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Red 2019: come fare

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Presentazione del modello Red all’Inps: chi è obbligato, per quali prestazioni si deve presentare, quali redditi vanno indicati.

Percepisci una prestazione dall’Inps collegata al reddito, come l’integrazione della pensione? Forse non sai che sei obbligato a presentare all’Inps una dichiarazione dei redditi percepiti nell’anno, il modello Red. Nella dichiarazione vanno indicati anche i redditi del coniuge e dei figli presenti nel nucleo familiare, che rilevano per il diritto ad alcune prestazioni (per sapere quando coniuge e figli fanno parte del nucleo familiare: Famiglia, nuove regole).

La dichiarazione Red va presentata, in alcuni casi, anche quando è stata già presentata la dichiarazione dei redditi (con modello Redditi o 730).

Il modello Red, quest’anno, va presentato entro il 28 febbraio 2019: entro questa data, nel dettaglio, va presentato il modello Red 2018, redditi 2017 (bisogna, in pratica, indicare i redditi percepiti dal 1° gennaio al 31 dicembre 2017).

Ma chi, in particolare, deve presentare il Red, e quali redditi vanno indicati? Che cosa succede se non si presenta la dichiarazione?

Cerchiamo di fare il punto della situazione sul Red 2019: come fare per presentare la dichiarazione, che cosa dichiarare, chi è obbligato a presentare il modello, come fare in caso di errori o se ci si dimentica di inviare il Red.

Chi deve presentare il Red?

Nella generalità dei casi, sono obbligati a presentare il modello Red tutti i titolari di prestazioni Inps (pensioni, trattamenti di assistenza…) legate al reddito, se:

  • non hanno alcun reddito oltre alla pensione o alla prestazione collegata al reddito, sono esonerati dalla presentazione della dichiarazione dei redditi ed effettivamente non la presentano;
  • hanno presentato la dichiarazione dei redditi, ma possiedono ulteriori redditi che devono essere dichiarati obbligatoriamente secondo le indicazioni presenti nella matricola dell’interessato, detti redditi obbligatori da matricola.

In particolare, se l’interessato non ha altri redditi oltre alla pensione o alla prestazione riconosciuta dall’Inps, e non ha presentato il modello 730 o Redditi (che ha sostituito il modello Unico), deve comunque presentare il Red, anche se a zero.

Se l’interessato ha altri redditi oltre alla pensione o alla prestazione riconosciuta dall’Inps, e non ha presentato il modello 730 o Redditi, deve presentare il modello Red ordinario.

Se l’interessato non ha altri redditi oltre alla pensione o alla prestazione riconosciuta dall’Inps, e ha presentato il modello 730 o Redditi, non deve presentare il Red.

Se l’interessato ha altri redditi oltre alla pensione o alla prestazione riconosciuta dall’Inps, e ha presentato il modello 730 o Redditi, deve presentare il Red se tra gli ulteriori redditi posseduti vi sono i cosiddetti redditi obbligatori da matricola:

  • redditi di lavoro dipendente prestato all’estero (anche se già dichiarati nel 730/modello Redditi);
  • redditi di lavoro autonomo (anche se già dichiarati nel 730/modello Redditi);
  • redditi da prestazione coordinata continuativa a progetto (anche se già dichiarati nel 730/modello Redditi);
  • redditi di capitale: interessi bancari, ..
  • prestazioni assistenziali erogate dallo Stato o altri enti pubblici;
  • arretrati lavoro dipendente (italiano e/o estero);
  • arretrati integrazione salariale;
  • trattamenti di fine rapporto;
  • altri redditi non assoggettabili all’Irpef;
  • quote di pensione trattenute dal datore di lavoro;
  • pensioni estere dirette;
  • pensioni estere ai superstiti;
  • pensioni estere da infortunio sul lavoro;
  • pensioni estere da rendite vitalizie;
  • pensioni estere da arretrati;
  • pensioni complementari.

Il pensionato che presenta la dichiarazione dei redditi ed ha l’obbligo di presentare il Red, deve indicare nel modello Red tutti i redditi posseduti anche se già dichiarati nel 730/modello Redditi.

Che cos’è la matricola Red?

Ricordiamo che la matricola Red, o stringa Caf, è un codice univoco di 28 caratteri alfanumerici contenente tutte le informazioni necessarie alla compilazione del Red: codice fiscale del contribuente, dati relativi allo stato civile, alla composizione del nucleo, alla presenza di redditi da lavoro dipendente, da lavoro autonomo, da pensione estera.

L’emissione della matricola può essere richiesta all’Inps dal CAF.

Quali prestazioni obbligano all’invio del Red?

Ecco le prestazioni collegate al reddito che obbligano all’invio del modello Red:

  • integrazione al minimo della pensione e dell’assegno d’invalidità;
  • pensione di invalidità e assegno ordinario di invalidità;
  • maggiorazione sociale, maggiorazione sociale per gli assegni sociali e incremento delle maggiorazioni;
  • pensione sociale, aumento della pensione sociale ed assegno sociale;
  • trattamenti di famiglia (assegni al nucleo familiare);
  • pensione ai superstiti, sia indiretta che di reversibilità;
  • aumenti per le prestazioni di invalidità civile erogate con le regole della pensione o dell’assegno sociale;
  • maggiorazione della pensione o dell’assegno di invalidità per invalidi civili, ciechi civili e sordomuti con età inferiore ai 67 anni;
  • importo aggiuntivo sulla pensione o quattordicesima;
  • prestazioni erogate a minorati civili prima del compimento dell’età pensionabile.

Quali redditi vanno indicati nel Red?

Nella dichiarazione reddituale, da presentare entro il 28 febbraio 2019, devono essere inseriti i redditi percepiti nel 2017: vanno compresi tutti i redditi che devono essere indicati nel modello 730 o nel modello Redditi, assieme ad alcuni redditi che non si possono inserire in questi modelli, come i compensi per le prestazioni occasionali (Presto o Libretto famiglia), il Tfr o il Tfs percepito, gli arretrati, le prestazioni assistenziali, gli interessi dei conti correnti, dei libretti ed i proventi degli investimenti, i redditi da lavoro dipendente svolto all’estero.

Vediamo ora nel dettaglio i redditi da inserire nel Red.

Quali redditi obbligano all’invio del Red?

Anche se si percepisce una prestazione che obbliga a presentare il Red, se non si possiedono altri redditi oltre al trattamento considerato si può essere esonerati dalla dichiarazione, o meglio, è possibile presentare il Red semplificato. Inoltre, si è esonerati dalla presentazione del Red se è stata presentata la dichiarazione dei redditi (modello Unico, ora modello Redditi, o 730).

Si è però obbligati sia al Red che alla dichiarazione dei redditi se si possiedono:

  • redditi da lavoro parasubordinato (da collaborazione), perché questi redditi, pur essendo assimilati a quelli da lavoro dipendente ai fini delle imposte, ai fini previdenziali sono assimilati al lavoro autonomo;
  • redditi che derivano da indennità di funzione o gettoni di presenza;
  • pensioni estere o rendite estere;
  • redditi da lavoro autonomo e assimilati, anche occasionale: in questo caso, nel Red deve essere indicato l’imponibile al netto dei contributi.

Nel modello Red, poi, devono essere esposti i seguenti redditi, che non vanno dichiarati nel 730 o nel modello Redditi o che non sono tassati:

  • il reddito dell’abitazione principale e delle relative pertinenze;
  • i redditi da lavoro dipendente svolto all’estero, se non è obbligatorio inserirli nella dichiarazione dei redditi come le retribuzioni corrisposte da enti e organismi internazionali);
  • gli interessi dei conti correnti bancari, postali, relativi a titoli di Stato, i proventi di investimenti, non dichiarati in Unico o 730 perché soggetti a ritenute alla fonte a titolo d’imposta;
  • le prestazioni di assistenza a carico dello Stato o di altri enti pubblici o Stati esteri;
  • le quote esenti dei redditi di L.S.U. (lavori socialmente utili);
  • i proventi derivanti da collaborazioni con associazioni o società sportive dilettantistiche;
  • i buoni lavoro, cioè i proventi ricevuti con i voucher, dal luglio 2017 con i presto e col libretto famiglia, per attività di lavoro occasionale accessorio;
  • i redditi derivanti da quote di pensione trattenute dal datore di lavoro;
  • gli arretrati di lavoro dipendente, anche estero, e di integrazioni salariali (Cig, Cigs, etc.);
  • il Tfr, il Tfs, e le altre indennità di fine rapporto, comunque denominate, comprese le anticipazioni.

Red semplificato

In certi casi la presentazione del modello Red è facilitata. Nel dettaglio, può essere presentato il modello Red semplificato quando:

  • la situazione reddituale è invariata rispetto all’anno precedente: in questa ipotesi è sufficiente l’invio di una semplice dichiarazione di conferma;
  • è confermata integralmente la dichiarazione dei redditi al fisco: in questo caso, per il cittadino, basta selezionare l’apposita opzione di dichiarazione breve;
  • non ci sono altri redditi oltre alle pensioni: anche in questo caso, è sufficiente una conferma della situazione scegliendo l’apposita opzione di dichiarazione breve;
  • il cittadino rinuncia alla prestazione collegata al reddito;
  • il cittadino invia una comunicazione di espatrio.

Quando si presenta il Red 2019?

Il Red, normalmente, deve essere presentato entro il 31 marzo dell’anno. Per il 2019, è stato reso noto che dovrà essere presentato all’Inps entro il 28 febbraio.

Dove si presenta il Red?

Il Red può essere presentato:

  • direttamente, accedendo al servizio Red all’interno sito dell’Inps, tramite le apposite credenziali (pin dispositivo, Spid, carta nazionale dei servizi);
  • tramite Caf (è indispensabile premunirsi della stringa Caf per poter inviare la dichiarazione).

Che cosa succede a chi non presenta il Red?

Se per errore l’interessato non ha presentato il Red pur essendovi obbligato, può presentare tardivamente il modello, o la richiesta di ricostituzione reddituale, entro i termini indicati dall’Inps nell’eventuale comunicazione di sollecito inviata, e comunque entro 60 giorni dalla sospensione della prestazione, pena la revoca definitiva del trattamento.

Per saperne di più: Red sbagliato o non presentato, che cosa fare.


Come assumere una ragazza alla pari

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Ragazza alla pari: come trovarla, adempimenti, requisiti famiglia ospitante, inquadramento, orario di lavoro, mansioni.

Hai necessità di una piccola mano in casa, ad esempio di un aiuto nelle pulizie o di una babysitter per i figli piccoli, ma non hai la possibilità di assumere una collaboratrice domestica o una babysitter? In effetti, instaurare un vero e proprio rapporto di lavoro domestico (con una colf, una badante o una babysitter) può essere difficoltoso, non solo per gli adempimenti richiesti (comunicazione di assunzione presso l’Inps, pagamento trimestrale di contributi…), ma soprattutto per i costi che si devono sostenere. Una valida soluzione può essere quella di retribuire la colf o la babysitter col libretto famiglia, nel caso in cui la mano di aiuto serva in via del tutto occasionale.

Se, invece, l’esigenza di aiuto è temporanea (per qualche mese, sino al massimo di un anno), ma continuativa (sino a 50 ore alla settimana), una buona soluzione può essere quella di assumere una “ragazza alla pari”, o “au pair”.

Naturalmente, il rapporto può essere instaurato anche con un ragazzo; non si tratta di un vero e proprio rapporto di lavoro, ma di un progetto di scambio culturale

Il compenso della ragazza alla pari non è eccessivo: si va da un minimo di 70 euro alla settimana a un massimo di 120 euro. Si deve però fornire vitto e alloggio, e si deve garantire almeno un giorno intero di riposo ogni settimana, fra cui almeno una domenica al mese.

