligo è di almeno 3 tentativi, distanziati almeno di 90 giorni. È obbligatorio reiterare il tentativo di lettura se questo per due volte consecutive non è andato a buon fine e se non sussiste alcuna autolettura disponibile.

A garanzia degli utenti, i gestori devono dotarsi di modalità che permettano la messa a disposizione, in caso di contenzioso, della misura indicata dal contatore, raccolta e utilizzata ai fini della fatturazione (ad esempio mostrando una fotografia). Per promuovere l’utilizzo dell’autolettura, il gestore deve consentire agli utenti di comunicarla telefonicamente, anche attraverso messaggi sms, o via web-chat sul proprio sito internet, rendendo i sistemi disponibili tutto l’anno, 24 ore su 24.

Queste disposizioni, come appena esposto, sono in vigore e valide per tutti i gestori da gennaio 2017: il problema, in diversi casi, si ha quando la bolletta si riferisce a consumi relativi ad annualità precedenti; devono dunque essere applicate, in merito alle letture periodiche, le norme contenute nel regolamento del servizio idrico dello specifico gestore.

Letture acqua: che cosa stabiliscono i regolamenti

La maggior parte dei regolamenti degli enti gestori del servizio idrico stabiliscono, comunque, l’obbligatorietà di letture periodiche, anche con riguardo ai periodi precedenti al 2017. Diversi gestori, ad esempio, risultano comunque obbligati da regolamento ad almeno una lettura nell’arco di 12 mesi.

Bolletta acqua sproporzionata su consumi presunti: che cosa fare

Che cosa fare, allora, se il gestore emette una bolletta sproporzionata rispetto ai consumi reali, perché basata sui consumi presunti?

La prima cosa da fare è inviare, entro 60 giorni dalla ricezione della fattura, un reclamo all’ente gestore, con contestuale richiesta di rifatturazione sulla base dell’autolettura: bisogna chiedere, cioè, che sia emessa una nuova bolletta sulla base dei veri consumi.

In caso di rifiuto immotivato da parte dell’ente gestore, ci si può rivolgere all’autorità giudiziaria.

Ad ogni modo, se l’importo fatturato, pur se sproporzionato, non è elevatissimo, considerando i notevoli costi di un’azione giudiziaria e, non ultimo, il rischio di slaccio dell’utenza (la normativa a garanzia del consumatore in caso di reclami, oltre a non essere chiara e uniforme, spesso non viene rispettata dai gestori, che procedono a slacci illegittimi), il consiglio pratico è quello di saldare comunque la bolletta: gli importi pagati in più non sono persi, ma vengono posti a conguaglio dei futuri consumi.

Bolletta acqua case sfitte

Per chi possiede case sfitte e totalmente inutilizzate, per evitare di pagare balzelli inutili, è consigliabile richiedere all’ente gestore la sospensione del servizio per mancato utilizzo, così come previsto da quasi tutti i regolamenti dei gestori idrici.

Bolletta acqua non potabile

È opportuno, per verificare la correttezza della bolletta idrica, anche controllare periodicamente la potabilità dell’acqua (basta aver riguardo alle segnalazioni periodiche effettuate all’utenza dai comuni).

Esiste, difatti, un provvedimento del Comitato Interministeriale Prezzi [2] che stabilisce un limite del 50% del prezzo relativo alle forniture di acqua, nel caso in cui la fornitura abbia per oggetto acque idonee solo agli usi igienici. A tal proposito, diverse autorità giudiziarie (ad esempio il Giudice di Pace di Reggio Calabria [3]) hanno condannato i Comuni alla restituzione della metà dei canoni percepiti indebitamente: gli orientamenti della giurisprudenza in merito, però, non sono sono concordi.

Ad ogni modo, l’erogazione di acqua non potabile, quando questo non è reso noto all’utente o non è oggetto di un apposito accordo, rappresenta un illecito amministrativo, sanzionato con diverse misure pecuniarie da una nota legge del 2001 [4].

Sino a che età posso lavorare?

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Esiste un limite di età oltre il quale non è più possibile lavorare, o dipende dalle condizioni di salute del lavoratore?

«Per colpa degli adeguamenti alla speranza di vita, lavorerò sino alla morte». «Ormai si va dal lavoro alla tomba». «L’Inps ti dà la pensione soltanto quando stai per morire». Sono sicura che hai sentito ripetere queste frasi molto spesso, da amici, parenti, conoscenti.

Hai sentito anche dire, però, che oltre una certa età non si può lavorare. «Zio Efisio lavorava alle Ferrovie, a 65 anni l’hanno pensionato col massimo». «Quest’anno compio 67 anni, la mia azienda mi pensionerà sicuramente». «Oltre i 71 anni non si può più lavorare, nemmeno se il datore di lavoro vuol farti restare». Tirando le somme, c’è chi afferma che si possa lavorare fino a un’età indefinita, chi dice che sia possibile proseguire l’attività lavorativa sino ai 65 anni, chi sino ai 67, chi sino ai 71. Ma chi ha ragione?

La mia risposta ti stupirà: in un certo senso, hanno ragione tutti. L’età per il «pensionamento forzato», però, è differente a seconda della categoria a cui si appartiene: i dipendenti pubblici, ad esempio, sono collocati a riposo dall’amministrazione di appartenenza solo se hanno raggiunto l’età ordinamentale, più i requisiti per la pensione anticipata o di vecchiaia. I dipendenti del settore privato possono essere licenziati per raggiunti limiti di età a 67 anni: possono restare al lavoro anche successivamente, ma solo se c’è un apposito accordo col datore di lavoro; alcuni contratti collettivi prevedono, per il datore di lavoro, la facoltà di licenziare sino ai 65 anni. E i lavoratori autonomi e parasubordinati? Possono restare al lavoro sinché vogliono (dipende, ovviamente, dagli incarichi affidati dai clienti o dai contratti conclusi con i committenti).

Per rispondere, dunque, alla domanda: «Sino a che età posso lavorare?» non esiste un limite di età al di sopra del quale non è possibile svolgere un’attività lavorativa, ma la possibilità di lavorare dipende dalle condizioni di salute dell’interessato. Il datore che adibisce al lavoro una persona non in grado di svolgere una determinata attività può subire delle pesanti sanzioni, per non aver tutelato la salute e la sicurezza dell’interessato: questo, però, a prescindere dalla sua età.

Esistono, però, dei limiti di età al di sopra dei quali si può essere licenziati, che variano a seconda delle categorie di appartenenza. Ma analizziamo meglio tutti i casi in cui il lavoratore anziano può essere licenziato.

Licenziamento dipendente pubblico anziano

In quali casi il dipendente pubblico in età avanzata può essere licenziato? Ci sono tre ipotesi in cui l’Amministrazione può collocare forzatamente a riposo il dipendente:

  • quando raggiunge l’età ordinamentale (l’età massima prevista dall’ordinamento di appartenenza) ed i requisiti per la pensione di vecchiaia; in questo caso, in base a una circolare della Funzione pubblica [1], l’Amministrazione è obbligata a cessare il lavoratore dal servizio;
  • quando raggiunge l’età ordinatamente ed i requisiti per la pensione anticipata; anche in questo caso l’Amministrazione è obbligata a cessare il lavoratore dal servizio;
  • quando raggiunge i requisiti per la pensione anticipata ed i 62 anni di età: in questo caso, però, il collocamento a riposo è una facoltà dell’Amministrazione, che va motivata, non un obbligo.

Se il dipendente, al compimento di 67 anni di età, non raggiunge i requisiti minimi per la pensione di vecchiaia (20 anni di contributi; un assegno pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale, se non possiede contributi accreditati al 31 dicembre 1995), può chiedere il trattenimento in servizio sino ai 71 anni.

Licenziamento dipendente anziano

Se il lavoratore dipendente presta servizio presso un’azienda privata, un ente privato o un professionista, il datore di lavoro ha la facoltà di licenziarlo una volta compiuta l’età per la pensione di vecchiaia (67 anni nel biennio 2019-2020).

Lavoratore e datore possono però accordarsi per la prosecuzione anche successiva del rapporto; tra l’altro, nulla vieta di assumere anche un dipendente già pensionato.

Secondo alcuni contratti collettivi, è possibile, per il datore di lavoro, licenziare il dipendente anche prima, ad esempio a 65 anni: gli orientamenti della giurisprudenza, però, non concordi riguardo a questa possibilità.

Integrazione al minimo dell’assegno d’invalidità

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In quali casi l’assegno d’invalidità può essere integrato al trattamento minimo: limiti di reddito personale e familiare.

Hai diritto all’assegno ordinario d’invalidità ma l’importo mensile che percepisci è molto basso? Forse non sai che anche l’assegno d’invalidità, come le altre pensioni, è integrabile al trattamento minimo: questo vuol dire che, se dal calcolo della pensione o dell’assegno deriva un trattamento di importo inferiore a un limite stabilito (il cosiddetto minimo vitale), al titolare della prestazione viene attribuita un’integrazione, l’integrazione al minimo, appunto. Grazie all’integrazione la pensione viene aumentata sino a raggiungere l’importo del trattamento minimo vitale, pari a 507,42 euro nel 2018 ed a 513,01 euro per il 2019.

Per ottenere l’integrazione al minimo bisogna però che siano verificate determinate condizioni legate sia al reddito proprio che al reddito del coniuge.

Per quanto riguarda l’integrazione al minimo dell’assegno d’invalidità, poi, le regole sono differenti da quelle previste nella generalità dei casi, in quanto l’agevolazione è disciplinata dalla legge di Revisione della disciplina dell’invalidità pensionabile [1].

Ma procediamo per ordine e vediamo, dopo aver ricordato quando si ha diritto all’assegno ordinario d’invalidità e come si calcola, come si determina l’integrazione al minimo di questa prestazione.

Che cos’è l’assegno ordinario d’invalidità?

L’assegno ordinario d’invalidità è una prestazione, riconosciuta dall’Inps, che spetta a chi possiede una riduzione della capacità lavorativa superiore ai 2/3. La prestazione è calcolata come la futura pensione ed è integrabile al minimo, ma si riduce in presenza di ulteriori redditi.

Quali requisiti sono necessari per ottenere l’assegno ordinario d’invalidità?

Per aver diritto all’assegno ordinario d’invalidità è necessario possedere:

  • almeno 5 anni di contributi;
  • almeno 3 anni di contributi versati nell’ultimo quinquennio;
  • un’invalidità superiore ai 2/3, ossia la riduzione della capacità lavorativa a meno di 1/3.

Come si calcola l’assegno d’invalidità?

Per sapere a quanto ammonta l’assegno d’invalidità, bisogna considerare che il trattamento è calcolato allo stesso modo della generalità delle pensioni dirette, cioè:

  • col sistema retributivo sino al 31 dicembre 2011 (che si basa sulla media degli ultimi stipendi), poi contributivo (questo sistema si basa invece sulla contribuzione accreditata e sull’età pensionabile), per chi possiede almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995;
  • col sistema retributivo sino al 31 dicembre 1995, poi contributivo, per chi possiede meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995: si tratta del cosiddetto sistema misto;
  • col sistema integralmente contributivo per chi non possiede contributi versati alla data del 31 dicembre 1995.

Quando si riduce l’assegno d’invalidità?

L’assegno ordinario d’invalidità può essere cumulato con i redditi da lavoro, ma con dei limiti: se il titolare continua a lavorare e supera una determinata soglia di reddito, difatti, l’assegno viene ridotto. In particolare:

  • se il reddito supera 4 volte il trattamento minimo annuo l’assegno d’invalidità si riduce del 25%: in pratica, per il 2018, se il reddito supera 26.385,84 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 507,42 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 4), l’assegno d’invalidità è ridotto di ¼; per il 2019, se il reddito supera 26.676,52 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 513,01 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 4), l’assegno d’invalidità è ridotto di ¼
  • se il reddito supera 5 volte il trattamento minimo annuo l’assegno d’invalidità si riduce del 50%: in pratica, per il 2018, se il reddito supera 32.982,30 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 507,42 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 5), l’assegno d’invalidità viene dimezzato; per il 2019, se il reddito supera 33.345,65 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 513,01 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 5), l’assegno d’invalidità viene dimezzato.