Ma come assumere una ragazza alla pari?

Vediamo tutto quello che c’è da sapere sul cosiddetto rapporto “au pair”: requisiti ragazza alla pari e famiglia ospitante, compiti e mansioni, orario di lavoro, durata, retribuzione (“pocket money”).

Che cos’è il rapporto alla pari?

I programmi di lavoro alla pari sono considerati progetti di scambio culturale per l’apprendimento o il perfezionamento di una lingua straniera. Questi rapporti sono regolamentati, in ambito europeo, dall’Accordo di Strasburgo adottato dal Consiglio d’Europa il 24 novembre 1969, ratificato dall’Italia [1].

Pertanto, questa tipologia di rapporto non deve essere confusa col rapporto di lavoro domestico, o col rapporto subordinato.

Requisiti ragazza alla pari

Ragazze e ragazzi alla pari sono studenti stranieri che si recano in Italia per motivi di studio.

Ecco i requisiti previsti per i ragazzi alla pari:

  • avere tra i 18 e i 30 anni;
  • non essere sposati e non avere figli;
  • essere disponibili per un periodo che varia, a seconda dei Paesi di destinazione, da un minimo di 2 a un massimo di 12 mesi; il periodo di permanenza dipende comunque dagli accordi presi con l’agenzia o direttamente con la famiglia ospitante.

Come funziona il rapporto alla pari?

La legge [1] che regolamenta i rapporti tra lo studente straniero, o la studentessa straniera, e la famiglia italiana che ospita in cambio di un aiuto, prevede differenti formule di collaborazione:

  • Demi pair: prevede, da parte della ragazza alla pari, un impegno in famiglia di 3 ore al giorno per 5 giorni alla settimana; il compenso minimo (pocket money) è di 70 euro settimanali; devono essere lasciati liberi, in alternativa, 2 giorni o tre sere.
  • Demi pair plus: pur prevedendo lo stesso compenso minimo del Demi pair e gli stessi giorni o sere libere, l’orario in cui si deve offrire la collaborazione è maggiore, 4 ore per 5 giorni alla settimana; è dunque affidato alla discrezionalità della famiglia ed alla libera contrattazione un eventuale aumento del compenso;
  • Au pair: nel rapporto Au pair sono previste 5 ore di collaborazione per 6 giorni la settimana, con la facoltà di concedere una giornata libera o, in alternativa, dalle 3 alle 5 serate libere; bisogna concedere alla ragazza alla pari tempo libero al mattino o al pomeriggio;
  • Au pair plus: in questa tipologia di rapporto, la collaborazione è prevista per 6 giornate alla settimana, con un orario che varia dalle 5 alle 8 ore al giorno, per un massimo di 40 ore settimanali; devono essere lasciati liberi, alternativamente, 4 o 5 pomeriggi, una o due giornate intere, o, ancora, 3 o 4 sere; il compenso minimo è di 85-95 euro a settimana.
  • Mother’s help: questo tipo di rapporto, che ha una retribuzione minima di 120 euro a settimana, prevede 50 ore di lavoro, tra le quali possono esservi 2 o 3 serate di baby-sitting; il tempo libero può essere pari ad un giorno e mezzo, o, alternativamente, a 3 – 5 sere.

Una volta scelta la formula in cui inquadrare la ragazza alla pari, questa deve essere inserita nel contratto, stipulato come semplice scrittura privata.

Come si assume la ragazza alla pari?

Per assumere la ragazza alla pari, però, non basta stipulare il contratto per iscritto, ma sono richiesti alcuni adempimenti:

  • innanzitutto, si può pubblicare un annuncio presso il Portale europeo per i giovani, presso lo sportello Eures, oppure ci si può rivolgere ad una delle molte agenzie che si occupano di soggiorni alla pari; l’agenzia come intermediario ha un costo, però offre assistenza in caso di bisogno durante il soggiorno;
  • ci si deve poi recare presso lo Sportello Unico Immigrazione per compilare il modello N, in cui devono essere riportati i dati del contratto e la richiesta di visto; lo Sportello Unico Immigrazione fornisce l’assistenza necessaria in merito agli adempimenti; questi sportelli, solitamente, si trovano all’interno dei centri per l’impiego (Cpi) o centri servizi per il lavoro (Csl).

Quali sono i compiti della ragazza alla pari?

L’au pair può svolgere le seguenti attività di aiuto domestico e nella cura dei bambini:

  • baby-sitting;
  • accompagnare- ritirare i bambini da scuola o dalle attività sportive- ludiche;
  • assistere i bambini nei pasti, nella pulizia e nell’abbigliamento (aiuto nel vestirsi, cura del guardaroba, lavatura e stiratura);
  • impartire lezioni di lingua straniera;
  • leggero aiuto nei lavori domestici non pesanti.

Sono esclusi i lavori domestici pesanti perché la ragazza au pair non è una collaboratrice domestica, in quanto il soggiorno in Italia ha uno scopo culturale.

Per la ragazza alla pari devo pagare i contributi Inps?

Come osservato, il rapporto alla pari non è un rapporto di lavoro subordinato, neppure domestico, dunque non sono dovuti contributi previdenziali o assistenziali.

Si deve assicurare la ragazza alla pari?

La ragazza alla pari ha l’assicurazione medica del Paese d’origine (è sufficiente la tessera sanitaria europea, per chi proviene da uno Stato membro UE). Tuttavia, è opportuno, per far fronte a qualsiasi rischio,  un pacchetto assicurativo per au pair: questi pacchetti, solitamente, comprendono un’assicurazione di viaggio, contro gli infortuni, per la responsabilità civile, per il bagaglio e anche assistenza in caso di emergenza.

Quanto dura il rapporto alla pari?

La durata del rapporto va da un minimo di 2 a un massimo di 12 mesi, in particolari casi prorogabili sino a 24 mesi.

Quali sono i requisiti della famiglia ospitante?

La famiglia ospitante deve fornire alla ragazza alla pari vitto e alloggio, possibilmente una camera individuale dove poter studiare con tranquillità.

L’au pair deve essere considerata come un membro della famiglia, e deve avere la possibilità di frequentare un corso di lingua italiana.

La famiglia ospitante deve aiutarla ad inserirsi ed a superare le difficoltà linguistiche e legate alle nuove abitudini.

Saldo e stralcio: l’Isee corrente vale?

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È possibile presentare la dichiarazione Isee corrente per rientrare nell’agevolazione del saldo e stralcio delle cartelle?

Ti trovi in una situazione di difficoltà, perché hai parecchi debiti con l’Agenzia delle Entrate e con l’Inps: vorresti dunque aderire al saldo e stralcio, che ti consentirebbe di cancellare una buona parte delle cartelle arretrate.

L’Isee del tuo nucleo familiare, però, è superiore a 20mila euro: non avendo una procedura di liquidazione [1] in corso, sai di non poter accedere alla misura. Tuttavia, hai da poco perso il lavoro: ti chiedi, allora, se puoi presentare l’Isee corrente, basato sulla tua nuova situazione economica, per accedere, entro il 30 aprile 2019, al saldo e stralcio. Per il saldo e stralcio vale l’Isee corrente?

Cerchiamo di fare il punto della situazione: come funziona il saldo e stralcio, quando si può presentare e su quali redditi si basa l’Isee corrente, esiste la possibilità di utilizzare l’Isee corrente per accedere al saldo e stralcio.

Che cos’è il saldo e stralcio?

Il saldo e stralcio delle cartelle consente ai contribuenti che hanno un debito fiscale o contributivo di pagarne solo una parte, mettendosi in regola col fisco.

Si possono stralciare esclusivamente le cartelle contenenti i seguenti debiti:

  • tributi risultanti dalle dichiarazioni annuali, e relativi interessi e sanzioni; in pratica, si tratta dei debiti derivanti dal mancato versamento di Irpef e Iva a seguito di autoliquidazione e controllo automatico della dichiarazione dei redditi;
  • contributi dovuti dagli iscritti alle casse dei liberi professionisti o alle gestioni previdenziali dei lavoratori autonomi dell’Inps, esclusi quelli richiesti a seguito di accertamento.

Non tutti i contribuenti con cartelle di Equitalia o di Agenzia Entrate Riscossione, però, possono accedere al beneficio, ma soltanto coloro il cui indicatore Isee (si tratta, in parole semplici, dell’indice che “misura la ricchezza” delle famiglie, che si ricava dalla dichiarazione sostitutiva unica, o Dsu) non supera i 20mila euro. Fanno eccezione coloro che hanno avviato la procedura di liquidazione del patrimonio (sovraindebitamento).

Isee per saldo e stralcio

Per accedere al saldo e stralcio si deve possedere un Isee inferiore ai 20mila euro, come appena osservato: più basso e l’Isee, però, più bassa risulta la percentuale dei debiti da pagare.

Nello specifico, l’aliquota da applicare ai debiti è pari al:

  • 16%, se il debitore ha un Isee del nucleo sino a 8.500 euro;
  • 20%, se il debitore ha un Isee del nucleo da 8.500,01 euro sino a 12.500 euro;
  • 35%, se l’Isee del nucleo del debitore va dai 12.500,01 euro ai 20mila euro.

Per stralciare le cartelle e chiudere definitivamente il debito con l’erario i contribuenti possono versare le somme dovute in unica soluzione o ripartendolo in 5 anni.

Per chi ha in corso una procedura di sovraindebitamento, l’importo da pagare è pari al 10% del dovuto, a prescindere dall’Isee.

Che cos’è l’Isee corrente?

Il cosiddetto decreto Isee [2], prevede in alcuni casi la possibilità di richiedere l’Isee corrente: si tratta di una Dsu, dichiarazione sostitutiva unica (dalla quale si ricavano gli indicatori della situazione economica, patrimoniale e reddituale del nucleo familiare), o più semplicemente dichiarazione Isee, basata sui redditi degli ultimi 12 mesi, in casistiche particolari degli ultimi 2 mesi.

Quando si può chiedere l’Isee corrente?

Nel dettaglio, l’Isee corrente può essere richiesto nei seguenti casi:

  • il nucleo familiare possiede una dichiarazione Isee (Dsu) in corso di validità (cioè non scaduta);
  • risulta variata la situazione lavorativa di almeno uno dei componenti della famiglia, nei 18 mesi precedenti al 1° gennaio dell’anno di presentazione della dichiarazione Isee originaria (ad esempio per le dichiarazioni Isee presentate nel 2019 la variazione della situazione lavorativa deve essere intervenuta dopo il 30 giugno 2017);
  • risulta una variazione della situazione reddituale complessiva del nucleo familiare superiore al 25% rispetto alla situazione reddituale dell’Isee originario.

Variazioni dell’attività lavorativa per l’Isee corrente

Quali sono le variazioni della situazione lavorativa che danno la possibilità di presentare l’Isee corrente?

Il decreto Isee considera esclusivamente queste variazioni:

  • risoluzione del rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (licenziamento o dimissioni del lavoratore);
  • sospensione dell’attività lavorativa dipendente a tempo indeterminato (ad esempio congedo non retribuito per l’assistenza di un familiare);
  • riduzione dell’attività lavorativa dipendente a tempo indeterminato;
  • risoluzione del rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato o flessibile (licenziamento o dimissioni del lavoratore); il lavoratore deve risultare non occupato alla data di presentazione della dichiarazione Isee, e deve dimostrare di essere stato occupato con contratto a termine o flessibile per almeno 120 giorni, nei 12 mesi precedenti la conclusione dell’ultimo rapporto di lavoro;
  • cessazione dell’attività di lavoro autonomo svolta in via continuativa per almeno 12 mesi; il lavoratore deve risultare non occupato alla data di presentazione della dichiarazione Isee.