Se l’assegno già ridotto risulta comunque superiore al trattamento minimo, cioè supera 507,42 euro mensili per il 2018, 513,01 euro per il 2019, può subire una seconda trattenuta. L’applicabilità di questa riduzione dipende dall’anzianità contributiva dell’interessato:

  • con almeno 40 anni di contributi non deve essere applicata alcuna trattenuta aggiuntiva;
  • con meno di 40 anni di contributi scatta la seconda trattenuta, che varia a seconda che il reddito provenga da lavoro dipendente o autonomo:
    • relativamente al lavoro dipendente, la trattenuta è pari al 50% della quota di assegno che eccede il trattamento minimo, entro comunque l’importo dei redditi da lavoro percepiti;
    • relativamente al lavoro autonomo, invece, la trattenuta è pari al 30% della quota eccedente il trattamento minimo, ma non può essere superiore al 30% del reddito prodotto.

Questa seconda riduzione non può essere applicata se:

  • l’ulteriore reddito conseguito è inferiore al trattamento minimo;
  • il lavoratore è impiegato in contratti a termine di durata inferiore a 50 giornate nell’anno solare;
  • il reddito conseguito deriva da attività socialmente utili svolte nell’ambito di programmi di reinserimento degli anziani promossi da enti locali ed altre istituzioni pubbliche e private, o da altre particolari attività (operai agricoli, collaboratori familiari, giudici di pace e tributari, amministratori locali, cariche pubbliche elettive…).

Quando si può integrare al minimo l’assegno d’invalidità?

Come abbiamo detto, l’integrazione al trattamento minimo dell’assegno ordinario d’invalidità è regolata da un’apposita disciplina.

L’importo dell’assegno, se inferiore al trattamento minimo, deve essere infatti integrato fino a questo importo (ricordiamo pari a 507,42 euro mensili per il 2018 ed a 513,01 euro per il 2019) da una somma pari all’ammontare della pensione sociale. Dal 1° gennaio 1996 si fa riferimento all’importo dell’assegno sociale anche per i trattamenti con decorrenza anteriore a questa data: ricordiamo che l’assegno sociale ammonta, nel 2018, a 453 euro mensili, e nel 2019 a 457,99 euro mensili.

Quando non spetta l’integrazione al minimo dell’assegno d’invalidità?

L’integrazione al minimo non spetta se il titolare dell’assegno d’invalidità possiede redditi propri assoggettabili all’Irpef (l’imposta sul reddito delle persone fisiche) superiori a due volte l’ammontare annuo dell’assegno sociale, anche nel caso in cui il coniuge non possieda redditi.

In pratica, se il reddito supera, per il 2018, 11.778 euro annui, per il 2019 11.907,74 euro, non si ha diritto all’integrazione al minimo dell’assegno d’invalidità.

Tra i redditi che rilevano per il superamento della soglia che dà diritto all’integrazione, deve essere escluso quello della casa di abitazione.

Per chi è sposato e non separato legalmente, l’integrazione non spetta se il reddito, cumulato con quello del coniuge, è superiore a tre volte l’importo dell’assegno sociale: niente integrazione, dunque, se il reddito proprio e del coniuge supera 17.667 euro annui (relativamente all’anno 2018), per il 2019 17.861,61 euro.

Tra i redditi che rilevano per il superamento della soglia che dà diritto all’integrazione, si considera anche l’importo “a calcolo” (cioè derivante dal calcolo della pensione, senza integrazioni) dell’assegno da integrare.

L’integrazione dell’assegno di invalidità, in ogni caso, non può superare l’ammontare annuo dell’assegno sociale. L’importo in pagamento, inoltre, non può superare il limite del trattamento minimo.

Si può ottenere l’integrazione parziale dell’assegno d’invalidità?

L’assegno d’invalidità non beneficia dell’integrazione parziale, cioè dell’integrazione della prestazione fino alla concorrenza dei limiti di reddito: di conseguenza, nel caso in cui i limiti siano superati, l’assegno d’invalidità viene corrisposto nell’importo determinato dal calcolo dei contributi, senza alcuna integrazione.

Si può applicare la cristallizzazione all’integrazione dell’assegno d’invalidità?

La cristallizzazione degli importi [2] non può essere applicata all’integrazione dell’assegno d’invalidità. Nel caso in cui i limiti di reddito siano superati in un anno successivo a quello di decorrenza dell’assegno, non viene dunque mantenuto il minimo nell’importo in pagamento alla fine dell’anno precedente.

Contatore acqua bloccato, che fare?

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Contatore dell’acqua che non gira e non segna i consumi: che cosa fare per evitare di pagare un maxi conguaglio.

Mi sono accorto che il mio contatore dell’acqua è bloccato da parecchio tempo e ho paura che il gestore mi addebiti un conguaglio enorme, visto che non può conteggiare i consumi: come posso fare?

Mi è arrivata una bolletta dell’acqua che ammonta a parecchie migliaia di euro: purtroppo il contatore era bloccato e non mi sono accorto che c’era un’enorme perdita.

Purtroppo, situazioni come quelle descritte sono abbastanza frequenti: a causa di un malfunzionamento del contatore, possono arrivare bollette del servizio con importi enormi, sia perché i consumi effettivi si sono rivelati superiori a quelli stimati, sia a causa di una perdita della quale non ci si è accorti, per colpa del malfunzionamento del contatore.

In questo caso, si è tenuti comunque a pagare l’importo della bolletta del servizio idrico, oppure ci si può “salvare” invocando il cattivo funzionamento del contatore, a causa del quale non ci si è accorti dei consumi eccessivi? Evitare il pagamento è difficile, in quanto l’utente dimostrare che l’anomalia è dovuta a fattori esterni al suo controllo, che non potevano essere evitati nemmeno con un’attenta e diligente custodia dell’impianto: lo ha stabilito il Tribunale di Oristano [2], con una recente sentenza, che rispecchia il prevalente orientamento della giurisprudenza in materia.

Quindi per il contatore acqua bloccato, che fare?

Nel caso in cui il proprio contatore dell’acqua risulti bloccato, il modo in cui procedere dipende dallo stato in cui si trova il contatore stesso, cioè se risulti, o meno, manomesso e, in caso positivo, dall’accessibilità, o meno, del misuratore a terze persone. Ma procediamo per ordine.

Verifica e manutenzione del contatore

La maggior parte delle volte in cui il contatore dell’acqua si blocca, il fatto che il misuratore non giri segnando i consumi è dovuto a impurità presenti nella rete idrica, come sassolini, oppure all’usura dell’apparecchio stesso, che si arrugginisce col tempo e resta immobile.

In questi casi, però, il gestore idrico non sempre può pretendere il pagamento dei consumi arretrati (peraltro impossibili da quantificare oggettivamente): in base a una nota direttiva Cee [1], difatti, l’eventuale malfunzionamento del contatore dell’acqua deve essere rilevato dal gestore stesso, in quanto l’ente erogatore è tenuto a verificare e certificare periodicamente che la precisione del contatore risponda alle caratteristiche standard, dato che è uno strumento con dispositivi anti-frode, come gli altri strumenti di misura usati nel commercio (ad esempio i distributori di benzina). Inoltre, il contatore è uno strumento di proprietà dell’ente gestore, che è, pertanto, responsabile della sua manutenzione.

In parole semplici, il gestore del servizio idrico è tenuto, periodicamente, sia a verificare lo stato in cui si trova il contatore e l’esistenza di eventuali manomissioni, sia ad effettuare la sua manutenzione. Le tempistiche relative a manutenzione e verifiche sono stabilite da ciascun regolamento per l’erogazione dei servizi idrici, o carta del servizio idrico. Per quanto riguarda le verifiche, secondo la normativa in materia vanno effettuate almeno ogni 10 anni, ma nei vari regolamenti sono previste tempistiche minori, solitamente pari a un massimo di 2 o 3 anni.

Segnalazione del guasto al contatore

Pertanto, se il contatore è bloccato dalle impurità presenti nell’acqua o perché usurato o arrugginito, l’interessato deve segnalarlo al gestore idrico, che non potrà addebitare alcunché, ma deve provvedere alla manutenzione o alla sostituzione del misuratore, perché l’eventuale danno subito è imputabile a incuria e cattiva gestione del fornitore.

Se, però, l’utente non effettua alcuna segnalazione, il malfunzionamento del contatore non lo libera dal pagamento dell’eventuale bolletta con consumi elevati, come chiarito dal Tribunale di Oristano [2].

In sostanza, il gestore del servizio idrico deve dimostrare il buon funzionamento del contatore e la corrispondenza tra la misura letta e quella trascritta in fattura, mentre l’utente deve dimostrare che i consumi eccessivi sono dovuti a fattori esterni al suo controllo, che non avrebbe potuto evitare con un’attenta custodia dell’impianto, anche vigilando, con diligenza, per evitare eventuali intrusioni di terzi, in grado di alterare il normale funzionamento del misuratore o determinare un incremento dei consumi [3].

In ogni caso, è importante individuare la causa della sospetta eccedenza dei consumi, e capire se questa dipende esclusivamente da un malfunzionamento del contatore, o da un errore di lettura o di trascrizione, oppure da una perdita occulta nell’impianto idrico.

Quando c’è un malfunzionamento del contatore?

Secondo diverse disposizioni di contratto dei gestori dei servizi idrici, il contatore è considerato non funzionante qualora le misurazioni non siano contenute entro i limiti di tolleranza del 5%, in più o in meno.

Contatore dell’acqua manomesso

Se, invece, il contatore risulta manomesso (ad esempio sono stati tolti i sigilli), la questione si complica notevolmente. Bisogna innanzitutto verificare, in questo caso, dove è ubicato il contatore: se risulta all’esterno dell’abitazione, in un luogo liberamente accessibile da terze persone, l’ente non può provare che sia stato l’interessato, o un suo familiare, il responsabile della manomissione (in ogni caso, l’utente è tenuto a vigilare ed a segnalare immediatamente la manomissione da parte di terzi).

Se, invece, il luogo è accessibile esclusivamente dal fruitore del servizio o dai suoi familiari, è quest’ultimo a dover fornire la prova di non aver manomesso alcunché, prova tutt’altro che semplice.

Le conseguenze della manomissione del contatore, o, comunque, dell’impossibilità di effettuare la lettura per cause imputabili al cliente, sono molto gravi, anche se differenti a seconda del regolamento utilizzato: si va dalla fatturazione di un consumo presunto elevato (sino alla tariffa di massima fascia prevista dalla normativa vigente), salvo il pagamento di una pesante penale e il risarcimento del maggior danno, alla sospensione della fornitura dell’acqua.

È dunque molto importante, per evitare qualsiasi tipo di problema, innanzitutto chiedere la consulenza preventiva di un idraulico di fiducia, in seguito essere presenti durante il sopralluogo e l’eventuale sostituzione o riparazione del contatore.

In ogni caso, prima di chiamare l’intervento del gestore, è bene assicurarsi che il contatore sia effettivamente guasto attraverso una serie di verifiche, perché altrimenti potrebbe essere imputato il costo dell’intervento a vuoto.

Domanda permessi legge 104

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Domanda all’Inps e al datore di lavoro per l’autorizzazione ai permessi legge 104: come si compila, quando e con quali modalità si deve presentare.

Se assisti un familiare con handicap grave riconosciuto ai sensi della Legge 104 [1], e sei un lavoratore dipendente, hai diritto ad usufruire di permessi retribuiti pari a 3 giorni al mese, frazionabili anche a ore. Lo stesso diritto ti spetta se sei un lavoratore dipendente disabile con handicap grave riconosciuto.

I permessi sono retribuiti dall’Inps, anche se sono anticipati dalla tua azienda o amministrazione, pertanto è necessario che tu invii un’apposita domanda di autorizzazione all’istituto per averne diritto, unitamente a una domanda indirizzata al datore di lavoro: quest’ultimo, però, è tenuto soltanto a verificare l’esistenza dei presupposti per la fruizione dei permessi retribuiti, e non ha discrezionalità in merito: in pratica, non può negarti la concessione dei permessi, se ci sono tutti i presupposti di legge per averne diritto.

Ma procediamo per ordine e osserviamo, in questa breve guida, quali sono gli adempimenti necessari per inviare la domanda permessi legge 104: quali sono le condizioni fondamentali per fruire dei riposi retribuiti, che cosa deve fare il lavoratore per inviare all’Inps e al datore di lavoro la richiesta dei permessi, quali documenti bisogna procurare.

Chi può richiedere i permessi Legge 104? 

Innanzitutto devi tener presente che i permessi legge 104 spettano ai lavoratori dipendenti con handicap grave, e ai lavoratori dipendenti che assistono un familiare con handicap grave riconosciuto da un’apposita commissione medica  Asl (nell’attesa del riconoscimento “ufficiale”, è possibile ottenere una certificazione provvisoria sostitutiva). Per sapere come richiedere il riconoscimento dell’handicap: Domanda legge 104, invalidità, accompagno.

Nel dettaglio, i permessi  legge 104 spettano per i seguenti familiari:

  • ai genitori;
  • al coniuge;
  • al convivente more uxorio: si tratta del convivente di fatto (è sufficiente che sia stata effettuata la dichiarazione di convivenza anagrafica al Comune di residenza, non è necessaria la firma di un patto di convivenza);
  • al partner unito civilmente;
  • ai parenti e affini entro il 2° grado;
  • ai parenti e affini entro il 3° grado (solo in casi particolari).

familiari entro il 3° grado hanno diritto ai permessi se il genitore o il coniuge (e ora il convivente) del disabile:

  • hanno compiuto i 65 anni;
  • sono invalidi a carattere permanente;
  • sono deceduti o mancanti (assenza naturale o giuridica).

Il diritto ai permessi legge 104 può essere accordato al dipendente anche se vi sono conviventi familiari del disabile che non lavorano, teoricamente idonei a prestare assistenza (bisogna però dimostrare che nel concreto sono impossibilitati ad assistere il portatore di handicap grave), e se sono presenti altre forme di assistenza pubblica o privata (ad esempio personale badante).

È possibile che più lavoratori abbiano diritto ai permessi legge 104 per lo stesso disabile?

I permessi possono essere concessi ad un solo lavoratore dipendente, detto referente unico, per assistere lo stesso disabile.
Di conseguenza, il disabile deve scegliere il familiare da cui deve essere assistito, presentando all’Inps una dichiarazione apposita [2].

La sola eccezione al referente unico è prevista nel caso dei genitori, che possono beneficiare in modo alternativo dei permessi per l’assistenza dello stesso figlio disabile grave.

Il lavoratore disabile, con handicap grave riconosciuto, può chiedere in prima persona i permessi Legge 104, e contemporaneamente avere un referente unico, che può comunque domandare i tre giorni di permesso mensile per la sua assistenza.

Come si chiede all’Inps l’autorizzazione ai permessi Legge 104?

Il lavoratore dipendente che assiste un familiare con handicap grave deve innanzitutto, per ottenere i permessi mensili retribuiti, presentare un’apposita richiesta di autorizzazione all’Inps.

La domanda permessi legge 104 deve essere presentata all’istituto, che paga l’indennità, anche se anticipata dal datore di lavoro, su un apposito modulo, reperibile anche dal portale web dell’ente, il modello SR08_Hand 2.

Lo stesso modello va autorizzato anche in caso di rinnovo dell’autorizzazione.

Come si compila la domanda permessi Legge 104?

La domanda autorizzazione permessi Legge 104 all’Inps, modello SR08_Hand 2, deve essere compilata indicando i seguenti dati:

  • i dati del dipendente che richiede i permessi: cognome, nome, data di nascita, codice fiscale, indirizzo, telefono;
  • la posizione lavorativa del dipendente che richiede i permessi: matricola Inps della ditta, settore di appartenenza e qualifica;
  • l’orario contrattuale del dipendente che richiede i permessi: tempo pieno, part time verticale (in questo caso bisogna indicare anche il numero di giornate) o orizzontale;
  • il comune in cui abita e lavora chi assiste il disabile;
  • i dati del disabile: cognome, nome, data di nascita, codice fiscale, indirizzo, telefono;
  • la relazione di parentela del richiedente col disabile;
  • le condizioni del disabile: possesso di handicap grave, assenza di ricovero in un istituto specializzato a tempo pieno;
  • la fruizione, o meno, da parte del disabile, dei permessi Legge 104 per sé stesso;
  • l’indicazione riguardo all’esistenza o meno di altri familiari beneficiari di permessi o congedi per lo stesso assistito;
  • la composizione del nucleo familiare presso cui risiede la persona in possesso di handicap grave;
  • il dettaglio dei giorni di permesso mensile richiesti.

Quali documenti si allegano alla domanda permessi Legge 104?

Alla domanda è necessario allegare:

  • il certificato rilasciato dalla competente commissione Asl attestante la gravità della condizione di handicap o, per le persone con sindrome di Down, anche il certificato rilasciato dal proprio medico di base; per i grandi invalidi di guerra e equiparati, copia dell’attestato di pensione o del decreto di concessione rilasciato dal competente ministero;
  • certificazione provvisoria del medico specialista Asl, nelle more del rilascio del certificato della commissione Asl;
  • per gli operai agricoli, ai quali i permessi sono retribuiti direttamente dall’Inps e non anticipati dal datore di lavoro, il modello Hand/Agr;
  • in caso di disabile adottato, la documentazione inerente all’adozione.

Il lavoratore deve poi rilasciare una dichiarazione di responsabilità sulla veridicità dei dati contenuti nella domanda, e sottoscrivere l’impegno di:

  • consegnare al datore di lavoro la copia della richiesta permessi Legge 104, timbrata per ricevuta;
  • presentare, se non già allegato, il certificato di handicap grave rilasciato dalla commissione medica Asl;
  • comunicare, entro 30 giorni, qualsiasi variazione delle notizie o delle situazioni autocertificate, come:
  • l’eventuale ricovero del disabile presso istituti specializzati
  • la revisione del giudizio di gravità della condizione di handicap da parte della commissione Asl;
  • le modifiche ai periodi di permesso richiesti;
  • la fruizione dei permessi, per lo stesso disabile, da parte di altri familiari.

Infine, il lavoratore interessato deve firmare l’autorizzazione al trattamento dei dati.

Come si compila la domanda di rinnovo permessi Legge 104?

Per quanto riguarda la richiesta annuale di rinnovo dei permessi retribuiti, il lavoratore deve inviare all’Inps lo stesso modello SR08_ Hand 2, compilando l’apposita sezione dedicata al rinnovo. In questa sezione deve dichiarare che la commissione Asl non ha rivisto il giudizio di gravità della condizione di handicap del disabile, e che la certificazione rilasciata dalla Asl non è scaduta e non ha subito modifiche.

Come si invia la domanda permessi legge 104 all’Inps?

Il lavoratore deve inoltrare la domanda di autorizzazione ai permessi Legge 104 all’Inps con una delle seguenti modalità:

  • sito web dell’Inps: in questo caso, il lavoratore deve essere in possesso delle apposite credenziali di accesso, Pin dispositivo, Carta nazionale dei servizi, o Spid di secondo livello; deve poi accedere alla sezione “Servizi per i cittadini”, scegliere il servizio “Invio domande di prestazioni a sostegno del reddito”, e compilare il modello online, al quale deve essere allegata la documentazione necessaria;
  • call center dell’Inps: per inviare la domanda tramite call center, il dipendente deve chiamare il numero 803.164 (da telefono fisso, 06.164.164 da mobile), munito dello stesso Pin valido per l’accesso ai servizi online dell’istituto;
  • patronato: in quest’ipotesi, il lavoratore dece compilare il modulo cartaceo SR08_Hand2, che il patronato invierà telematicamente all’Inps, assieme alla certificazione e all’ulteriore documentazione.

Domanda autorizzazione permessi legge 104 al datore di lavoro

Non è necessario presentare un’apposita domanda di autorizzazione ai permessi legge 104 al datore di lavoro, ma è sufficiente inoltrare una copia del modello  SR08_ Hand 2. Alcune aziende e amministrazioni richiedono comunque l’invio di una domanda: bisogna però precisare che l’azienda, o l’amministrazione da cui si dipende, non ha discrezionalità in merito alla concessione dei permessi, ma può esclusivamente verificare l’esistenza dei requisiti per la loro fruizione.

Non esiste un modello prestabilito di domanda, in quanto la forma è libera, non essendo questa obbligatoria.

È necessario, in ogni caso, indicare i dati del lavoratore, quelli del disabile, il legame di parentela esistente (unitamente all’assenza di altri familiari disponibili) , l’impegno a prestare la propria opera di assistenza ed a comunicare ogni variazione, nonché allegare la certificazione dell’handicap ed altra documentazione necessaria a seconda della situazione.

Nella sezione Fac simile puoi osservare un esempio di domanda permessi legge 104 al datore di lavoro.

Pensione di cittadinanza: spetta a chi non è pensionato?

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Chi non è titolare di un trattamento previdenziale può percepire comunque la pensione di cittadinanza?

Dal 6 marzo 2019 è possibile inviare le domande di pensione di cittadinanza: anche tu vorresti richiedere il sussidio, ma hai sentito dire che bisogna essere già titolari di una pensione o di un trattamento d’invalidità per riceverlo.

Nello specifico, ti hanno riferito che la pensione di cittadinanza serve per integrare l’assegno mensile dell’Inps: può trattarsi della pensione di vecchiaia, anticipata, dell’assegno d’invalidità o della pensione d’invalidità civile, della pensione d’inabilità, della reversibilità…Chi non percepisce nessun trattamento dall’Inps, però, non ha diritto a niente.

Ma è vero? La pensione di cittadinanza spetta a chi non è pensionato o no?

In realtà, in un certo senso, la pensione di cittadinanza integra l’eventuale trattamento percepito, sia che si tratti di una pensione diretta (per invalidità o meno), che di una prestazione ai superstiti: si tratta, però, di un’integrazione indiretta, in quanto la pensione di cittadinanza non aumenta l’assegno mensile dell’Inps, ma è accreditata attraverso una carta acquisti, la carta Rdc, proprio come il reddito di cittadinanza.

Inoltre, non è vero che la pensione di cittadinanza non spetta, se il richiedente non è pensionato: tra i requisiti per aver diritto al sussidio, difatti, non è prevista la titolarità di una pensione.

Quando spetta la pensione di cittadinanza?

La pensione di cittadinanza spetta, innanzitutto, se nel nucleo familiare tutti i componenti hanno almeno 67 anni di età. Se ci sono familiari con un’età inferiore, e sussistono i requisiti patrimoniali e di reddito prescritti dalla legge, si ha comunque diritto al reddito di cittadinanza.

Non ci sono enormi differenze, ad ogni modo, tra i requisiti prescritti per il reddito di cittadinanza e quelli prescritti per la pensione di cittadinanza.