Quali redditi vanno dichiarati nell’Isee corrente?

Nell’Isee corrente, per ogni componente del nucleo la cui situazione lavorativa è variata, devono essere dichiarati i redditi percepiti negli ultimi 12 mesi rispetto alla richiesta della prestazione:

  • redditi da lavoro dipendente, pensione ed assimilati;
  • redditi derivanti da attività d’impresa o di lavoro autonomo, svolte sia in forma individuale che partecipativa, individuati secondo il principio di cassa come differenza tra i ricavi/compensi percepiti e le spese sostenute;
  • prestazioni di assistenza, di previdenza e indennitarie, incluse le carte acquisti (come la carta Rdc), a qualunque titolo percepite da amministrazioni pubbliche, se non già incluse nei redditi da lavoro dipendente, pensione o assimilati.

È possibile indicare quanto percepito negli ultimi 2 mesi, anziché negli ultimi 12 mesi, solo in caso di variazione dell’attività dipendente a tempo indeterminato. I redditi degli ultimi 2 mesi, ad ogni modo, nella dichiarazione Isee sono moltiplicati per 6, in modo da ottenere un importo su base annua, per non creare disparità di trattamento.

Si può presentare l’Isee corrente per accedere al saldo e stralcio?

Il saldo e stralcio, in base a quanto reso noto sinora, dovrebbe poter prendere come riferimento anche i dati dell’Isee corrente, sia se basato sugli ultimi 12 mesi di reddito, sia se basato sugli ultimi 2 mesi di reddito.

La legge di bilancio 2019 [3], sul punto, specifica soltanto che, per accedere alla misura, l’indicatore della situazione economica equivalente (Isee) del nucleo familiare non deve superare i 20mila euro (fatta eccezione per chi è coinvolto in una procedura di liquidazione), come già osservato.

Contributi gestione separata 2019

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Aliquote gestione separata 2019, minimali e massimali di reddito: aumentano i contributi dovuti all’Inps da collaboratori e lavoratori autonomi.

Non cambiano, nel 2019, le aliquote da applicare per determinare i contributi dovuti alla gestione separata Inps: resta al 34,23%, dunque, l’aliquota contributiva dovuta dai lavoratori parasubordinati (cococo) iscritti in via esclusiva alla gestione, che pagano più degli altri in quanto possono beneficiare della Dis-coll, l’indennità di disoccupazione per i collaboratori.

Per le categorie di parasubordinati non beneficiari della Dis-coll (ad eccezione di amministratori, sindaci e revisori), invece, l’aliquota resta ferma al 33,72%. Invariata anche l’aliquota dovuta dai pensionati e dagli iscritti ad altre casse, pari al 24%, e quella dovuta dai liberi professionisti iscritti in via esclusiva alla gestione separata, pari al 25,72%.

Aumentano, però, i minimali ed i massimali di reddito, cioè gli importi minimi e massimi ai quali possono essere applicati i contributi: il minimale, in particolare, sale a 15.878 euro annui, ed il massimale a 102.543 euro annui.

L’applicazione dell’aliquota contributiva sul minimale di reddito non è obbligatoria: tuttavia, l’aver conseguito un reddito inferiore al minimale determina l’accredito di un minor numero di mesi di contributi.

Ad esempio, se l’interessato, libero professionista, riceve compensi, nel 2019, per 15mila euro, e applica l’aliquota contributiva del 25,72%, paga 3.858 euro di contributi annui, anziché 4.083,82 euro (l’importo che avrebbe dovuto pagare applicando l’aliquota contributiva sul minimale di reddito). Considerando che il minimale contributivo mensile, per i liberi professionisti, è pari a 340,32 euro (4.083,82 diviso 12), l’interessato ha diritto all’accredito di 11 mesi di contributi (3.858 euro di contributi versati, diviso il minimale contributivo mensile).

I contributi gestione separata 2019, dunque, aumentano, di fatto, a causa dell’incremento del minimale. Anche l’aumento del massimale contributivo (la cifra al di sopra della quale non sono più accreditati contributi) determina un aumento della contribuzione, per chi ha conseguito redditi maggiori.

Gestione separata 2019: chi paga l’aliquota aggiuntiva?

Chi versa i contributi alla gestione separata può essere obbligato a pagare due aliquote aggiuntive:

  • un’aliquota dello 0,72%, che serve a finanziare alcune prestazioni erogate dall’Inps, come maternità e malattia; quest’aliquota è dovuta anche dai liberi professionisti, che beneficiano di queste prestazioni;
  • un’aliquota dello 0,51% per finanziare l’indennità di disoccupazione Dis-Coll.

Quest’ultima aliquota, che ha reso più salati i versamenti alla gestione separata da parte dei collaboratori e degli altri lavoratori parasubordinati, è stata introdotta di recente, perché a partire da luglio 2017 è diventata definitiva la Dis Coll, cioè l’indennità di disoccupazione spettante a cococo ed assimilati.

L’aliquota aggiuntiva, tra l’altro, è dovuta anche dagli amministratori e dai sindaci e revisori di società, nonostante questi lavoratori non abbiano diritto all’indennità di disoccupazione.

Nessun’aliquota aggiuntiva, invece, è prevista per i lavoratori occasionali (che lavorano col contratto di prestazione occasionale o col libretto famiglia), per i liberi professionisti e per gli autonomi occasionali con compensi superiori a 5mila euro annui, né per i pensionati e per gli iscritti ad altre gestioni previdenziali oltre alla gestione separata.

Come si calcolano i contributi da versare alla gestione separata?

I contributi dovuti alla gestione separata si calcolano applicando una specifica aliquota, cioè una percentuale, che varia a seconda della categoria a cui appartiene l’iscritto, al reddito imponibile.

Il reddito imponibile per i lavoratori parasubordinati coincide con i compensi (esclusi eventuali componenti esenti, come alcuni rimborsi), mentre per gli autonomi coincide, per grandi linee, con la differenza tra ricavi e spese inerenti all’attività.

Non è prevista l’applicazione obbligatoria dell’aliquota dovuta al minimale di reddito, né è previsto un minimale contributivo: in sostanza, i contributi alla gestione separata si pagano solo se viene prodotto un reddito, mentre nulla è dovuto in assenza di reddito.

Tuttavia, come osservato, si tiene conto del minimale valido nella gestione artigiani e commercianti Inps (pari a 15.878 euro per il 2019) per calcolare il raggiungimento dei requisiti contributivi utili a ottenere determinate prestazioni, come la disoccupazione e la pensione.

Se i versamenti sono effettuati sulla base di un imponibile inferiore al minimale, i mesi di contribuzione utili alle prestazioni sono proporzionati sulla base del minimale.

Per quanto riguarda i lavoratori parasubordinati e autonomi occasionali (con reddito sopra i 5milaeuro), i contributi calcolati sui compensi sono per 1/3 a carico del lavoratore e per 2/3 a carico del committente, mentre per gli autonomi i contributi sono interamente a carico del professionista (salvo l’eventuale applicazione sui clienti/committenti della rivalsa pari al 4%).

Aliquote gestione separata 2019: contributi dovuti e diritto alla Dis-coll

Vediamo ora, in base agli ultimi aumenti, a quanto ammontano i contributi da pagare per ogni categoria di iscritti alla gestione separata nel 2019 e chi ha diritto alla disoccupazione:

  • collaboratori, assegnisti e dottorandi titolari di borse di studio: 34,23% sul minimale di reddito pari a 15.878 euro; all’anno, per l’accredito di 12 mesi di contributi, si devono pagare dunque 5.435,04 euro; per l’accredito di un mese di contributi è necessario pagare 452,92 euro; queste categorie hanno diritto alla disoccupazione Dis Coll;
  • amministratori, sindaci o revisori di società, associazioni e altri enti con o senza personalità giuridica: 34,23% sul minimale di reddito pari a 15.878 euro; all’anno, per l’accredito di 12 mesi di contributi, si devono pagare dunque 5.435,04 euro; per l’accredito di un mese di contributi è necessario pagare 452,92 euro; queste categorie non hanno diritto alla disoccupazione Dis Coll;
  • componenti di collegi e commissioni: 33,72% sul minimale di reddito pari a 15.878 euro; all’anno, per l’accredito di 12 mesi di contributi, si devono pagare dunque 5.354,06 euro; per l’accredito di un mese di contributi è necessario pagare 446,17 euro; queste categorie non hanno diritto alla disoccupazione Dis Coll;
  • venditori porta a porta e lavoratori autonomi occasionali con reddito oltre 5milaeuro: 33,72% sul minimale di reddito pari a 15.878 euro; all’anno, per l’accredito di 12 mesi di contributi, si devono pagare dunque 5.354,06 euro; per l’accredito di un mese di contributi è necessario pagare 446,17 euro; queste categorie non hanno diritto alla disoccupazione Dis Coll;
  • associati in partecipazione (con contratti ancora in essere) e medici in formazione specialistica: 33,72% sul minimale di reddito pari a 15.878 euro; all’anno, per l’accredito di 12 mesi di contributi, si devono pagare dunque 5.354,06 euro; per l’accredito di un mese di contributi è necessario pagare 446,17 euro; queste categorie non hanno diritto alla disoccupazione Dis Coll;
  • lavoratori autonomi: 25,72% sul minimale di reddito pari a 15.878 euro; all’anno, per l’accredito di 12 mesi di contributi, si devono pagare dunque 4.083,82 euro; per l’accredito di un mese di contributi è necessario pagare 340,32 euro; queste categorie non hanno diritto alla disoccupazione Dis Coll; lo 0,72% è dovuto in quanto la Gestione separata assicura anche ai professionisti iscritti alla gestione in via esclusiva un’indennità in caso di maternità, ricovero ospedaliero o malattia.
  • lavoratori pensionati o iscritti ad altre gestioni previdenziali: 24% sul minimale di reddito pari a 15.878 euro; all’anno, per l’accredito di 12 mesi di contributi, si devono pagare dunque 3.810,72 euro; per l’accredito di un mese di contributi è necessario pagare 317,56 euro; queste categorie non hanno diritto alla disoccupazione Dis Coll, né all’indennità in caso di maternità, ricovero ospedaliero o malattia.

Massimale di reddito 2019 gestione separata

Il nuovo massimale di reddito vigente presso la gestione separata è pari a 102.543 annui: oltre questo importo, non sono accreditati e dovuti contributi.

Come fare la fattura elettronica

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Fattura PA e fattura elettronica tra privati, aziende e professionisti: come crearla, inviarla e riceverla.

Non hai mai fatto una fattura elettronica e non hai la minima intenzione di imparare? Purtroppo, da quest’anno non ne puoi più fare a meno: dal 1° gennaio 2019 è entrato in vigore, infatti, l’obbligo di fattura elettronica tra privati per imprese e professionisti. In buona sostanza, se sei un professionista, o un imprenditore, ed emetti fatture alle imprese, ai liberi professionisti (B2B) o ai consumatori (B2C), dal 1° gennaio 2019 devi inviarla in forma elettronica.

L’obbligo di fatturazione elettronica, tra l’altro, è in vigore già da tempo per chi deve inviare fatture agli enti pubblici: in questo caso, bisogna creare una fattura PA e inoltrarla tramite il sistema d’interscambio dell’Agenzia delle Entrate. Per chi scarica le spese del carburante, poi, dal 1° luglio 2018 è obbligatorio ricevere la fattura elettronica dal distributore.

Ma che cos’è una fattura elettronica? Basta inviare una fattura via mail perché sia considerata elettronica? Come si fa la fattura PA? Come funziona il sistema d’interscambio? Come ci si abilita per ricevere una fattura elettronica? Vediamo, grazie alla nostra guida, come fare la fattura elettronica: come abilitarsi ai servizi delle Entrate, come creare, inviare e monitorare la fattura elettronica e la fattura PA, come ricevere le fatture elettroniche.