Requisiti per ottenere reddito e pensione di cittadinanza

Nel dettaglio, è possibile chiedere il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza se si è maggiorenni e si soddisfano le seguenti condizioni:

  • per il reddito di cittadinanza, bisogna trovarsi in stato di disoccupazione o risultare inoccupati (cioè avere perso il posto o non avere mai lavorato); questo requisito non è richiesto ai beneficiari della pensione di cittadinanza, né agli studenti o ai lavoratori; chi ha presentato le dimissioni è escluso dal reddito di cittadinanza per un anno, così come i detenuti ed i ricoverati in una struttura a carico dello Stato;
  • sia per il reddito che per la pensione di cittadinanza, bisogna poi essere in possesso della cittadinanza italiana o di paesi facenti parte dell’Unione europea, o essere familiari di un titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, o cittadini di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo;
  • bisogna inoltre risultare residenti in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo;
  • l’Isee del nucleo familiare deve risultare inferiore a 9.360 euro;
  • per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, il valore del reddito familiare deve risultare inferiore a 6 mila euro, per il singolo componente; per quanto riguarda la pensione di cittadinanza, il valore del reddito familiare deve risultare inferiore a 7.560 euro; l’importo è elevato sino a 9.360 euro per chi paga l’affitto ed è da adeguare col parametro della scala di equivalenza, come vedremo meglio più avanti;
  • per entrambi i sussidi, gli immobili posseduti, oltre alla prima casa, devono avere un valore complessivo inferiore a 30mila euro;
  • per entrambi i sussidi, il patrimonio mobiliare familiare (conti, carte prepagate, titoli, libretti, partecipazioni…) deve risultare non superiore a 6mila euro; la soglia è incrementata di 2mila euro per ogni componente del nucleo familiare successivo al primo, fino ad un massimo di 10 mila euro, incrementati di ulteriori mille euro per ogni figlio successivo al secondo; i massimali sono ulteriormente incrementati di 5mila euro per ogni familiare del nucleo con disabilità, come definita a fini Isee;
  • per entrambi i sussidi, nessun componente del nucleo deve risultare in possesso di autoveicoli immatricolati da meno di 6 mesi, o con cilindrata superiore a 1.600 cc, o di motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc, immatricolati nei 2 anni precedenti, navi o imbarcazioni da diporto; sono esclusi dal limite i veicoli per disabili;
  • è indispensabile, per poter richiedere il reddito o la pensione di cittadinanza, che sia presente una  dichiarazione Isee in corso di validità per il nucleo familiare.

Differenze d’importo tra reddito e pensione di cittadinanza

La determinazione dell’importo del reddito di cittadinanza è molto simile alla determinazione della pensione di cittadinanza. Nel dettaglio, l’importo dei sussidi è determinato da due quote:

  • per il reddito di cittadinanza, la prima quota, a integrazione del reddito familiare, ammonta a una soglia massima pari a 6mila euro annui, cioè a 500 euro al mese, se nel nucleo familiare c’è una sola persona; per ogni persona in più, si applica una maggiorazione dello 0,4 se maggiorenne, dello 0,2 se minorenne; in presenza di più componenti si può arrivare a massimo 12.600 euro annui, cioè a 1.050 euro al mese, in quanto le maggiorazioni non possono superare 2,1;
  • per la pensione di cittadinanza, la prima quota, a integrazione del reddito familiare, ammonta a una soglia massima pari a 7.560 euro annui, cioè a 630 euro al mese, se nel nucleo familiare c’è una sola persona; in presenza di più componenti si può arrivare a massimo 15.876 euro annui, cioè a 1.323 euro al mese, in quanto le maggiorazioni non possono superare 2,1;
  • la seconda quota, per il reddito di cittadinanza, è riconosciuta:
    •  ai nuclei che pagano l’affitto dell’abitazione, ed è pari al canone annuo previsto dal contratto di affitto, sino a un massimo di 3.360 euro all’anno, 280 euro al mese;
    • ai nuclei residenti in abitazioni di proprietà per il cui acquisto o per la cui costruzione sia stato stipulato un contratto di mutuo da un componente della famiglia, ed è pari alla rata del mutuo, fino a un massimo di 150 euro al mese, 1.800 euro annui;
  • la seconda quota, per la pensione di cittadinanza, è riconosciuta:
    •  ai nuclei che pagano l’affitto dell’abitazione, ed è pari al canone annuo previsto dal contratto di affitto, sino a un massimo di 1.800 euro all’anno, 150 euro al mese;
    • ai nuclei residenti in abitazioni di proprietà per il cui acquisto o per la cui costruzione sia stato stipulato un contratto di mutuo da un componente della famiglia, ed è pari alla rata del mutuo, fino a un massimo di 150 euro al mese, 1.800 euro annui.

In ogni caso, entrambi i sussidi:

  • non possono superare la soglia di 9.360 euro annui (780 euro al mese) nel caso di nucleo familiare con un solo componente, ridotta del valore del reddito familiare; la misura massima in caso di più componenti può arrivare, in teoria, a 19.656 euro annui, 1.638 euro mensili; in concreto, per il 2019, la soglia massima arriva a 1.330 euro mensili per il reddito di cittadinanza ed a 1.473 euro mensili per la pensione di cittadinanza;
  • non possono essere inferiore a 480 euro annui (40 euro al mese).

Adempimenti per mantenere pensione e reddito di cittadinanza

La pensione di cittadinanza, essendo una prestazione destinata a nuclei familiari in cui tutti i componenti sono over 67, non richiede la stipula del patto per il lavoro, e lo svolgimento di tutti gli adempimenti connessi alle attività di politica attiva del lavoro (ricerca di un nuovo impiego, partecipazione a selezioni, colloqui, corsi di orientamento e formazione, svolgimento di servizi gratuiti a favore del proprio Comune…).

Restano, però, diversi obblighi, come quello di dichiarare tempestivamente le variazioni di reddito e di spendere il sussidio mensile accreditato (se l’importo erogato non è speso per intero, si rischia la riduzione del sussidio il mese successivo, sino al 20%).

Per approfondire: Reddito di cittadinanza, adempimenti.


Pensione: come recuperare i periodi di disoccupazione

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Contributi figurativi, contributi volontari, riscatto e pace contributiva: come far valere ai fini della pensione i periodi in cui non è stata svolta attività lavorativa.

Una volta perso il lavoro, complice la crisi ormai strutturale, possono passare dei mesi, o addirittura degli anni, prima di riuscire a trovare una nuova occupazione. Alla perdita dell’impiego, nella maggior parte dei casi, segue dunque un lungo periodo privo di contribuzione, in quanto nessuna attività lavorativa viene svolta.

Ma si possono recuperare questi periodi ai fini della pensione? Innanzitutto, bisogna osservare che, se si tratta di periodi di disoccupazione indennizzati, ad esempio con l’indennità Naspi, non ci sono problemi: i periodi in cui si percepisce un’indennità di disoccupazione, difatti, sono coperti grazie ai contributi figurativi accreditati automaticamente dall’Inps.

Ma che cosa fare per i periodi nei quali non è percepito un sussidio di disoccupazione? È possibile coprirli, anche tardivamente, con dei versamenti di contributi? Purtroppo, la copertura tardiva non sempre è possibile; il “trucco”, per essere sicuri di non perdere questi periodi, è giocare d’anticipo: si può infatti chiedere all’Inps l’autorizzazione al versamento dei contributi volontari, in modo che le settimane di non occupazione siano utili sia al diritto che alla misura del trattamento di pensione.

Ma se i contributi volontari non sono stati versati al momento è possibile versarli successivamente? Oppure i periodi di disoccupazione non contribuiti si possono riscattare? Facciamo il punto della situazione sulla pensione: come recuperare i periodi di disoccupazione.

Disoccupazione indennizzata

In primo luogo, come abbiamo appena osservato, quando il periodo di disoccupazione è indennizzato, ad esempio con la Naspi (ma lo stesso discorso vale anche per le precedenti indennità di disoccupazione, come Aspi e mini Aspi, per la disoccupazione agricola, la DS, etc.), l’Inps accredita automaticamente i contributi figurativi.

In parole semplici, il periodo nel quale si percepisce un sussidio di disoccupazione è pienamente utile ai fini del diritto e della misura della pensione. Attenzione, però: presso alcune gestioni amministrate dall’Inps, i periodi di disoccupazione indennizzata non valgono per il computo del minimo di 35 anni utili alla pensione di anzianità. Per quasi tutte le pensioni di anzianità e anticipate, difatti, è prevista, assieme agli altri requisiti prescritti per il diritto al trattamento, la maturazione di un minimo di 35 anni di contributi “al netto” dei periodi di disoccupazione indennizzata e di malattia non integrata dal datore di lavoro.

Facciamo un esempio per capire meglio:

  • per ottenere la pensione anticipata con quota 100 è necessario un minimo di 38 anni di contributi; i periodi di disoccupazione indennizzata per i quali sono accreditati i contributi figurativi valgono pienamente per raggiungere questi 38 anni;
  • oltre alla verifica dei 38 anni di contribuzione (ed alla verifica dell’età minima di 62 anni di età), però, per ottenere la prestazione è anche richiesta la verifica di un minimo di 35 anni di contribuzione, che devono essere raggiunti senza contare i periodi di disoccupazione indennizzata e di malattia non integrata;
  • se questo requisito non è verificato (nel caso in cui la gestione Inps lo preveda) non si ha diritto alla pensione quota 100, nonostante il possesso di 38 anni di contributi e di 62 anni di età;
  • le stesse regole valgono per la pensione anticipata ordinaria, e per la generalità delle pensioni di anzianità/anticipate corrisposte dall’Inps (ad eccezione della pensione anticipata contributiva).

Contributi volontari

Se il lavoratore ha terminato il periodo di disoccupazione senza trovare un nuovo impiego, oppure non ha diritto ad alcuna indennità di disoccupazione, il periodo di non lavoro non è coperto dai contributi figurativi dell’Inps.

Il disoccupato, però, può chiedere all’Inps l’autorizzazione al versamento dei contributi volontari: in questo modo, il periodo non lavorato risulterà pienamente coperto da contribuzione, che però l’interessato dovrà pagare di tasca propria.

A quanto ammontano i contributi volontari? Per i lavoratori dipendenti, attualmente i contributi volontari si calcolano in questo modo: bisogna considerare l’imponibile Inps, che nella maggior parte dei casi coincide con la retribuzione lorda, degli ultimi 12 mesi, e moltiplicarlo per il 33% (l’aliquota vigente per i contributi obbligatori dei lavoratori subordinati; l’aliquota è più bassa per gli autorizzati prima del 1996), per avere il costo di un anno di contributi volontari.  Per approfondire: Calcolo contributi volontari dipendenti.

Questi contributi, ad ogni modo, devono essere versati su base trimestrale, utilizzando i bollettini inviati periodicamente dall’Inps. Per chi è già stato autorizzato da tempo al versamento dei contributi volontari, si utilizza l’imponibile considerato al momento della domanda di autorizzazione.

Recupero di periodi di disoccupazione senza contributi

Che cosa può fare il lavoratore nel caso in cui il periodo di disoccupazione sia già trascorso, e non risulti coperto da contributi figurativi né volontari? I contributi volontari possono essere accreditati retroattivamente? Purtroppo, questo non è consentito dalla legge, che non permette il versamento retroattivo di contribuzione volontaria (possono essere coperti solo i 6 mesi che precedono la domanda di autorizzazione al versamento dei contributi volontari).

Tuttavia, ci sono alcuni casi in cui i periodi di disoccupazione si possono riscattare.

Riscatto dei periodi di disoccupazione

Se il periodo di disoccupazione è successivo al 31 dicembre 1996, e si tratta di un periodo non lavorato collocato tra più impieghi precari (ad esempio tra due lavori stagionali), è possibile riscattarlo.

Nello specifico, possono essere riscattati i periodi corrispondenti ad intervalli tra lavori discontinui, stagionali o temporanei successivi al 31 dicembre 1996. Gli interessati devono provare la regolare iscrizione nelle liste di collocamento (per i periodi in cui questo requisito era previsto al fine di comprovare lo stato di disoccupazione) e il permanere dello stato di disoccupazione per tutto il periodo per il quale richiedono la copertura assicurativa.

In sostanza, pagando l’onere stabilito dalla legge, l’interessato può recuperare i periodi di disoccupazione tra lavori precari dal 1997 in poi.

Pace contributiva

Il lavoratore, se non possiede contributi accreditati al 31 dicembre 1995, ha anche la possibilità di riscattare i periodi non contribuiti, che si collocano fra il primo e l’ultimo versamento presso una determinata gestione previdenziale. In sostanza, questo intervento, che si chiama pace contributiva, consente di coprire i “buchi contributivi” dal 1° gennaio 1996 in poi, fino a un massimo di cinque anni. Per approfondire: Pace contributiva.

Come si calcola il riscatto?

L’onere di riscatto si calcola in modo differente, a seconda che i periodi ricadano nel sistema di calcolo retributivo o contributivo (relativamente alla pace fiscale, i periodi possono ricadere nel solo calcolo contributivo). Per approfondire: Come calcolare il costo del riscatto.

Assunzione di un lavoratore pensionato: adempimenti

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Quali sono le pratiche necessarie per assumere un lavoratore dipendente già in pensione, in quali casi bisogna applicare le trattenute sullo stipendio.

Devi assumere un lavoratore che è già in pensione? Devi sapere che la legge lo consente: in alcuni casi, però, il reddito di lavoro dipendente è cumulabile limitatamente con la pensione. Anche se il generale divieto di cumulo tra lavoro e pensione, difatti, è stato abolito per la maggior parte dei trattamenti diretti (come la pensione di vecchiaia, anticipata e di anzianità, ad esclusione di alcune pensioni calcolate col sistema contributivo), il limite resta per alcune pensioni, come quella di reversibilità e d’invalidità o inabilità specifica, e per la nuova pensione quota 100: il divieto di cumulo è assoluto per la pensione anticipata dei lavoratori precoci, per il periodo che va dalla data di decorrenza della pensione alla data di maturazione dei requisiti per la pensione anticipata ordinaria.

Se la pensione è integrata al minimo o maggiorata, la percezione del reddito di lavoro dipendente può far decadere dal diritto all’integrazione.

Il datore di lavoro che assume un pensionato, oltre agli ordinari adempimenti, come la predisposizione della lettera d’assunzione e l’invio del modello Unilav, deve dunque verificare se la pensione percepita è cumulabile pienamente coi redditi di lavoro o meno: se il trattamento può essere cumulato con lo stipendio sino a un determinato limite (solitamente, il limite è specificato dall’Inps nel provvedimento di liquidazione della pensione), il datore di lavoro può essere obbligato a trattenere dalla busta paga l’importo non cumulabile ed a versarlo all’Inps.

Ma procediamo per ordine e facciamo il punto sull’assunzione di un lavoratore pensionato: adempimenti generali e specifici, che cosa deve fare il datore di lavoro.

Contratto di lavoro subordinato

Il primo passo da fare per mettere in regola il dipendente pensionato, così come per la generalità dei lavoratori subordinati, è la stipula del contratto di lavoro.

Il contratto di lavoro è il documento fondamentale su cui si basa il rapporto lavorativo: se manca il contratto scritto, il rapporto di lavoro non è nullo, ma non è possibile provare l’esistenza di eventuali clausole, come il patto di prova o il termine.

Bisogna poi considerare che non esiste un solo tipo di contratto di lavoro, ma questo cambia a seconda del tipo di rapporto:

  • si considera contratto di lavoro subordinato l’accordo con il quale il lavoratore si obbliga a prestare la propria attività manuale o intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro, in cambio di una determinata retribuzione;
  • nel contratto di lavoro autonomo, invece, il lavoratore si impegna a compiere una determinata opera, manuale o intellettuale, a favore di un committente, assumendosi il rischio economico della sua esecuzione e facendo prevalentemente ricorso al proprio lavoro personale;
  • nel contratto di lavoro parasubordinato (conosciuto come co.co.co. o collaborazione), il lavoratore si impegna comunque col committente al raggiungimento di un determinato risultato ma, a differenza del lavoro autonomo, l’attività deve essere svolta in modo coordinato, cioè in funzione delle finalità e delle necessità organizzative del committente, che può fornire direttive al collaboratore nei limiti della sua autonomia professionale.

Il contratto di lavoro, come la generalità dei contratti, deve avere i seguenti requisiti essenziali:

  • il consenso delle parti;
  • la forma: il contratto di lavoro, per essere valido, può essere concluso anche in forma orale; la forma scritta eventualmente richiesta dai contratti collettivi serve però per provare il suo contenuto; la forma scritta è comunque richiesta, assieme alla sottoscrizione del contratto, per la validità di particolari clausole, come il patto di prova o di non concorrenza e il termine del rapporto di lavoro;
  • la causa, cioè lo scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, che deve essere lecita;
  • l’oggetto, cioè l’attività (manuale o intellettuale) che il lavoratore deve prestare, che deve essere lecita, possibile, determinata o determinabile.

Se questi elementi mancano al momento della stipula del contratto, il contratto di lavoro è invalido; se vengono a mancare quando il rapporto lavorativo è in corso, questo può essere sospeso o cessare. Se nel contratto di lavoro dipendente sono presenti clausole vietate, il contratto è comunque valido, ma le clausole illecite sono nulle.

Per approfondire: Come compilare il contratto di lavoro dipendente.

Informativa privacy

Il datore di lavoro è obbligato a ottenere il consenso informato del lavoratore al trattamento dei suoi dati. L’informativa privacy per il lavoratore, in particolare, deve riportare: chi è il titolare del trattamento dati e chi sono gli eventuali incaricati, chi sono gli ulteriori responsabili, quali sono le modalità del trattamento (ad esempio trattamento automatizzato o cartaceo) e le finalità del trattamento (ad esempio elaborazione delle buste paga, comunicazione agli enti, rapporti con le banche, ecc.), qual è l’ambito di diffusione dei dati e quali sono i diritti riconosciuti dalla legge.

È necessario spiegare al lavoratore, nell’informativa, le eventuali conseguenze del diniego del consenso al trattamento dei dati. Inoltre, secondo le previsioni della nuova normativa sulla privacy, lo si deve informare riguardo alla durata della conservazione dei dati personali ed in caso di violazione degli stessi.

Come deve essere inquadrato il lavoratore pensionato?

L’inquadramento contrattuale del lavoratore non dipende dal fatto che sia pensionato o meno, ma dalla sua esperienza e dalle mansioni che sono concretamente svolte.

Per stabilire l’appartenenza a un determinato livello i contratti collettivi riportano delle definizioni generali (cosiddette declaratorie) delle caratteristiche dell’attività prestata, nonché un elenco(esemplificazione) dei diversi profili professionali specifici e, quindi, delle mansioni o delle professionalità comprese in ciascun livello.

L’inquadramento previsto nei contratti collettivi è unico, senza una distinzione netta tra operai e impiegati: può dunque accadere che gruppi di impiegati e operai possano essere collocati nello stesso livello.

Come si comunica l’assunzione del lavoratore pensionato?

Anche per l’assunzione di un lavoratore pensionato è obbligatorio comunicare ai servizi per l’impiego del proprio territorio l’avvio del rapporto di lavoro, assieme ai suoi dati essenziali. La comunicazione deve avvenire almeno 24 ore prima dell’inizio dell’attività, attraverso il modello Co Unilav.

Nel modello Co Unilav, in particolare, devono essere riportati:

  • i dati del datore di lavoro: denominazione, sede legale e sede operativa, codice Ateco dell’attività svolta, codice fiscale, recapiti;
  • i dati del lavoratore: nome, cognome, data e luogo di nascita, codice fiscale, indirizzo;
  • i dati del rapporto di lavoro: data assunzione, eventuale data di termine del rapporto, eventuale durata del periodo di formazione (in caso di apprendisti), codice Inps e Inail del datore di lavoro, tipologia di rapporto (ad esempio a tempo determinato, indeterminato, apprendistato…); bisogna poi indicare se si tratta di lavoro stagionale, in mobilità o di socio lavoratore, il tipo di orario (tempo pieno, tempo parziale orizzontale, verticale o misto), le ore settimanali medie di lavoro, la qualifica professionale Istat (ad esempio aiuto commesso), il contratto collettivo applicato, il livello d’inquadramento, la retribuzione annua prevista e se si tratta di un rapporto di lavoro in agricoltura;
  • infine, nella sezione dati invio vanno riportati i dati di chi effettua la comunicazione Unilav (ad esempio del consulente del lavoro).

In quali casi lo stipendio non può essere cumulato con la pensione?

I redditi di lavoro possono essere cumulati limitatamente con i redditi di pensione nei seguenti casi:

  • pensione dei lavoratori precoci: la prestazione non può essere cumulata col reddito di lavoro per il periodo che va dalla decorrenza della pensione alla data di maturazione dei requisiti per la pensione anticipata ordinaria (quindi per un periodo massimo di 10 mesi per le donne e di 1 anno e 10 mesi per gli uomini, considerando che la pensione anticipata dei lavoratori precoci si ottiene con 41 anni di contributi, mentre la pensione anticipata ordinaria con 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne e con 42 anni e 10 mesi di contribuzione per gli uomini); il lavoratore, comunque, non decade dalla pensione, ma questa viene sospesa;
  • pensione quota 100: in base a quanto previsto dal decreto in materia, il reddito di pensione è cumulabile limitatamente col reddito di lavoro (si può soltanto conseguire un reddito di lavoro autonomo occasionale non superiore a 5mila euro annui), sino al compimento dell’età per la pensione di vecchiaia, pari dal 2019 a 67 anni; anche in questo caso la pensione è sospesa;
  • pensione di reversibilità o indiretta: la pensione è ridotta del 25% se il reddito del pensionato supera 3 volte il trattamento minimo (che dal 2019 ammonta a 513,01 euro mensili), del 40% se lo supera 4 volte e della metà se lo supera 5 volte;
  • assegno ordinario d’invalidità: la prestazione è tagliata del 25% o del 50% se il reddito di lavoro conseguito è superiore, rispettivamente, a 4 volte o a 5 volte il trattamento minimo; l’assegno subisce una seconda riduzione sull’eventuale parte eccedente il trattamento minimo; la riduzione varia a seconda della provenienza del reddito e non è applicata se l’interessato possiede almeno 40 anni di contributi:
    • se il reddito è da lavoro dipendente, il taglio della pensione è pari al 50% della quota eccedente il trattamento minimo, fermo restando che la decurtazione non può superare il reddito stesso;
    • se il reddito è da lavoro autonomo, la riduzione è pari al 30% della quota eccedente il trattamento minimo, e comunque non può essere superiore al 30% del reddito prodotto;
  • pensione d’invalidità o inabilità specifica (ad esempio per inabilità alle mansioni o a proficuo lavoro): anche in questo caso, si applica una riduzione sull’eventuale parte della pensione eccedente il trattamento minimo; la riduzione varia a seconda della provenienza del reddito e non è applicata se l’interessato possiede almeno 40 anni di contributi:
    • se il reddito è da lavoro dipendente, il taglio della pensione è pari al 50% della quota eccedente il trattamento minimo, fermo restando che la decurtazione non può superare il reddito stesso;
    • se il reddito è da lavoro autonomo, la riduzione è pari al 30% della quota eccedente il trattamento minimo, e comunque non può essere superiore al 30% del reddito prodotto.

In ogni caso la riduzione non si applica :

  • se il reddito conseguito è inferiore al trattamento minimo Inps;
  • se il pensionato è impiegato in contratti di lavoro subordinato a termine la cui durata non superi le 50 giornate nell’anno solare;
  • se il reddito deriva da attività svolte nell’ambito di programmi di reinserimento degli anziani in attività socialmente utili, promosse da enti locali ed altre istituzioni pubbliche e private;
  • se il lavoratore è occupato in qualità di operaio agricolo;
  • se il pensionato è occupato in qualità di addetto ai servizi domestici e familiari;
  • se il reddito conseguito è un’indennità percepita per l’esercizio della funzione di giudice di pace;
  • se il reddito conseguito è un’indennità o un gettone di presenza percepiti dagli amministratori locali;
  • se il reddito conseguito è un’indennità comunque connessa a cariche pubbliche elettive;
  • se il reddito conseguito è un’indennità percepita dai giudici onorari aggregati per l’esercizio delle loro funzioni;
  • se il reddito conseguito è un’indennità percepita dai giudici tributari.