Che cos’è la fattura elettronica?

Chiariamo innanzitutto che cos’è la fattura elettronica. Il Decreto Iva [1] la definisce come fattura emessa e ricevuta in un qualunque formato elettronico.

Le 3 caratteristiche fondamentali della fattura elettronica sono:

  • integrità: Il destinatario deve essere assolutamente certo che il contenuto non sia stato alterato in fase di emissione e trasmissione dei dati. Il documento deve quindi essere integro;
  • autenticità: il destinatario deve essere assolutamente certo che la fattura provenga da chi l’ha emessa;
  • leggibilità: il documento deve essere disponibile e visualizzabile, anche tramite un processo di conversione del formato, in forma leggibile per l’uomo su di uno schermo.

L’autenticità dell’origine e l’integrità del contenuto possono essere garantite:

  • con sistemi di controllo di gestione che assicurino un collegamento affidabile fra la fattura e la cessione dei beni o la prestazione dei servizi;
  • con apposizione di firma elettronica qualificata o digitale dell’emittente;
  • con sistemi di trasmissione elettronica dei dati;
  • con altre tecnologie in grado di garantire l’autenticità dell’origine e l’integrità dei dati.

Che cos’è la fattura PA

La fattura PA è la fattura elettronica che deve essere trasmessa alla Pubblica Amministrazione (per cessione di beni o prestazione di servizi effettuate nei confronti di un Ente pubblico).

La fattura PA deve avere le seguenti caratteristiche:

  • rispondere ai requisiti della fattura elettronica e poter essere trasmessa tramite il Sistema di Interscambio (SDI);
  • essere in formato XML, unico formato ad essere accettato dal Sistema di Interscambio;
  • essere contrassegnata dalla firma elettronica qualificata di chi emette la fattura apposta al formato XML;
  • essere contrassegnata dal codice identificativo univoco dell’ufficio destinatario della fattura, come riportato nell’ Indice della Pubblica Amministrazione (IPA, una sorta di elenco contenente gli “indirizzi elettronici” degli enti pubblici);
  • se la fattura si riferisce a cessione di beni o prestazione di servizi oggetto di un bando pubblico o di una commessa aggiudicata, deve recare il Codice unico di progetto (CUP) assegnato dalla PA;
  • essere inviata tramite Pec con le modalità previste dalla norma attuativa.

Che cos’è il sistema d’interscambio?

Il Sistema d’interscambio è una sorta di “postino virtuale”, attraverso cui si trasmettono e ricevono le fatture PA, che:

  • fornisce i servizi di accreditamento al sistema stesso;
  • riceve le fatture elettroniche trasmesse;
  • convalida e gestisce i flussi della fatture;
  • indirizza le fatture all’Ente destinatario;
  • notifica l’esito dei flussi tramite ricevute.

L’automazione di questi processi è possibile grazie al formato XML del documento: il formato PDF non può integrare una fattura elettronica perché non consente la lettura automatica dei dati e l’invio diretto alla PA interessata.

Trasmissione telematica di fatture e corrispettivi

La fattura elettronica per le operazioni tra privati e la trasmissione tramite Sistema d’Interscambio costituiscono solo il primo passo nella “rivoluzione” degli adempimenti. Dal 1° gennaio 2017, difatti, i contribuenti possono optare per la trasmissione in via telematica all’Agenzia delle Entrate di tutte le operazioni in entrata e in uscita.

Sono comprese anche le operazioni certificate da ricevute e scontrini: i corrispettivi giornalieri, difatti, possono essere memorizzati elettronicamente e trasmessi telematicamente all’Agenzia delle Entrate, senza più necessità, per il commerciante, di emettere lo scontrino.

Optare per la trasmissione elettronica delle operazioni comporta una lunga serie di vantaggi in termini di adempimenti burocratici.

Vantaggi per i contribuenti che trasmettono telematicamente tutte le operazioni

I vantaggi previsti per chi comunica elettronicamente le operazioni sono notevoli:

  • esonero dall’obbligo di presentare lo Spesometro, la Blacklist e i contratti stipulati da società di leasing;
  • esonero di comunicazione degli acquisti di beni da San Marino;
  • esonero dalla presentazione dei modelli Intrastat per gli acquisti intracomunitari di beni;
  • accesso in via prioritaria ai rimborsi Iva;
  • riduzione di un anno dei termini di decadenza per la notifica degli accertamenti;
  • nessun obbligo di registrazione dei corrispettivi (perché memorizzati e trasmessi elettronicamente);
  • nessun obbligo di rilascio ricevute e scontrini fiscali;
  • assistenza fiscale per i contribuenti minori, esonero dal visto di conformità e dalla garanzia per i rimborsi Iva.

Questi vantaggi dal 2019 sono previsti per tutti, a causa dell’obbligo di trasmettere tutte le fatture B2B (cioè tra imprese e professionisti) in formato elettronico.

Come ci si abilita ai servizi web delle Entrate per la fattura elettronica?

Per poter usare il servizio di fatturazione elettronica, per prima cosa occorre iscriversi, collegandosi al sito, cliccando su “Area riservata” nella home page del portale web delle Entrate, e selezionando la voce “Registrazione”. Occorre inserire i propri dati personali:

  • ultima dichiarazione dei redditi presentata: modello utilizzato (730, ex-Unico, Cu);
  • codice fiscale;
  • soggetto tramite cui si è presentata la dichiarazione (sostituto/intermediario, Poste, servizi telematici, Agenzia delle entrate);
  • reddito complessivo in unità di euro senza decimali né punti (ad esempio, per 33.500,11 indicare 33500); se il reddito è negativo, si indica l’importo preceduto da segno meno (ad esempio, -56587).

A questo punto, la pagina fornisce un codice di identificazione personale, il pin. Il sistema chiede di specificare se l’utente è un privato o un’azienda e se possiede la Carta nazionale dei servizi. In quest’ultimo caso, infatti, l’utente beneficia di una procedura di registrazione semplificata e immediata: selezionando Area riservata → Accedi a Entratel/Fisconline → Accesso con smart card, il sistema, effettuati i necessari controlli, fornisce al richiedente il codice pin completo e chiede di scegliere una password personale. In caso contrario, il pin sarà composto da sole quattro cifre e quelle mancanti, per ragioni di sicurezza, saranno inviate per posta dopo circa due settimane.

La registrazione è possibile anche tramite l’app dell’Agenzia scaricabile dal sito o dai principali store, oppure andando personalmente o delegando una persona di fiducia mediante procura speciale, presso un qualsiasi ufficio territoriale dell’Agenzia muniti di documento di riconoscimento e compilando il modulo di richiesta di registrazione.

In alternativa, è possibile accedere ai servizi di fatturazione elettronica delle entrate attraverso l’identità unica digitale Spid.

Come si ottiene lo Spid?

Il sistema Spid dà al cittadino la possibilità di avere delle credenziali uniche per accedere ai servizi pubblici online, compresi quelli dell’Agenzia delle Entrate: le credenziali sono però utilizzabili in modo differente, a seconda del livello di identità Spid richiesto:

  • il primo livello di sicurezza permette l’autenticazione con id e password stabilite dallo stesso utente;
  • il secondo livello permette l’autenticazione con una password valida per tutti i servizi ed una seconda password momentanea (la cosiddetta OTP, one time password) inviata all’utente per accedere allo specifico servizio;
  • il terzo livello permette invece l’autenticazione tramite smart card abbinata a una password.

Per avere l’identità unica ci si deve rivolgere ai gestori di identità digitale (Identity Provider): si tratta di soggetti privati accreditati dall’Agid (l’Agenzia per l’Italia digitale) che forniscono al cittadino le identità digitali e le gestiscono, dopo averlo identificato e averne verificato i dati. È possibile effettuare le operazioni di identificazione anche a distanza e online.

Attualmente lo Spid può essere richiesto ai seguenti gestori:

  • Sielte;
  • InfoCert S.p.a;
  • Poste Italiane S.p.a;
  • Intesa;
  • Namirial;
  • Telecom Italia Trust Technologies Srl.

Una volta scelto il provider, il cittadino può sempre cambiarlo e può, inoltre, avere più di un’identità digitale.

Come si usano i servizi Fisconline delle Entrate?

Completata la registrazione e una volta in possesso del pin completo, della Carta nazionale dei servizi o dello Spid, è sufficiente riaprire il sito, inserire le credenziali e cliccare su “Scrivania”. Non resta che scegliere il servizio che serve:

  • inviare la propria dichiarazione dei redditi;
  • pagare imposte, tasse e contributi con il modello F24;
  • registrare il contratto di affitto;
  • scegliere la cedolare secca;
  • accedere al proprio cassetto fiscale, il servizio online, sempre offerto dall’Agenzia delle entrate che permette di controllare in tempo reale la propria posizione fiscale;
  • comunicare le proprie coordinate bancarie per l’accredito dei rimborsi;
  • ricevere assistenza sulle comunicazioni di irregolarità grazie al servizio Civis;
  • annullare documenti inviati per errore;
  • ottenere le ricevute telematiche della documentazione inviata;
  • consultare i dati catastali degli immobili di proprietà;
  • accedere ai servizi di fatturazione elettronica.

Gli intermediari dell’Agenzia delle Entrate, come i consulenti del lavoro e i commercialisti, utilizzano, per accedere alla fatturazione elettronica e PA, il canale Entratel.

Come si accede al servizio fatture e corrispettivi?

È possibile accedere direttamente ai servizi di fatturazione, previa autenticazione, collegandosi al sito Iva servizi (https://ivaservizi.agenziaentrate.gov.it/ser/).

Una volta selezionata l’utenza di lavoro, si deve andare al servizio fatturazione. Si accede così al servizio fatture e corrispettivi.

Come si genera la fattura elettronica?

Per generare la fattura elettronica si deve selezionare la voce Generazione ed andare nel riquadro Crea nuovo file:

Si può scegliere se creare una fattura ordinaria, semplificata o una fattura PA.

Una volta cliccata la voce di proprio interesse, bisogna inserire i seguenti dati:

  • dati personali: ragione sociale o nome e cognome, codice fiscale, partita Iva, indirizzo;
  • dati del cliente: ragione sociale o nome e cognome, codice fiscale, partita Iva, indirizzo, codice destinatario (indispensabile per inviare la fattura col sistema d’interscambio);
  • tipo documento: bisogna scegliere se si tratta di una fattura, di una nota di credito, di una parcella, di un acconto o anticipo su fattura o parcella.

Bisogna poi inserire tutti i dati rilevanti della fattura: numero del documento, data di emissione, importo per beni/servizi e quantità, aliquota Iva applicata, eventuali esenzioni con relativa norma di legge, eventuale applicazione della cassa professionale, eventuale applicazione dello Split Payment (scissione dei pagamenti, per le operazioni verso una pubblica amministrazione, in quanto gli enti pubblici non corrispondono l’Iva all’impresa, ma la versano direttamente allo Stato; lo Split Payment è stato abolito per i professionisti dal 14 luglio 2018 ).

Nella maschera Dati contratto, per quanto riguarda la fattura PA, è possibile aggiungere il codice CIG (codice identificativo di gara) e il codice CUP (codice unico di progetto), necessario in caso di fatture relative a opere pubbliche, interventi di manutenzione straordinaria, interventi finanziati da contributi comunitari e in ulteriori specifiche ipotesi.

Bisogna poi inserire la causale della fattura nella maschera Causale.

Le pubbliche amministrazioni non possono procedere al pagamento delle fatture elettroniche che non riportano i codici CIG e CUP.