Pensione calcolata col sistema contributivo

Per quanto riguarda le pensioni calcolate utilizzando il sistema contributivo, cioè per coloro che non possiedono contributi al 31 dicembre 1995 (contributivo puro), il cumulo della pensione con i redditi da lavoro è possibile a condizione che risulti soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni:

  • siano stati compiuti almeno 60 anni di età se donna o 65 anni se uomo;
  • ci siano almeno 40 anni di contribuzione;
  • ci siano almeno 35 anni di contributi e 61 anni di età.

Trattenute sullo stipendio del lavoratore

Se il lavoratore rientra in uno dei casi elencati, per i quali lo stipendio è cumulabile limitatamente, o incumulabile, con la pensione, che cosa deve fare il datore di lavoro?

Il datore di lavoro deve trattenere dallo stipendio le somme non cumulabili e provvedere al versamento di quanto trattenuto all’ente previdenziale che eroga la pensione.

La trattenuta viene, invece, effettuata dall’ente previdenziale direttamente sulla pensione nei casi di:

  • tardiva liquidazione della pensione, operando sugli arretrati;
  • attività lavorativa dipendente svolta dal pensionato all’estero; in questo caso l’interessato è tenuto a comunicare all’ente la data di inizio dell’attività, il numero delle giornate di lavoro e l’importo mensile della retribuzione;
  • possesso, da parte del pensionato, di redditi da lavoro autonomo.

La trattenuta è giornaliera, per reddito da lavoro dipendente o mensile, per reddito da lavoro autonomo.

Se il datore di lavoro non effettua la trattenuta nei casi in cui è obbligato, può essere sanzionato.

Reddito di cittadinanza: benefici per disabili

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Esonero dal patto per il lavoro e per l’inclusione sociale, patrimonio mobiliare più elevato, rifiuto al trasferimento: agevolazioni reddito di cittadinanza per disabili e loro familiari.

I disabili appartenenti a un nucleo familiare in condizioni di bisogno economico vedranno a breve aumentare le prestazioni a cui hanno diritto: grazie al reddito di cittadinanza, difatti, tutti coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà, e che possiedono determinati requisiti patrimoniali, potranno ricevere un trattamento pari a un massimo di 780 euro al mese.

Chi percepisce già un trattamento dall’Inps legato all’invalidità, ad esempio la pensione d’invalidità civile o l’assegno di accompagnamento, vedrà dunque aumentare l’importo mensile spettante, sussistendo le condizioni per il reddito di cittadinanza: inoltre, rispetto alla generalità di aventi diritto al sussidio, i disabili avranno delle agevolazioni in più. In base a quanto emerge dal decreto in  materia di reddito di cittadinanza e pensioni, in particolare, le persone con disabilità possono non essere obbligate a sottoscrivere il patto per il lavoro e il patto per l’inclusione sociale, né sono obbligate ad accettare un’offerta di lavoro lontano da casa. Inoltre, i limiti relativi al patrimonio mobiliare posseduto dal nucleo familiare (conti, libretti, depositi, carte prepagate…) sono più elevati, se c’è un componente con disabilità.

Considerando che il decreto in materia di reddito di cittadinanza e pensioni potrebbe essere modificato nella conversione in legge, potrebbero essere approvate delle nuove proposte in merito alle agevolazioni per persone con disabilità: ad esempio, si vorrebbe innalzare il limite di reddito Isee dei nuclei familiari con componenti disabili a 15mila euro.

Ma procediamo per ordine e facciamo il punto della situazione sul reddito di cittadinanza: benefici per disabili, come funziona il sussidio e quali sono le condizioni per percepirlo, che cosa succede a chi ha già diritto ai sussidi per invalidità.

Chi sono i disabili che hanno diritto al reddito di cittadinanza?

Il decreto sul reddito di cittadinanza definisce le persone con disabilità come coloro che sono considerati disabili ai fini Isee. Che cos’è l’Isee? L’Isee è l’indicatore della situazione economica equivalente, in parole semplice un indice che “misura la ricchezza” delle famiglie (se vuoi approfondire puoi leggere la nostra Guida alla dichiarazione Isee).

Ma chi è disabile ai fini Isee? Risulta disabile chi soddisfa le condizioni indicate nell’Allegato 3 al decreto Isee [1]: il decreto, in particolare, differenzia le persone con disabilità media dalle persone con disabilità grave e dai non autosufficienti. Vediamo chi rientra nelle definizioni, in base alla tabella sottostante.

Categorie
Disabilità Media
Disabilità Grave
Non autosufficienza
Invalidi civili di età compresa tra 18 e 67 anni – Invalidi 67-99% – Inabili totali – Cittadini di età compresa tra 18 e 65 anni con diritto all’indennità di accompagnamento
Invalidi civili minori di età – Minori di età con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età (diritto all’indennità di frequenza) – Minori di età con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età e in cui ricorrano le condizioni di cui alla L. 449/1997, art. 8 o della L. 388/2000, art. 30 Minori di età con diritto all’indennità di accompagnamento
Invalidi civili Over 65 (dal 2019 over 67) – Over 67 con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età, invalidi 67-99% – Over 67 con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età, inabili 100% ( – Cittadini Over 67 con diritto all’indennità di accompagnamento
Ciechi civili – Art 4 L. 138/2001 – Ciechi civili parziali – Ciechi civili assoluti
Sordi civili – Invalidi Civili con cofosi esclusi dalla fornitura protesica – Sordi pre-linguali
INPS – Invalidi (L. 222/84, artt. 1 e 6 – D.Lgs. 503/92, art. 1, comma 8) – Inabili (L. 222/84, artt. 2, 6 e 8) – Inabili con diritto all’assegno per l’assistenza personale e continuativa
INAIL – Invalidi sul lavoro 50-79%- Invalidi sul lavoro 35-59% – Invalidi sul lavoro 80-100%- Invalidi sul lavoro -59% – Invalidi sul lavoro con diritto all’assegno per l’assistenza personale e continuativa
INPS gestione ex INPDAP – Inabili alle mansioni – Inabili (L. 274/1991, art. 13 – L. 335/95, art. 2)
Trattamenti di privilegio ordinari e di guerra – Invalidi con minorazioni globalmente ascritte alla terza ed alla seconda categoria Tab. A DPR 834/81 – Invalidi con minorazioni globalmente ascritte alla prima categoria Tab. A DPR 834/81 – Invalidi con diritto all’assegno di superinvalidità
Handicap – Art 3 comma 3 L.104/92: handicap in situazione di gravità

Chi sono i disabili appartenenti alle categorie protette?

Nella parte in cui si stabiliscono le misure di politica attiva del lavoro a cui i beneficiari del reddito di cittadinanza devono partecipare, il decreto stabilisce l’esonero per i disabili potenzialmente beneficiari del collocamento mirato (che, comunque, sono tenuti agli obblighi previsti dalla legge 68 [2]). La legge sul collocamento mirato [2] comprende, tra i disabili che beneficiano di misure in materia di lavoro, delle categorie differenti.

Appartengono alle categorie protette e possono iscriversi alle relative liste speciali:

  • le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali ed i portatori di handicap intellettivo, in possesso di riduzione della capacità lavorativa(invalidità) superiore al 45%;
  • gli invalidi del lavoro, con un grado di invalidità, accertato dall’Inail, superiore al 33%;
  • ciechi assoluti o le persone con un residuo visivo non superiore a 1/10 a entrambi gli occhi;
  • sordomuti, cioè le persone colpite da sordità sin dalla nascita o prima dell’apprendimento della parola;
  • le persone che percepiscono l’assegno di invalidità civile, per accertamento da parte dell’Inps di una riduzione permanente a meno di 1/3 della capacità lavorativa;
  • gli invalidi di guerra, gli invalidi civili di guerra e gli invalidi per servizio con minorazioni ascritte dalla 1° all’8° categoria.

Gli invalidi totali (con percentuale di invalidità pari al 100%) possono iscriversi nelle liste speciali per accedere al lavoro o a percorsi di inserimento mirato, ma soltanto se possiedono ancora una residua capacità lavorativa.

Come funziona il reddito di cittadinanza?

Il reddito di cittadinanza consiste in una prestazione economica mensile, esentasse, accreditata a favore di coloro che possiedono un reddito sotto la soglia di povertà.

È considerato al di sotto della soglia di povertà ai fini del reddito di cittadinanza chi possiede un reddito inferiore ai 780 euro mensili, in caso di nucleo familiare che paga l’affitto o il mutuo, con un solo componente: in caso di nucleo con più componenti, il reddito è aumentato dello 0,4 per ogni componente maggiorenne e dello 0,2 per ogni componente minorenne, sino a un massimo di 2,1, quindi di 1.638 euro al mese. Con riferimento al singolo componente, bisogna anche possedere una soglia di reddito personale non superiore ai 6mila euro annui, che sale a 7.560 euro se il beneficiario ha dai 65 anni in su, quindi ha diritto alla pensione di cittadinanza.

L’indicatore Isee della famiglia (si tratta, in pratica, di un indice che “misura la ricchezza delle famiglie”) richiesto per il diritto al sussidio ammonterà a 9.360 euro. Inoltre sono previsti limiti legati al patrimonio mobiliare e immobiliare.

La prestazione sarà erogata con una carta acquisti, una sorta di bancomat, che consentirà di pagare le utenze, di acquistare beni e di prelevare contanti sino a 100 euro al mese.

Chi ha diritto al reddito di cittadinanza?

Possono chiedere il reddito di cittadinanza i cittadini maggiorenni che soddisfano le seguenti condizioni:

  • si trovano in stato di disoccupazione o risultano inoccupati (cioè hanno perso il posto o non hanno mai lavorato); coloro che hanno presentato le dimissioni sono esclusi dal reddito per un anno (in questo caso è escluso l’intero nucleo familiare), così come i detenuti ed i ricoverati in una struttura a carico dello Stato;
  • sono in possesso della cittadinanza italiana o di paesi facenti parte dell’Unione europea, o sono familiari di un titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, o cittadini di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo;
  • sono residenti in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo;
  • percepiscono un reddito o una pensione inferiore alla soglia di povertà, cioè sotto i 780 euro mensili, da moltiplicare per il parametro della scala di equivalenza;
  • possiedono un Isee del nucleo familiare inferiore a 9.360 euro;
  • possiedono un valore del reddito familiare inferiore a 6 mila euro, per il singolo componente, o a 7.560 euro, in caso di pensione di cittadinanza; l’importo è elevato sino a 9.360 euro per chi paga l’affitto o il mutuo ed è da adeguare col parametro della scala di equivalenza;
  • possiedono al massimo due immobili nel nucleo familiare, ma il secondo immobile non deve avere un valore superiore a 30mila euro;
  • possiedono un patrimonio mobiliare familiare (conti, carte prepagate, titoli, libretti, partecipazioni…) non superiore a 6mila euro; la soglia è incrementata di 2mila euro per ogni componente del nucleo familiare successivo al primo, fino ad un massimo di 10 mila euro, incrementati di ulteriori mille euro per ogni figlio successivo al secondo; i massimali sono ulteriormente incrementati di 5mila euro per ogni componente con disabilità, come definita a fini Isee, presente nel nucleo;
  • nessun componente del nucleo deve possedere autoveicoli con cilindrata superiore a 1.600 cc, o immatricolati nei 6 mesi precedenti, e motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc, immatricolati la prima volta nei due anni antecedenti, fatti salvi gli autoveicoli e i motoveicoli per cui è prevista una agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilità;
  • nessun componente del nucleo deve possedere navi o imbarcazioni da diporto.

Patto per il lavoro e per l’inclusione sociale

Il reddito di cittadinanza spetta se i componenti del nucleo familiare maggiorenni:

  • dichiarano immediata disponibilità al lavoro;
  • aderiscono ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale: il percorso prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, ed ulteriori impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale.

Sono tenuti a rispettare questi obblighi tutti i componenti del nucleo familiare che siano maggiorenni, non già occupati e non frequentanti un regolare corso di studi o di formazione.

Sono esonerati dagli obblighi del percorso personalizzato anche i componenti del nucleo di età pari o superiore a 67 anni ed i disabili, come definiti dalla normativa sul collocamento mirato.

Possono essere esonerati da alcuni obblighi legati all’accettazione delle offerte di lavoro i disabili, come definiti ai fini Isee, e le persone con carichi di cura.

Benefici reddito di cittadinanza per disabili

I disabili, in base a quanto previsto nel decreto sul reddito di cittadinanza, hanno delle agevolazioni per accedere al sussidio. In particolare:

  • possono essere esclusi dall’obbligo di sottoscrivere il patto per il lavoro e per l’inclusione sociale; se esclusi, non devono impegnarsi nelle attività di politica attiva del lavoro e non sono soggetti alle misure di condizionalità per ricevere la prestazione;
  • possono essere esclusi dall’obbligo di accettare un’offerta di lavoro lontano da casa; se lo fanno, continuano a percepire il reddito di cittadinanza per tre mesi; questo trattamento di favore spetta anche ai componenti della famiglia;
  • se il loro nucleo familiare decade dal reddito di cittadinanza, i termini per presentare una nuova domanda sono ridotti a 6 mesi, anziché essere pari a 18 mesi;
  • il loro nucleo familiare beneficia di un incremento della soglia massima di patrimonio mobiliare (conti, carte, libretti, titoli, partecipazioni…) pari a 5mila euro;
  • il loro nucleo familiare può possedere autoveicoli immatricolati per la prima volta nei sei mesi che precedono la domanda di sussidio, o autoveicoli di cilindrata superiore a 1.600 cc, nonché motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc, immatricolati la prima volta nei due anni antecedenti, se si tratta di autoveicoli o motoveicoli per cui è prevista un’agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilità.

Benefici reddito di cittadinanza per chi assiste disabili

Chi appartiene a una famiglia in cui sono presenti minori di tre anni, disabili gravi o non autosufficienti, può essere esonerato dagli obblighi connessi alla fruizione del reddito di cittadinanza.

Inoltre, se nel nucleo familiare è presente un disabile, si ha diritto alle agevolazioni appena osservate: possibilità di rifiutare un lavoro distante da casa, possibilità di possedere auto e moto nuove di grossa cilindrata, se acquistate per il trasporto di un disabile, incremento della soglia massima di patrimonio mobiliare, termini ridotti per presentare una nuova domanda di sussidio.

Reddito di cittadinanza e trattamenti di assistenza

Il decreto prevede che, ai fini del diritto al reddito di cittadinanza, il reddito familiare:

  • è determinato al netto dei trattamenti di assistenza (ad esempio la pensione d’invalidità o inabilità civile, l’assegno di frequenza…) eventualmente inclusi nell’Isee;
  • include i trattamenti di assistenza in godimento da parte dei componenti del nucleo familiare, escluse le prestazioni non sottoposte alla prova dei mezzi, come l’assegno di accompagnamento.

Nel valore dei trattamenti di assistenza non rilevano:

  • il pagamento di arretrati;
  • le riduzioni nella compartecipazione al costo dei servizi;
  • le esenzioni e agevolazioni per il pagamento di tributi;
  • i rimborsi di spese sostenute;
  • i buoni servizio e gli altri titoli che svolgono la funzione di sostituzione di servizi;
  • il  bonus bebè.

Reddito di cittadinanza per chi assiste disabili

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Agevolazioni per le persone con carichi di cura: più facile ottenere il reddito, requisiti flessibili, possibilità di esonero dagli obblighi collegati alla ricerca di lavoro.

Se nel tuo nucleo familiare è presente un disabile, oppure un minore di tre anni, devi sapere che puoi aver diritto ad alcune agevolazioni per ottenere il reddito di cittadinanza. Puoi difatti essere esonerato dagli adempimenti legati alla ricerca di lavoro, alla formazione ed alla riqualificazione, e non sei obbligato ad accettare un’offerta di lavoro lontano dalla tua abitazione ed a lavorare gratis per il tuo Comune.
Inoltre, per la presenza di un disabile nel tuo nucleo familiare, risultano più flessibili alcuni requisiti patrimoniali richiesti per ottenere il reddito: ad esempio, per ogni disabile presente in famiglia le soglie massime di patrimonio mobiliare (conti, carte, depositi, libretti, buoni, partecipazioni…) che possono essere possedute sono innalzate di 5mila euro. Anche i limiti relativi ai veicoli posseduti non si applicano, se i mezzi sono destinati al trasporto di un disabile.
Ma procediamo per ordine e vediamo quali sono le agevolazioni nel reddito di cittadinanza per chi assiste disabili e minori di 3 anni.

Chi sono i disabili ai fini del reddito di cittadinanza?

Il decreto sul reddito di cittadinanza definisce le persone con disabilità come coloro che sono considerati disabili ai fini Isee. Che cos’è l’Isee? L’Isee è l’indicatore della situazione economica equivalente, in parole semplice un indice che “misura la ricchezza” delle famiglie (se vuoi approfondire puoi leggere la nostra Guida alla dichiarazione Isee).

Ma chi è disabile, secondo la normativa sull’Isee? Risulta disabile chi soddisfa le condizioni indicate nell’Allegato 3 al decreto Isee [1]: il decreto, in particolare, differenzia le persone con disabilità media dalle persone con disabilità grave e dai non autosufficienti. Vediamo chi rientra nelle definizioni, in base alla tabella sottostante, e cerchiamo di capire se i portatori di handicap beneficiari della Legge 104 sono compresi.

Categorie
Disabilità Media
Disabilità Grave
Non autosufficienza
Invalidi civili di età compresa tra 18 e 67 anni – Invalidi 67-99% – Inabili totali – Cittadini di età compresa tra 18 e 67 anni con diritto all’indennità di accompagnamento
Invalidi civili minori di età – Minori di età con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età (diritto all’indennità di frequenza) – Minori di età con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età e in cui ricorrano le condizioni di cui alla L. 449/1997, art. 8 o della L. 388/2000, art. 30 Minori di età con diritto all’indennità di accompagnamento
Invalidi civili ultra sessantacinquenni

(dal 2019, col termine si intende chi è al di sopra dei 67 anni)

– Ultra sessantacinquenni con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età, invalidi 67-99% – Ultra sessantacinquenni con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età, inabili 100% – Cittadini ultra sessantacinquenni con diritto all’indennità di accompagnamento
Ciechi civili – Art 4 L. 138/2001 – Ciechi civili parziali – Ciechi civili assoluti
Sordi civili – Invalidi Civili con cofosi esclusi dalla fornitura protesica – Sordi pre-linguali
INPS – Invalidi (L. 222/84, artt. 1 e 6 – D.Lgs. 503/92, art. 1, comma 8) – Inabili (L. 222/84, artt. 2, 6 e 8) – Inabili con diritto all’assegno per l’assistenza personale e continuativa
INAIL – Invalidi sul lavoro 50-79%- Invalidi sul lavoro 35-59% – Invalidi sul lavoro 80-100%- Invalidi sul lavoro -59% – Invalidi sul lavoro con diritto all’assegno per l’assistenza personale e continuativa
INPS gestione ex INPDAP – Inabili alle mansioni (L. 379/55, DPR 73/92 e DPR 171/2011) – Inabili (L. 274/1991, art. 13 – L. 335/95, art. 2)
Trattamenti di privilegio ordinari e di guerra – Invalidi con minorazioni globalmente ascritte alla terza ed alla seconda categoria Tab. A DPR 834/81 – Invalidi con minorazioni globalmente ascritte alla prima categoria Tab. A DPR 834/81 – Invalidi con diritto all’assegno di super invalidità (Tabella E allegata al DPR 834/81)
Handicap – Art 3 comma 3 L.104/92
Col termine ultrasessantacinquenni si intendono, dal 2019, coloro che hanno superato i 67 anni.
Nella parte in cui si stabiliscono le misure di politica attiva del lavoro a cui i beneficiari del reddito di cittadinanza devono partecipare, il decreto stabilisce però che sono esonerati i disabili potenzialmente beneficiari del collocamento mirato. La legge sul collocamento mirato [2] comprende, tra i disabili che beneficiano di misure specifiche in materia di lavoro, delle categorie differenti.

Appartengono alle categorie protette e possono iscriversi alle relative liste speciali:

  • le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali ed i portatori di handicap intellettivo, in possesso di riduzione della capacità lavorativa(invalidità) superiore al 45%;
  • gli invalidi del lavoro, con un grado di invalidità, accertato dall’Inail, superiore al 33%;
  • ciechi assoluti o le persone con un residuo visivo non superiore a 1/10 a entrambi gli occhi;
  • sordomuti, cioè le persone colpite da sordità sin dalla nascita o prima dell’apprendimento della parola;
  • le persone che percepiscono l’assegno di invalidità civile, per accertamento da parte dell’Inps di una riduzione permanente a meno di 1/3 della capacità lavorativa;
  • gli invalidi di guerra, gli invalidi civili di guerra e gli invalidi per servizio con minorazioni ascritte dalla 1° all’8° categoria.

Gli invalidi totali (con percentuale di invalidità pari al 100%) possono iscriversi nelle liste speciali per accedere al lavoro o a percorsi di inserimento mirato, ma soltanto se possiedono ancora una residua capacità lavorativa.

Chi sono le persone con carichi di cura?

Ai fini del reddito di cittadinanza, sono definite persone con carichi di cura, o caregiver, coloro che assistono un disabile grave o non autosufficiente, come definito ai fini Isee. Nella tabella che abbiamo osservato, bisogna dunque riferirsi alle categorie elencate sotto la colonna della disabilità grave e della non autosufficienza, per valutare se chi assiste il disabile ha diritto alle agevolazioni previste dal decreto sul reddito di cittadinanza.
Inoltre, sono definiti dal decreto persone con carichi di cura anche coloro che assistono un minore di tre anni. Sono esonerati da alcuni adempimenti anche i componenti del nucleo familiare in cui è presente almeno un disabile (come definito dal decreto Isee, anche non grave o non autosufficiente).

Quali sono le agevolazioni per chi ha carichi di cura?

Chi ha dei carichi di cura può essere esonerato dagli adempimenti legati alla ricerca di lavoro, alla formazione ed alla riqualificazione.
Nel dettaglio, i caregiver non sono obbligati ad accettare un’offerta di lavoro distante dalla propria abitazione oltre 250 km. In pratica, a chi assiste minori o disabili non si applica la disposizione secondo la quale, una volta rinnovato il reddito di cittadinanza, o rifiutate due offerte di lavoro congrue, si è tenuti ad accettare un’offerta di lavoro ovunque nel territorio italiano.

Inoltre, chi ha dei carichi di cura può essere esonerato dalla sottoscrizione del patto Per il lavoro e dagli obblighi collegati.

In ogni caso, i caregiver non sono obbligati a prestare servizio gratuito presso il proprio Comune di residenza.

Quali sono gli obblighi di chi sottoscrive il patto per il lavoro?

I beneficiari del reddito di cittadinanza non esonerati dagli obblighi devono stipulare, presso un centro per l’impiego o un intermediario accreditato, un patto per il lavoro, che ha le stesse caratteristiche del patto di servizio personalizzato previsto per chi richiede l’indennità di disoccupazione, ma prevede delle attività aggiuntive.