Possono poi essere compilati ulteriori campi, a seconda della situazione specifica:

  • i dati relativi all’eventuale ritenuta d’acconto: importo, aliquota (solitamente il 20%), causale della ritenuta (La lettera che appare anche nel modello 770, solitamente A per le prestazioni di lavoro autonomo);
  • i dati relativi all’eventuale pagamento di bolli;
  • i dati relativi a sconti o maggiorazioni, con la relativa percentuale;
  • va poi compilato il campo Articolo 73 se il documento viene emesso secondo modalità e termini stabiliti dal decreto che consente all’interessato di emettere nello stesso anno più documenti aventi stesso numero;
  • i dati relativi all’eventuale ordine di acquisto;
  • i dati relativi all’eventuale convenzione, o alle eventuali convenzioni stipulate;
  • i dati relativi all’eventuale documento di trasporto (DDT), i dati di trasporto e i dati relativi alle eventuali operazioni accessorie (fattura principale);
  • i dati relativi all’eventuale stato di avanzamento lavori (SAL);
  • i dati relativi a eventuali veicoli: prima immatricolazione e totale percorso;
  • i dati relativi a eventuali fatture collegate;
  • i dati di pagamento: codice Iban e dati bancari o istituto postale, beneficiario, termini di pagamento e scadenza, data di decorrenza e importo di eventuali penali, sconti per pagamenti anticipati;
  • eventuali allegati.

Terminata la compilazione delle maschere necessarie, si arriva al riepilogo, che riporta i dati salienti.

A questo punto, bisogna cliccare su Conferma. Se ci si accorge di aver sbagliato qualcosa, si può cliccare su Riabilita la modifica.

Si deve poi cliccare su Controlla File.

Se appare la dicitura “Il file ha superato i controlli del Sistema Ricevente” si può cliccare su Salva XML e salvare la fattura nel proprio pc.

Come si firma la fattura elettronica?

La fattura salvata in formato xml deve poi essere firmata col proprio dispositivo di firma elettronica, se è una fattura PA. La firma della fattura elettronica indirizzata a un’impresa o a un professionista (B2B), oppure a un consumatore (B2C) non è obbligatoria.

Per sa come procedere, si veda la nostra guida: Come si fa la firma elettronica.

Una volta collegato il dispositivo di firma (un lettore di smart card, ovviamente con la carta inserita, o una penna usb), e scaricato l’apposito software per la firma elettronica (Dike, Firma Certa), posizionandosi sul file XML salavto con il tasto destro del mouse, si può scegliere la voce Firma (non è necessario firmare e marcare).

Il sistema chiede poi di scegliere tra l’estensione .xml o .p7m.

Bisogna poi firmare il documento digitando il codice pin che è stato fornito col dispositivo di firma.

Se la fattura verso un’impresa, un professionista o un privato viene firmata digitalmente, il sistema d’interscambio Sdi effettua:

  • la verifica di autenticità del certificato di firma;
  • la verifica di integrità, per garantire che il documento ricevuto non sia stato modificato successivamente all’apposizione della firma.

Il sistema può quindi verificare se il certificato di firma elettronica è scaduto o revocato, se l’autorità di certificazione non è affidabile, se manca o non è coerente il riferimento temporale. Se l’esito dei controlli è negativo, la fattura viene scartata e quindi si considera non emessa.

Se la fattura digitale non è firmata, i controlli non vengono attivati, e la fattura viene considerata emessa indipendentemente dalla verifica di autenticità del documento. Nella fattura PA, invece, la firma digitale è obbligatoria.

Come si invia la fattura elettronica?

Firmato il documento, dal sito Iva servizi delle Entrate ci si deve posizionare, in Fatture e corrispettivi, sulla maschera Trasmissione e scegliere il file firmato.

Dopo aver cliccato su invia, apparirà la conferma di avvenuta trasmissione, con data e ora operazione e codice Id del file trasmesso.

Come si controlla la fattura elettronica?

Una volta inviata, la fattura elettronica può essere monitorata dal sito Fatture e corrispettivi, oppure dalla sezione Sdi.fatturaPA.gov.it-strumenti- monitorare la fattura PA, se si tratta di una fattura PA. Da questi canali è possibile anche controllare le fatture ricevute.

Per quanto riguarda le fatture B2B, per il controllo si deve entrare nella sezione Fatture e Corrispettivi, Monitoraggio dei file trasmessi, accedendo al riquadro File fattura, ed alla maschera di ricerca delle fatture emesse; è possibile cercare la fattura:

  • in base all’identificativo SdI:
  • in base all’identificativo fiscale del trasmittente o del destinatario;
  • in base allo stato del file;
  • in base alla data di invio.

Come si riceve la fattura PA?

Chi è accreditato ai canali SdiCoop o SdiFtp può ricevere le fatture elettroniche su canali dedicati; diversamente, si deve avere una casella di posta elettronica certificata. L’indirizzo pec deve essere comunicato al fornitore e la fattura sarà recapitata direttamente sulla Pec.

Per evitare l’invio della Pec al fornitore, è possibile preregistrarsi con la funzionalità web «Registrazione delle modalità prescelte per la ricezione delle fatture» accessibile dal servizio «Fatture e corrispettivi».

In questa sezione si deve indicare se si intende ricevere le fatture elettroniche attraverso un apposito canale (che può essere offerto anche da un intermediario o da un apposito software), indicando il proprio codice destinatario, oppure tramite pec, in questo caso il codice personale sarà composto da tanti zeri.

Le fatture ricevute si possono monitorare dalla sezione Fatture e Corrispettivi, Monitoraggio dei file trasmessi, accedendo al riquadro File fattura, ed alla maschera di ricerca delle fatture ricevute.

Per semplificare l’invio della fattura elettronica, dalla sezione Fatture e corrispettivi è possibile generare un codice QR, cliccando sul riquadro Generazione QR Code partita Iva. Il fornitore potrà così leggere il codice con un’apposita applicazione ed acquisire tutti i dati utili alla fatturazione.

Come si emette la fattura elettronica ai privati senza partita Iva?

Se si deve emettere la fattura elettronica a un privato senza partita Iva, oppure a un consumatore finale, o a un professionista aderente al regime dei minimi o al forfettario, nella creazione della fattura bisogna valorizzare il campo “Codice Destinatario” con un codice convenzionale “0000000”, anziché inserire il codice a 7 cifre del destinatario.

Il codice è “0000000”anche nel caso in cui il destinatario sia un’azienda o un professionista che ha scelto di ricevere le fatture tramite pec.

Come si riceve la fattura elettronica per i consumatori e i forfettari?

Per i consumatori finali, i forfettari e gli aderenti al regime dei minimi, la ricezione della fattura avviene tramite un’apposita area riservata del sito web dell’Agenzia delle Entrate oppure consegnando copia informatica o analogica.

Come si conserva la fattura elettronica?

Ad oggi i destinatari delle fatture elettroniche possono scegliere tra tre modalità alternative di conservazione, a seconda della categoria di appartenenza e delle modalità con cui i documenti sono inviati:

  • il servizio gratuito messo a disposizione dall’Agenzia delle Entrate;
  • l’archiviazione delle copie informatiche delle fatture elettroniche;
  • l’archiviazione delle copie in formato cartaceo o digitale (solo per chi non è obbligato all’emissione delle fatture elettroniche).

Come si conserva la fattura elettronica col servizio delle Entrate?

I servizi delle Entrate offrono la possibilità di conservare elettronicamente le fatture ricevute dal Servizio di interscambio (Sdi), utilizzando un servizio gratuito messo a disposizione dall’Agenzia.

Per utilizzare queste modalità di conservazione, l’impresa deve aderire all’accordo di servizio pubblicato nell’area riservata sul sito web dell’agenzia delle Entrate, accedendo autonomamente, o tramite intermediario abilitato, con delega.

Una volta effettuata l’adesione, per conservare la fattura bisogna accedere alla sezione Conservazione, scegliere il file fattura da conservare ed inviarlo, dalla maschera Invia file.

Come si conserva la fattura elettronica con copia informatica?

La seconda modalità di conservazione, indicata da una recente circolare delle Entrate, consiste nell’archiviazione delle fatture elettroniche con copie informatiche, in uno dei formati consentiti: pdf, jpg, txt, considerati idonei ai fini della conservazione.

In pratica, se il professionista o l’impresa dispone di un sistema di conservazione sostitutiva, che adotta per le proprie fatture, può utilizzarlo anche per le fatture elettroniche, dopo aver proceduto alla loro conversione in formato leggibile, come il “Pdf”, unitamente a tutti i documenti fiscali.

Si devono ancora tenere i registri Iva?

Gli operatori Iva in regime di contabilità semplificata che emettono solo fatture, grazie all’obbligo di fatturazione elettronica non devono più tenere gli appositi registri Iva.
Operatori economici e consumatori finali possono acquisire una copia delle fatture elettroniche emesse e ricevute grazie a un sistema offerto dal portale delle Entrate Fatture e Corrispettivi, al quale bisogna registrarsi con credenziali Spid, Cns o Fisconline/Entratel. Per approfondire: Come abilitarsi ai servizi web per la fatturazione elettronica.

Coloro che emettono e ricevono solo fatture, effettuando e ottenendo pagamenti tracciabili sopra i 500 euro, si vedono ridurre di due anni i termini di decadenza dell’accertamento fiscale.

Quando deve essere emessa la fattura elettronica?

La fattura elettronica può essere anche differita, cioè emessa entro il giorno 15 del mese successivo a quello in cui è effettuata l’operazione, in conformità a quanto previsto dal decreto Iva [1]. In questo modo c’è più tempo per la trasmissione allo Sdi, ma al momento dell’operazione bisogna rilasciare al cliente un documento di trasporto o equipollente, anche cartaceo.

Bisogna trasmettere elettronicamente i documenti di trasporto?

L’obbligo di trasmissione in modalità elettronica non si estende ai Ddt, i documenti di trasporto. Tuttavia, nella fattura elettronica vanno indicati tutti i Ddt a cui il documento si riferisce.

L’assegno sociale rientra nell’Isee?

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Nella dichiarazione Isee le prestazioni di assistenza come pensione ed assegno sociale devono essere indicate e fanno reddito?
La dichiarazione Isee, o, più precisamente, la Dsu (Dichiarazione sostitutiva unica), indispensabile per richiedere la maggior parte delle prestazioni di assistenza e delle agevolazioni, racchiude moltissimi dati, tanto da risultare, in diversi casi, addirittura più complessa rispetto alla dichiarazione dei redditi (modello 730 o modello Redditi).
Dalla dichiarazione Dsu, difatti, si ricavano gli indicatori della situazione economica, reddituale e patrimoniale del nucleo familiare (Isee, indicatore della situazione economica equivalente, Isp, indicatore della situazione patrimoniale, Isr, indicatore della situazione reddituale, più ulteriori indicatori specifici che variano a seconda della prestazione richiesta, come l’Iseeu, che serve per le prestazioni di diritto allo studio universitario): perché gli indicatori siano attendibili e rispecchino realmente la situazione del nucleo familiare, bisogna riportare nella dichiarazione anche delle informazioni che non si riportano nella dichiarazione dei redditi.
Ad esempio, si devono indicare, oltre ai redditi ed agli immobili, i veicoli posseduti, la giacenza media dei conti corrente, carte prepagate, libretti ed altre forme di risparmio: questi dati vanno riportati non solo in relazione al dichiarante, ma a tutti i componenti del nucleo familiare. Devono essere riportati anche diversi trattamenti che non vanno indicati nel 730 o nel modello Redditi. In pratica, la Dsu è una sorta di maxi-dichiarazione “universale”, dei redditi, del patrimonio e dei beni posseduti da tutti i familiari.
Ma l’assegno sociale rientra nell’Isee?

Che cos’è l’assegno sociale?