In particolare, sottoscrivendo il patto per il lavoro ci si obbliga a:

  • collaborare con l’operatore addetto alla redazione del bilancio delle competenze, ai fini della definizione del patto per il lavoro;
  • accettare espressamente gli obblighi e rispettare gli impegni previsti nel patto per il lavoro e, in particolare:
  • registrarsi sull’apposita piattaforma digitale Siulp, e consultarla quotidianamente come supporto nella ricerca del lavoro;
  • svolgere attività di ricerca attiva di lavoro, secondo le modalità definite nel patto;
  • accettare di essere avviato ai corsi di formazione o riqualificazione professionale, o ai progetti per favorire l’auto-imprenditorialità, secondo le modalità individuate nel patto, tenuto conto del bilancio delle competenze, delle inclinazioni professionali o di eventuali specifiche propensioni;
  • sostenere i colloqui psicoattitudinali e le eventuali prove di selezione finalizzate all’assunzione, su indicazione dei servizi competenti e in attinenza alle competenze certificate;
  • accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue; in caso di fruizione del beneficio in fase di rinnovo, deve essere accettata, a pena di decadenza dal beneficio, la prima offerta utile di lavoro congrua;
  • offrire la propria disponibilità per la partecipazione a progetti comunali utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, da svolgere presso il comune di residenza, mettendo a disposizione un massimo di 8 ore alla settimana.

Chi ha dei carichi di cura può essere esonerato da questi obblighi, e risulta comunque esonerato dall’obbligo di prestare servizio gratuito a favore del Comune di residenza e di accettare un’offerta di lavoro distante dalla residenza oltre 250 km.

Quando non si può rifiutare un’offerta di lavoro?

Chi percepisce il reddito di cittadinanza deve accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue, la prima offerta di lavoro congrua dopo 12 mesi di sussidio. Ma quando un’offerta di lavoro è congrua ai fini del reddito di cittadinanza? In base a quanto disposto dal decreto sul reddito di cittadinanza:

  • se il lavoratore percepisce il reddito di cittadinanza da non più di 6 mesi, l’offerta di lavoro deve avere le seguenti caratteristiche:
    • dal punto di vista della coerenza professionale, deve riguardare uno dei settori individuati nel patto di servizio sottoscritto dal lavoratore;
    • la retribuzione offerta deve essere maggiore di 1,2 volte l’indennità di disoccupazione percepita, se il disoccupato percepisce un trattamento di sostegno al reddito;
    • la distanza dal luogo di lavoro non può essere superiore a 100 km dalla residenza dell’interessato, o comunque deve essere raggiungibile in 100 minuti con i mezzi di trasporto pubblici, se si tratta di prima offerta; la distanza dal luogo di lavoro non può essere superiore a 250 km dalla residenza dell’interessato se si tratta di seconda offerta; la sede di lavoro può trovarsi ovunque, nel territorio italiano, se si tratta di terza offerta;
  • se il lavoratore percepisce il reddito di cittadinanza da oltre 6 mesi, l’offerta di lavoro deve avere le seguenti caratteristiche:
    • dal punto di vista della coerenza professionale, deve riguardare uno dei settori individuati nel patto di servizio sottoscritto dal lavoratore, o contigui ai settori individuati;
    • la retribuzione offerta deve essere maggiore di 1,2 volte l’indennità di disoccupazione percepita, se il disoccupato percepisce un trattamento di sostegno al reddito;
    • la distanza dal luogo di lavoro non può essere superiore a 100 km dalla residenza dell’interessato, o comunque deve essere raggiungibile in 100 minuti con i mezzi di trasporto pubblici, se si tratta di prima offerta; la distanza dal luogo di lavoro non può essere superiore a 250 km dalla residenza dell’interessato se si tratta di seconda offerta; la sede di lavoro può trovarsi ovunque, nel territorio italiano, se si tratta di terza offerta;
  • se il lavoratore ha ottenuto il rinnovo del reddito di cittadinanza, l’offerta di lavoro deve avere le seguenti caratteristiche:
    • dal punto di vista della coerenza professionale, può riguardare qualsiasi settore lavorativo;
    • la retribuzione offerta deve essere maggiore di 1,2 volte l’indennità di disoccupazione percepita, se il disoccupato percepisce un trattamento di sostegno al reddito;
    • la sede di lavoro, esclusivamente nel caso in cui nel nucleo familiare non siano presenti componenti di minore età o disabili, può trovarsi ovunque nel territorio italiano; in questo caso, il beneficiario continua a percepire il reddito di cittadinanza per altri 3 mesi, a titolo di compensazione per le spese di trasferimento sostenute.

Il rapporto di lavoro, per quanto riguarda la durata, deve essere:

  • a tempo indeterminato;
  • a termine o con contratto di somministrazione, con una durata di almeno tre mesi.

Per quanto riguarda l’orario di lavoro, il rapporto deve essere a tempo pieno, o a tempo parziale, con un orario non inferiore all’80% rispetto all’orario dell’ultimo contratto di lavoro.

Lo stipendio previsto, poi, non deve essere inferiore ai minimi della contrattazione collettiva. In base alle ultime modifiche normative, l’offerta di lavoro, per essere considerata congrua, deve superare 858 euro mensili di stipendio.

Quando un lavoratore è considerato precoce?

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Chi sono i cosiddetti lavoratori precoci, a quali agevolazioni hanno diritto per la pensione.

Chi ha iniziato a lavorare molto presto può pensionarsi prima degli altri: detta così, sembrerebbe un’affermazione scontata, in quanto chi ha iniziato a lavorare da più tempo ha alle spalle molti anni di contributi in più rispetto, ad esempio, a chi ha trovato la prima occupazione solo una volta terminati gli studi universitari. Tuttavia, non è sempre vero che chi ha iniziato a lavorare precocemente ha più anni di contributi alle spalle: molti lavoratori precoci hanno infatti carriere discontinue, a causa di impieghi precari, eccessivamente gravosi, o problematiche familiari o di salute.

Per venire incontro ai lavoratori precoci appartenenti a queste categorie svantaggiate, la legge [1] prevede la possibilità di ottenere la pensione anticipata con un requisito contributivo più leggero rispetto a quello previsto dalla Legge Fornero per la pensione anticipata ordinaria. Ma chi sono i lavoratori precoci? Quando un lavoratore è considerato precoce? Basta aver versato dei contributi all’Inps da minorenni per essere considerati precoci? Proviamo a fare chiarezza.

Da che età si può lavorare?

Secondo la legge di Tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti [2] (poi modificata dal recepimento delle direttive della Comunità Europea), non possono essere ammessi al lavoro, né destinati ad attività lavorative, i minori di età inferiore ai 15 anni o che non abbiano concluso l’istruzione obbligatoria (ne abbiamo parlato in: Qual è l’età minima per lavorare?).

La legge prevede però un’eccezione al generale divieto di far lavorare i bambini: questi, difatti, possono essere impiegati in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo, se autorizzati dai genitori e dall’ispettorato del lavoro. I bambini che lavorano hanno comunque diritto a una protezione specifica, diversa dalla tutela valida per la generalità dei lavoratori.

Chi sono i lavoratori precoci?

Un lavoratore è considerato precoce quando possiede almeno 12 mesi di contributi previdenziali da effettivo lavoro accreditati prima del 19° anno di età.

In pratica, per essere considerato lavoratore precoce ai fini dell’agevolazione previdenziale della pensione anticipata, bisogna aver lavorato per almeno un anno (anche in modo non continuativo) prima di aver compiuto 19 anni.

Pensione anticipata precoci

L’agevolazione pensionistica, per i lavoratori precoci, consiste nella possibilità di ottenere la pensione anticipata con 41 anni di contributi, con l’attesa di 3 mesi di finestra (dal 2019).

Attenzione però: non basta essere lavoratori precoci per ottenere la pensione anticipata con 41 anni di contributi, o quota 41, ma bisogna anche:

  • risultare iscritti presso una delle gestioni amministrate dall’Inps;
  • risultare iscritti alla previdenza obbligatoria prima del 1996;
  • appartenere a una categoria tutelata: disoccupati di lungo corso, caregiver, invalidi dal 74%, addetti ai lavori gravosi e usuranti.

Lavoratori precoci disoccupati

Chi sono i lavoratori precoci disoccupati che hanno diritto alla pensione anticipata con 41 anni di contributi? Purtroppo, non tutti i disoccupati che possiedono i requisiti dei lavoratori precoci possono accedere all’agevolazione.

Deve trattarsi di lavoratori che risultano disoccupati:

  • a seguito di licenziamento, anche collettivo o per giusta causa;
  • a seguito di dimissioni per giusta causa;
  • a seguito di risoluzione consensuale nell’ambito della procedura di conciliazione obbligatoria.

Perché gli appartenenti a questa categoria possano beneficiare della pensione anticipata precoci, è necessario che abbiano terminato da almeno tre mesi di percepire la prestazione di disoccupazione (il trattamento non spetta, dunque, a chi non ha percepito la Naspi o un sussidio analogo) e che:

  • non si siano rioccupati;
  • siano stati rioccupati con un contratto di lavoro subordinato, con i voucher o col contratto di prestazione occasionale o il libretto famiglia per non più di 6 mesi complessivamente.

Lavoratori precoci caregiver

Chi sono i lavoratori caregiver? In generale, si tratta di coloro che si prendono cura di una persona invalida, o portatrice di handicap, o non autosufficiente.

Purtroppo, però, non tutti coloro che si prendono cura di un familiare e possiedono i requisiti dei lavoratori precoci possono accedere alla pensione anticipata precoci.

I caregiver che hanno diritto all’agevolazione, difatti, sono i precoci che assistono, al momento della richiesta e da almeno 6 mesi, il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap grave, ai sensi della Legge 104; possono accedere alla misura, dal 2018, anche coloro che assistono un disabile portatore di handicap grave convivente, familiare entro il 2° grado, qualora i suoi genitori o il coniuge:

  • abbiano compiuto 70 anni;
  • oppure siano affetti a loro volta da patologie invalidanti;
  • siano deceduti.

Lavoratori precoci invalidi

Possono accedere alla pensione anticipata con 41 anni di contributi anche i lavoratori precoci invalidi: si tratta, in particolare, dei precoci che possiedono un’invalidità uguale o superiore al 74%.

Precoci addetti ai lavori gravosi

Possono accedere alla pensione anticipata agevolata anche i precoci che sono stati impegnati in lavori gravosi per almeno 6 anni negli ultimi 7 anni prima del pensionamento, o per almeno 7 anni nell’ultimo decennio, facenti parte dell’elenco di professioni di seguito indicato:

    • operai dell’industria estrattiva, dell’edilizia e della manutenzione degli edifici;
    • conduttori di gru, di macchinari mobili per la perforazione nelle costruzioni;
    • conciatori di pelli e di pellicce;
    • conduttori di convogli ferroviari e personale viaggiante;
    • conduttori di mezzi pesanti e camion;
    • professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche ospedaliere con lavoro organizzato in turni;
    • addetti all’assistenza personale di persone in condizioni di non autosufficienza;
    • professori di scuola pre-primaria;
    • facchini, addetti allo spostamento merci ed assimilati;
    • personale non qualificato addetto ai servizi di pulizia;
    • operatori ecologici e altri raccoglitori e separatori di rifiuti;
    • pescatori;
    • lavoratori marittimi;
    • operai agricoli;
    • operai degli impianti siderurgici.

Precoci addetti ai lavori usuranti e notturni

Possono accedere alla pensione con 41 anni di contributi anche i lavoratori precoci che sono stati adibiti, per almeno metà della vita lavorativa o per almeno 7 anni nell’ultimo decennio, ad impieghi particolarmente usuranti (come definiti dall’apposito decreto [3]) o ai turni notturni.

Per approfondire: Chi sono gli addetti ai lavori usuranti e ai turni notturni.

Lavoratori precoci: adempimenti per la pensione

Per ottenere la pensione anticipata precoci, gli interessati devono innanzitutto richiedere la certificazione dei requisiti da parte dell’Inps, per poi inviare la domanda di pensione vera e propria.

Per approfondire, e sapere quali anni valgono ai fini della cosiddetta quota 41: Pensione anticipata precoci 2019

Devi presentare la domanda di pensione anticipata e non sai da dove cominciare? Come presentare la domanda di pensione anticipata.

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