L’assegno sociale è una prestazione di assistenza che spetta, a partire dei 67 anni di età, alle persone che si trovano sotto una determinata soglia di reddito. Per il diritto alla prestazione, si considera sia il reddito proprio (che non deve superare i 5.953,87 euro annui, per il 2019),  che quello del coniuge (il reddito della coppia non deve superare 11.907,74 euro annui, sempre con riferimento all’anno 2019) .
L’assegno sociale spetta, a differenza della pensione, anche se non sono stati versati contributi, ed ammonta, per il 2019, a 457,99 euro mensili; può essere maggiorato, ed è riconosciuto per 13 mensilità. Per gli invalidi, l’importo è differente, così come le condizioni per averne diritto.

Le prestazioni di assistenza vanno dichiarate nell’Isee?

Abbiamo appena osservato che l’assegno sociale è una prestazione di assistenza, ossia un trattamento che spetta a prescindere dalla contribuzione previdenziale versata: in parole semplici, l’assegno sociale spetta anche se non sono mai stati versati contributi per la pensione.
Ma le prestazioni di assistenza rientrano nell’Isee anche se non devono essere indicate nella dichiarazione dei redditi? Nella generalità dei casi, le prestazioni di assistenza, come l’assegno sociale, rientrano nella dichiarazione Isee in quanto rilevano ai fini della situazione economica della famiglia. In pratica, l’assegno sociale rientra nell’Isee perché determina, nella generalità dei casi, un incremento di ricchezza del nucleo familiare.
Fanno eccezione, però, le prestazioni di assistenza destinate ai disabili, in quanto, in questo caso, non possono essere considerate alla stregua di un reddito o, comunque, un incremento della ricchezza della famiglia, ma costituiscono un aiuto per far fronte alla situazione di bisogno determinata dalla disabilità.
Nella generalità dei casi, ad ogni modo, non è necessario indicare l’ammontare dell’assegno sociale e delle altre prestazioni di assistenza nella dichiarazione Isee, in quanto è l’Inps a riportare le prestazioni automaticamente nella Dsu, prelevandole dalle proprie banche dati.

Per ottenere l’assegno sociale ci vuole la dichiarazione Isee?

Ad oggi, non sono previste soglie massime Isee per ottenere l’assegno sociale o la pensione sociale, quindi non è necessario presentare la dichiarazione Isee per il diritto a questa prestazione. Alcune proposte di legge prevedono, però, la possibilità di subordinare il diritto all’assegno sociale ed alla pensione sociale a specifiche soglie di reddito Isee.
È invece necessario non superare specifici limiti Isee per ottenere la pensione di cittadinanza, la nuova prestazione di assistenza che spetta a chi ha almeno 67 anni, e che risulta compatibile con l’assegno sociale, integrandolo fino alla misura massima mensile di 780 euro ( l’importo è aumentato se i componenti del nucleo familiare sono più di uno, sino a un massimo di 1.473 euro mensili).
Per approfondire: Pensione di cittadinanza.

Come superare i limiti dei contratti a termine

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Contratti collettivi e di prossimità, accordi in sede protetta: le deroghe al decreto Dignità nella disciplina del contratto a termine.

Il decreto Dignità [1] ha modificato profondamente il contratto a termine, stabilendo numerosi limiti all’utilizzo di questo rapporto di lavoro. Sono state infatti reintrodotte le causali del contratto, è diminuito il numero massimo di proroghe possibili, è stata ridotta la durata massima del rapporto di lavoro e, in generale, sono state cancellate diverse disposizioni che consentivano una maggiore flessibilità alle imprese nell’utilizzo del rapporto a tempo.

Molte delle limitazioni del nuovo decreto, però, sono “mitigate” dalle previsioni dei contratti collettivi e dei contratti di prossimità, che possono modificare la disciplina del contratto a tempo determinato, anche in deroga alla normativa. Alcune previsioni rendono possibile, ad esempio, superare la durata massima del rapporto, oppure il numero massimo di lavoratori che può essere assunto a termine.

Un altro modo per superare i limiti del decreto Dignità nel lavoro a termine è l’utilizzo di lavoratori in somministrazione. Numerose deroghe sono poi previste per i lavoratori stagionali. Ma procediamo per ordine e cerchiamo di capire, in base alla normativa, come superare i limiti dei contratti a termine.

Si può superare la durata massima del contratto a termine?

In base alle previsioni del decreto Dignità, il rapporto di lavoro a termine stipulato tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, con le stesse mansioni o mansioni equivalenti, compresi eventuali periodi di lavoro svolti in somministrazione, può avere una durata massima di 24 mesi. Ci sono tuttavia delle deroghe a questo limite massimo di durata.

Superare la durata massima del rapporto a termine: contratto collettivo

Le disposizioni di alcuni contratti collettivi, come il Ccnl Studi Professionali, prevedono una durata massima del rapporto a termine superiore a 24 mesi. Queste disposizioni contrattuali, come chiarito da una recente circolare del ministero del Lavoro [2], sopravvivono al decreto Dignità.

In parole semplici, i contratti collettivi possono derogare ai limiti di durata massima del rapporto a tempo determinato stabiliti dal decreto Dignità. Non possono invece derogare al numero massimo di proroghe, attualmente pari a 4.

Superare la durata massima del rapporto a termine: contratti di prossimità

Anche i contratti di prossimità [3], altri “sopravvissuti” al decreto Dignità, possono derogare ai limiti di durata massima del rapporto a termine: si tratta di contratti collettivi di secondo livello, che possono essere sia territoriali che aziendali.

La legge che li regolamenta, in particolare, consente agli accordi collettivi di secondo livello di modificare la disciplina del contratto a tempo determinato, in deroga sia alla normativa che ai contratti collettivi nazionali, comprese le disposizioni che riguardano la durata massima del contratto.

I contratti di prossimità, per poter derogare alla legge, devono però essere finalizzati alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all’emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività.

Superare la durata massima del rapporto a termine: prosecuzione di fatto

Proseguire l’attività per la quale si è stati assunti a tempo determinato è possibile anche oltre i 24 mesi, o raggiunto il numero massimo di proroghe, ma per un periodo limitato.

Nello specifico, dopo la scadenza del termine originario o validamente prorogato, o dopo il periodo di durata massima complessiva, il lavoro a tempo determinato può proseguire di fatto:

  • per 30 giorni (se il contratto ha una durata inferiore a 6 mesi);
  • per 50 giorni (se il contratto ha una durata maggiore di 6 mesi).

In queste ipotesi, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al dipendente una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto, pari al 20%, fino al decimo giorno successivo, ed al 40% per ciascun giorno ulteriore.

Se il rapporto di lavoro oltrepassa il periodo di prosecuzione di fatto, il contratto si considera trasformato da tempo determinato a tempo indeterminato, a far data dal superamento dei 30 o dei 50 giorni.

Superare la durata massima del contratto a termine: nuovo contratto

In alcuni casi, è consentito stipulare un nuovo rapporto a tempo determinato, nonostante sia stata raggiunta la durata massima cumulativa di tutti i periodi di lavoro a termine con le stesse mansioni o mansioni equivalenti, compresi eventuali periodi di lavoro svolti in somministrazione.

Il nuovo contratto di lavoro, perché sia valido, deve essere stipulato presso l’Ispettorato territoriale del lavoro competente (Itl), con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Superare la durata massima del contratto a termine: stagionali

Ai lavoratori stagionali non si applicano i limiti di durata massima del rapporto a termine. Ricordiamo che il rapporto di lavoro stagionale fa parte dei contratti a tempo determinato: pur avendo molte regole in comune col contratto a termine, rispetto al lavoro a tempo determinato “generico” presenta diverse particolarità, che rendono il contratto più elastico e con meno vincoli.

Le attività stagionali sono elencate in un noto decreto del 1963 [4], che dovrà essere sostituito, secondo il Codice dei contratti [5], da un decreto del ministero del Lavoro di prossima emanazione

Le attività stagionali, comunque, non sono solo quelle elencate dal decreto, ma sono indicate anche all’interno dei contratti collettivi, che lasciano spazio anche a lavori stagionali molto diversi rispetto a quelli tradizionalmente svolti nel turismo, nell’agricoltura o nel commercio.

Superare la durata massima del contratto a termine: somministrazione

In base al Testo unico dei contratti di lavoro [5], i contratti collettivi applicati dalle agenzie di somministrazione possono disciplinare, anche in deroga alla normativa, le ipotesi in cui possono essere ammesse le proroghe del contratto a termine e la loro durata.

Si può aggirare la pausa contrattuale?

Secondo l’attuale disciplina del contratto a termine, se il rapporto di lavoro cessa, e si intende stipulare un nuovo contratto a tempo determinato, è necessario che trascorra un lasso di tempo tra il primo e il secondo contratto, il cosiddetto periodo di pausa contrattuale, o stop and go, pari a:

  • 10 giorni, se la durata del primo contratto è inferiore ai 6 mesi;
  • 20 giorni, se la durata del primo contratto è superiore ai 6 mesi.

Il mancato rispetto di questo periodo di pausa determina la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Il decreto Dignità prevede la non applicazione del periodo di pausa nel contratto di somministrazione a termine. Inoltre, questo periodo “cuscinetto” non si applica ai contratti stagionali.

I contratti collettivi e di prossimità possono derogare a questo limite.

Si può superare il numero massimo di lavoratori a termine?

Secondo le attuali previsioni normative, è possibile assumere un massimo di lavoratori a termine pari al 20% dell’organico totale a tempo indeterminato.

Se il datore di lavoro impiega sia lavoratori a termine che lavoratori somministrati (o soltanto lavoratori con contratto di somministrazione), deve contenere la sommatoria di entrambi i rapporti entro il 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato.

I contratti collettivi e di prossimità possono derogare a questi limiti, ad esempio prevedendo quote diverse a seconda del numero di lavoratori a tempo indeterminato occupati dall’azienda, o per l’avvio di nuove attività.

Se si superano questi limiti, in ogni caso, il contratto dei lavoratori “in eccedenza” non viene trasformato a tempo indeterminato, ma l’azienda è soggetta a delle sanzioni.

Si può derogare alle causali del contratto?

Secondo il decreto Dignità, la stipula del contratto a tempo determinato è valida se le ragioni, o causali, che la determinano sono:

  • ragioni temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro;
  • ragioni sostitutive;
  • ragioni connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.

La causale è obbligatoria se il contratto dura più di 12 mesi, per ogni rinnovo del contratto, o per le proroghe, se comportano il superamento della durata di 12 mesi del contratto.

Se non è riportata la causale, nei casi in cui la sua indicazione è obbligatoria, il contratto è convertito a tempo indeterminato.

I contratti di prossimità possono modificare le disposizioni che riguardano le causali, se rispettano le finalità previste dalla normativa. L’indicazione delle causali non è obbligatoria per i contratti stagionali.

Per quanto riguarda il contratto a tempo determinato in regime di somministrazione, l’obbligo della causale si riferisce al solo utilizzatore, non all’agenzia per il lavoro: ad esempio, se il rapporto tra lavoratore e agenzia dura più di 12 mesi, ma le missioni presso i singoli utilizzatori durano meno di 12 mesi, senza rinnovi, indicare una causale non è necessario.

Conchiglie, sabbia, fiori: quali materiali è vietato raccogliere?

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Conchiglie, sassi, erbe e fiori: quali sono le specie ed i materiali di cui è vietata la raccolta e quali le conseguenze per chi li porta via dal loro ambiente.

Non esiste niente di meglio, per staccare dal tran tran della quotidianità, che organizzare una gita fuori porta: al mare, sui monti od in qualche posto particolarmente interessante dal punto di vista naturalistico. È provato scientificamente, infatti, che il tempo trascorso all’aria aperta fa bene alla salute grazie alla capacità della natura di rigenerare la mente. Addirittura, basterebbe dedicarsi ogni giorno a passare almeno 40 minuti all’area aperta per ridurre in modo vertiginoso la comparsa di alcune patologie come, ad esempio, la miopia. E capita puntualmente che, quando si è in mezzo alla campagna oppure durante una passeggiata sulla battigia della spiaggia, si trovino sulla strada percorsa alcuni materiali naturali che si decide di portare con sé come “ricordi” del posto visitato. E, quindi, conchiglie, piante, funghi e finanche erbe diventano rappresentativi di quel bel giorno passato in immersione nella natura. Raccogliere questi materiali naturali durante le gite è, quindi, qualcosa che si fa usualmente e con tranquillità. Pertanto, sembrerà strano sapere che, in verità, questo rappresenta un comportamento vietato dalla legge e che, quando si raccoglie del materiale vegetale o animale, si può aver commesso un illecito. Ma tra conchiglie, sabbia, fiori: quali materiali è vietato raccogliere? E per quale motivo esiste il divieto? Cosa si rischia nel caso in cui si viene beccati col “bottino” di conchiglie e sabbia e, magari, anche pietre di mare? C’è differenza tra il raccogliere sabbia col secchiello per giocare a costruire castelli piuttosto che tonnellate di sabbia per esigenze personali? A queste e ad altre domande rispondiamo in questo articolo.

Vietato raccogliere materiale naturale

La conchiglia raccolta per conservare un ricordo della gita al mare può costare molto cara: difatti, secondo il Codice della navigazione [1], il prelievo di qualsiasi materiale o specie animale o vegetale marittima è punito col pagamento di una sanzione amministrativa che può arrivare sino a 9.296,00 euro.

Ma le sanzioni non si limitano al materiale marittimo: anche chi parte nelle località interne ha il divieto di raccogliere diverse specie di fiori e piante. Vietatissima, ad esempio, la raccolta della stella alpina, con sanzioni per i trasgressori che si aggirano intorno al migliaio di euro. Le singole Regioni, inoltre, hanno imposto severi limiti alla raccolta di erbe, come l’arnica e il tarassaco e ai prodotti del sottobosco, come i funghi.

Perché è vietato raccogliere conchiglie, fiori o sabbia

Prima di conoscere quali materiali naturali posso essere raccolti e portati a casa, per diventare il nostro “ricordo del giorno”, e per quali ciò non è possibile, vediamo di capire le ragioni del divieto. In verità lo scopo di questo tipo di norme è abbastanza evidente ed è rappresentato dalla volontà delle Autorità Pubbliche di garantire la conservazione ed anche l’incremento del patrimonio naturale esistente in aree montane o marittime o, comunque, nei terreni sottoposti a tale divieto. Tutti i divieti sono, infatti, orientati a conservare l’equilibrio di fauna, flora ed, in generale, dell’ecosistema del posto.

Ma chi è che ha il potere di imporre questo genere di vincoli? Normalmente, in ordine a tali aspetti decidono le Regioni, le Province, i Comuni e le Comunità Montane. Ma esistono anche delle leggi generali che si occupano dell’argomento: come il Codice della navigazione per ciò che concerne il mare ed i porti. Ma chi ha maggior voce in merito sono proprio quelle realtà organizzative dello Stato che sono più a stretto contatto con la realtà naturale del posto (Comuni, Regioni ecc.) e che, quindi, meglio possono finalizzare la azione pubblica per tutelare i valori naturalisti di quei luoghi ed anche per sensibilizzare in generale le persone a rispettare i valori ambientali. E se si pensa che si tratta di esagerazioni, basta dare uno sguardo a quanto sta accadendo, dal punto di vista naturalistico, nel mondo per capire che il rispetto per ciò che ci circonda parte dalle piccole abitudini. Detto in altri termini, anche se non si è responsabili in modo diretto e personale dello scioglimento degli iceberg in Antartide oppure dell’estinzione degli elefanti a causa della vendita dell’avorio o, ancora, della deforestazione in Indonesia che sta provocando la fine degli oranghi per la vendita dell’olio di palma, si ha pur sempre una responsabilità diretta per ciò che si commette nella propria piccola dimensione.

Ora, considerata la presenza di numerose norme che sanzionano la raccolta e il prelievo di vegetali, animali e materiali, è dunque utile fare un punto della situazione, per stabilire quali prelievi sono vietati e quali sono le conseguenze.

Gita al mare: meglio non toccare nulla

Se si è deciso di partire alla mèta di una località marittima, per essere sicuri di non essere sanzionati, è opportuno evitare qualunque rischio e, quindi, non prelevare alcunché. Come già detto, infatti, secondo il Codice della navigazione chi estrae senza concessione arena (sabbia), alghe, ghiaia od altri materiali nell’ambito del demanio marittimo, del mare territoriale o delle zone portuali della navigazione interna, è punito col pagamento di una sanzione amministrativa da 1.549,00 euro a 9.296,00 euro. È dunque sanzionata l’estrazione di qualsiasi tipo di materiale, comprese le alghe e l’acqua di mare.

Ma, allora, quando si riempie d’acqua il secchiello, più e più volte durante una giornata, per costruire un castello di sabbia si commette un illecito? In questo caso la risposta è negativa, anche perché quell’acqua, in verità, non “viene allontanata” dal posto in cui si trova e, comunque, l’attività di giocare con i castelli di sabbia sul mare è un’abitudine comune non illegale. È severamente vietato, invece, riempire delle taniche di acqua di mare e portarsele via.

Peraltro, vi sono numerose ordinanze regionali, oltre al Codice della navigazione, che vietano la raccolta, l’utilizzo e la vendita dell’acqua di mare, volte soprattutto ad evitare che la stessa acqua sia usata per scopi alimentari.

Lo stesso Codice della navigazione, peraltro, vieta ulteriori comportamenti collegati alla corretta fruizione delle spiagge e degli ambienti marittimi. La legge, infatti, sanziona in generale, arrivando finanche all’arresto, chi occupa lo spazio marittimo o delle zone portuali della navigazione interna, impedendone l’uso pubblico. E questo non solo se, ad esempio, si parcheggia la propria autovettura sul porto, magari davanti l’imbarco dei traghetti impedendo il flusso dell’andi-rivieni portuale, ma anche in casi più comuni ed apparentemente innocui.

Facciamo un esempio. Se hai l’abitudine di lasciare sulla spiaggia il tuo ombrellone in modo tale da “prenotarti il posto in prima fila” per il giorno dopo, devi sapere che commetti un reato e, precisamente, quello di abusiva occupazione di spazio demaniale [2], per il quale è previsto non solo l’arresto sino a 6 mesi ma anche il pagamento di una ammenda sino a 516,00 euro.

Gita in montagna: conoscere le specie protette

Anche per prelevare fiori ed erbe dalle località interne, come i boschi o le montagne e simili è necessario informarsi preventivamente sulle specie di cui è vietata o limitata la raccolta e su quelle che richiedono particolari autorizzazioni.

A tal fine è necessario aver riguardo alla normativa regionale (alcuni territori prevedono un patentino per la raccolta di erbe selvatiche) e, se si va in un’area protetta come un parco, leggere attentamente il regolamento del parco.

Anche per un’attività piuttosto comune, come la raccolta dei funghi, molte Regioni prevedono l’ottenimento di un tesserino e limitano la quantità che può essere raccolta. Non solo: al fine di salvaguardare l’ecosistema e la corretta riproduzione delle specie, esistono moltissimi luoghi dove, ad esempio, è vietata la raccolta dei funghi che hanno il cappello inferiore ad una certa grandezza. Volendo fare un paragone: è come il divieto per i pescatori di catturare pesci troppo giovani. E l’obbligo per essi, in caso di involontaria cattura, di liberarli immediatamente vivi in mare. Lo scopo è evidente in ambo i casi ed è quello di evitare che gli animali siano sradicati dall’ecosistema troppo presto, quando cioè devono ancora affrontare l’intero ciclo della propria vita e contribuire all’equilibrio ecologico.

In altri casi, l’interesse che la Autorità Pubblica ha nei confronti della natura e la sua volontà di proteggerne l’equilibrio si vede anche nei limiti che pone alle modalità di raccolta, laddove essa è consentita. Rimanendo sull’esempio dei funghi, esistono alcune Regioni le quali, pur permettendone la raccolta nei periodi indicati per questa attività, ne specificano orari, metodi di raccolta o di conservazione. Ad esempio, normalmente la raccolta viene permessa da un’ora prima del sorgere del sole ad un’ora dopo il suo tramonto. Inoltre, quando si sradica dalla terra un fungo non si devono usare rastrelli od attrezzi simili, perché rovinano lo strato superficiale del terreno oltre a poter danneggiare gli apparati radicali della vegetazione, ma devono essere usate le mani.

Inoltre, durante la raccolta generalmente è vietato l’uso di buste di plastica ed è raccomandato l’utilizzo, al loro posto, di contenitori aperti e rigidi tanto al fine di permettere ai funghi, anche se raccolti da terra, di diffondere le proprie spore. Infine, vengono stabiliti anche dei limiti di raccolta giornaliera di funghi per persona, che può essere superato solo in caso di rinvenimento di un unico esemplare concresciuto con altro (od altri) chei superino il peso massimo imposto.

In definitiva, se non si è assolutamente sicuri che la raccolta di un determinato materiale o specie sia legale, e se non si conoscono le norme del luogo per la attività di raccolta, è meglio catturare soltanto l’immagine delle meraviglie naturali che si presentano ai nostri occhi, con una fotografia, per evitare spiacevoli situazioni.

Certo, in molti casi le sanzioni appaiono sproporzionate, ma bisogna considerare che il prelievo di materiali dal demanio marittimo ha ultimamente raggiunto delle dimensioni preoccupanti: in Sardegna, solo l’estate scorsa, presso l’aeroporto di Cagliari sono state sequestrate 5 tonnellate di sabbia. Il “pugno di ferro” è, dunque, necessario per scoraggiare simili comportamenti, volti a depredare l’ambiente dalle sue risorse naturali.

Il rispetto si impara da piccoli

Non poche volte, quando ci si trova sulla spiaggia, si vedono bambini e genitori che raccolgono col secchiello piccoli animali del mare come granchietti, cavallucci marini, piccoli pesci ecc. Si tratta di un’attività ritenuta piacevole perchè mette in contatto i bambini con la natura. In verità, si tratta di un comportamento scorretto che non fa altro che trasmettere ai bambini l’insegnamento per cui è consentito poter “far uso” per proprio divertimento della vita di altri esseri viventi. Animaletti che, infatti, nella maggior parte delle volte non sono liberati nel loro territorio ma vengono portati via dal loro habitat e, così, destinati alla morte.

La cosa positiva è che esistono, però, numerosi volontari e sempre maggiori associazioni, sportive o ambientali, che promuovono iniziative tese ad invertire la comune e superficiale visione della natura, creando pubbliche occasioni di divertimento che hanno come scopo quello di insegnare il rispetto. In ambito di tutela del mare e dei boschi queste iniziative fioccano per tutta l’Italia: un simpatico esempio, a tal proposito, è stato l’evento “Secchiello Stop” organizzato qualche tempo fa sulle spiagge della Liguria che aveva proprio lo scopo di insegnare ad adulti e bambini il rispetto dei piccoli animali del mare e la necessità di non catturarli. Proprio perché è sin da piccoli che si deve imparare cosa significa il concetto di rispetto. E perché, per i grandi, non è mai troppo tardi per fare altrettanto.


Iscrizione avvocato alla gestione separata Inps

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In quali casi l’avvocato è obbligato ad iscriversi alla gestione Separata dell’Inps, quanto deve pagare, deve versare contributi anche alla Cassa Forense?

L’iscrizione alla Cassa Forense, la cassa di previdenza per i professionisti del settore legale, è obbligatoria per la generalità degli avvocati: ci sono però delle eccezioni, come i praticanti, che hanno la facoltà, e non l’obbligo, di iscriversi anticipatamente alla Cassa. Non sono tenuti ad iscriversi a questa gestione previdenziale, inoltre, coloro che esercitano l’attività legale occasionalmente.

Sono invece obbligati ad iscriversi alla Cassa [1]:

  • gli avvocati iscritti agli albi professionali forensi;
  • gli iscritti agli albi forensi che sono contemporaneamente iscritti in altri albi professionali, salvo che non abbiano esercitato diritto di opzione, se previsto, presso altra gestione, prima del 1° febbraio 2013;
  • gli iscritti agli albi forensi che svolgono funzioni di giudice di pace, di giudice onorario di tribunale e di sostituto procuratore onorario di udienza.

Per gli iscritti ad un albo forense che esercitino l’attività professionale in modo concorrente o esclusivo in un altro Stato membro della Unione Europea, si applicano i regolamenti UE [2] per la determinazione della legislazione previdenziale applicabile.

Ma che cosa succede nei casi in cui non sia obbligatoria l’iscrizione alla Cassa Forense? È obbligatoria l’iscrizione avvocato alla gestione Separata Inps?

Facciamo il punto della situazione, dopo aver ricordato quali sono i presupposti che determinano l’obbligo d’iscrizione alla gestione Separata, in particolar modo per i liberi professionisti che hanno una cassa di categoria.

Quali professionisti devono iscriversi alla gestione Separata?

Devono iscriversi alla Gestione Separata Inps i liberi professionisti per i quali non è prevista un’apposita cassa di previdenza. Sono obbligati all’iscrizione anche i liberi professionisti che non possono iscriversi alla gestione previdenziale di categoria per ragioni di incompatibilità o di altra natura: è il caso, ad esempio, dell’ingegnere già coperto da altre forme di previdenza obbligatorie, situazione che non consente l’iscrizione all’ente di categoria (Inarcassa), in base al regolamento.

Nel dettaglio, l’obbligo di iscriversi alla gestione Separata Inps è geneticamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante dall’esercizio di un’attività professionale, per la quale può essere, o meno, prevista l’iscrizione ad un albo o ad un elenco. L’esercizio dell’attività può essere sia abituale (anche se non esclusivo) che occasionale; l’iscrizione ed il relativo pagamento dei contributi sono possibili anche quando lo stesso professionista svolge anche altre attività, per cui risulta già iscritto ad un’altra gestione previdenziale.

Quanto illustrato costituisce il cosiddetto principio di universalizzazione della copertura assicurativa obbligatoria [3]: in parole semplici, l’obbligo di versare i contributi alla gestione Separata Inps è rivolto a chiunque percepisce un reddito derivante da un’attività professionale, per la quale la legge prevede l’iscrizione ad un albo, anche se l’attività non è svolta in maniera abituale ed il compenso percepito non è l’unica fonte di guadagno del professionista. Questo, perché lo Stato deve tutelare non solo i professionisti senza cassa, ma anche coloro che, pur avendo una cassa di categoria, non sono iscritti.

Quali professionisti non devono iscriversi alla Gestione Separata?

Non sono obbligati ad iscriversi alla gestione Separata, come già osservato, i professionisti privi di una cassa di categoria. L’obbligo di iscrizione alla gestione Separata, per il professionista avente una gestione previdenziale specifica, viene meno solo se il reddito prodotto dall’attività professionale è già integralmente oggetto di obbligo assicurativo gestito dalla cassa di categoria: lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con una recente sentenza [4].

Nello specifico, secondo la Cassazione, coloro che esercitano per professione abituale, anche se non esclusiva, un’attività di lavoro autonomo, sono tenuti all’iscrizione presso l’apposita gestione Separata Inps solo se:

  • l’esercizio dell’attività non è subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali;
  • l’attività non è soggetta al versamento di contributi sia soggettivi che integrativi.

In pratica, il professionista non è tenuto a iscriversi alla gestione Separata solo se è già interamente coperto dalla sua cassa professionale, ossia se non versa soltanto il contributo integrativo sui compensi percepiti (che non dà luogo, nella generalità delle ipotesi, ad alcuna prestazione di previdenza), ma corrisponde anche la contribuzione obbligatoria.

Quali avvocati devono iscriversi alla gestione Separata?

Per quanto riguarda gli avvocati non iscritti obbligatoriamente alla Cassa forense, sussiste quindi l’obbligo d’iscriversi alla Gestione Separata Inps, in quanto non versano la contribuzione obbligatoria.

Gli stessi sono comunque obbligati a versare alla Cassa forense un contributo integrativo, nel caso in cui percepiscano dei compensi per l’attività professionale, senza che per questo venga meno l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata, nonostante il versamento integrativo non comporti la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio.

Dove inviare fattura elettronica

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Come effettuare l’invio della fattura elettronica, quali servizi si possono utilizzare, indirizzo del cliente, documento formato PDF.

Se devi inviare una fattura elettronica, ma non disponi di un apposito software di fatturazione, puoi utilizzare il servizio gratuito messo a disposizione dell’Agenzia delle Entrate, nel portale Iva Servizi, sezione Fatture e Corrispettivi. I servizi web offerti dal portale sono numerosi, e vanno dalla generazione della fattura elettronica, alla possibilità di controllarla, sigillarla e inviarla, dalla ricezione e consultazione delle fatture dai fornitori alla conservazione dei documenti.

Dallo stesso portale è inoltre possibile compilare, inviare e consultare lo spesometro (che dal 2019 non è più obbligatorio), le liquidazioni periodiche Iva, i dati delle fatture transfrontaliere (da e verso operatori esteri, nuovo obbligo sorto dal 1° gennaio 2019), i dati dei corrispettivi, le opzioni Iva.

Considerando la mole di operazioni che può essere effettuata nel sito Iva servizi, orientarsi all’interno di questo portale non è semplice. Facciamo allora il punto della situazione: come generare e dove inviare fattura elettronica, come monitorare se è andata a buon fine, come fare se il cliente richiede la fattura in formato PDF.

Come si accede ai servizi delle Entrate per la fattura elettronica?

Per poter inviare le fatture elettroniche tramite i servizi delle Entrate bisogna possedere le credenziali di accesso: pin e password Entratel (per gli intermediari delle Entrate, come commercialisti e consulenti, e per determinate aziende) o Fisconline (per la generalità dei contribuenti), identità unica digitale Spid, Cns, cioè carta nazionale dei servizi.

Per ottenere le credenziali Fisconline, per prima cosa occorre collegarsi al sito internet delle Entrate, cliccando su “Area riservata” nella home page, e selezionare la voce “Registrazione”. Occorre inserire i propri dati personali:

  • ultima dichiarazione dei redditi presentata: modello utilizzato (730, Redditi, Cu);
  • codice fiscale;
  • soggetto tramite il quale è stata presentata la dichiarazione (sostituto/intermediario, Poste, servizi telematici, Agenzia delle Entrate);
  • reddito complessivo, espresso in unità di euro, senza decimali né punti (ad esempio, per 33.500,11 indicare 33500); se il reddito è negativo, si deve indicare l’importo preceduto da segno meno (ad esempio, -56587).

A questo punto, la pagina fornisce un codice di identificazione personale, il pin. Il sistema chiede di specificare se l’utente è un privato o un’azienda e se possiede la Carta nazionale dei servizi. In quest’ultimo caso, infatti, l’utente beneficia di una procedura di registrazione semplificata e immediata: selezionando Area riservata → Accedi a Entratel/Fisconline → Accesso con smart card, il sistema, effettuati i necessari controlli, fornisce al richiedente il codice pin completo e chiede di scegliere una password personale. In caso contrario, il sito fornisce le prime quattro cifre del pin: quelle mancanti, per ragioni di sicurezza, sono inviate per posta dopo circa due settimane.

La registrazione è possibile anche:

  • tramite l’app delle Entrate, scaricabile dal sito o dai principali store;
  • recandosi personalmente o delegando una persona di fiducia mediante procura speciale, presso un qualsiasi ufficio territoriale delle Entrate, muniti di documento di riconoscimento e compilando il modulo di richiesta di registrazione.

In alternativa, è possibile accedere ai servizi di fatturazione elettronica delle entrate attraverso l’identità unica digitale Spid. Per approfondire: Spid, come funziona, dove richiederlo.

Dove si compila e si invia la fattura elettronica?

Una volta in possesso delle credenziali di accesso, per compilare e inviare la fattura elettronica bisogna accedere al sito Iva servizi. Entrati nel portale Fatture e corrispettivi, bisogna selezionare Fatturazione elettronica e conservazione, ed infine entrare nel riquadro Generazione: bisogna poi scegliere tra generazione fattura ordinaria,  generazione fattura semplificata, generazione fattura PA (per le fatture da inviare agli enti pubblici).

Se è stata già compilata una fattura elettronica dal portale Iva servizi, si può scegliere la funzione Riprendi ultimo file.

Se si dispone, invece, di un programma di compilazione delle fatture elettroniche, si può scegliere la funzione Importa da file XML. Ma vediamo più nel dettaglio come procedere per la compilazione e l’invio della fattura elettronica.

Come accedere al servizio fatture e corrispettivi

È possibile accedere direttamente ai servizi di fatturazione, previa autenticazione, collegandosi al sito Iva servizi al seguente indirizzo https://ivaservizi.agenziaentrate.gov.it/ser/.

Si può scegliere l’autenticazione col codice fiscale o codice Entratel, più password e pin, oppure tramite Spid o Cns.

Una volta selezionata l’utenza di lavoro, si deve accedere al servizio Fatturazione elettronica e conservazione, poi alla sezione Generazione.

Come generare la fattura elettronica

Una volta entrati nella sezione Generazione, è possibile  generare fattura elettronica entrando nel riquadro Crea nuovo file, nel quale si può scegliere se creare una fattura ordinaria, semplificata o una fattura PA.

Una volta selezionata la voce di proprio interesse, bisogna inserire tutti i dati rilevanti della fattura. Per approfondire: Come fare fattura elettronica.

Risulta fondamentale inserire il codice destinatario del cliente, che deve essere stato preventivamente comunicato. Se il cliente non ha il codice destinatario, va indicata la sua pec. Se il cliente è un privato, o un soggetto non obbligato alla fatturazione elettronica, si utilizza un codice destinatario standard, con 7 zeri.

Terminata la compilazione delle maschere necessarie, si arriva alla sezione Riepilogo, che riporta i dati essenziali del documento.

A questo punto, bisogna cliccare su Conferma. Se ci si accorge di aver sbagliato qualcosa, si può cliccare su Riabilita la modifica.

Si deve poi cliccare su Controlla File.

Se appare la dicitura “Il file ha superato i controlli del Sistema Ricevente” si può cliccare su Salva XML e salvare la fattura nel proprio pc.

Se la fattura è ordinaria o semplificata, e non è una fattura PA, si può direttamente, dalla stessa sezione, sigillare ed inviare il file, senza bisogno di firmarlo (firmare la fattura è comunque consigliabile; ne abbiamo parlato in: Firma digitale della fattura elettronica).

Come firmare la fattura elettronica

La fattura salvata in formato xml deve poi essere firmata col proprio dispositivo di firma elettronica, se è una fattura PA. La firma della fattura elettronica indirizzata a un’impresa o a un professionista (B2B), oppure a un consumatore (B2C) non è obbligatoria, ma è opportuna.

Per sapere come procedere, si veda la nostra guida: Firma digitale, come fare.

Una volta collegato il dispositivo di firma (un lettore di smart card, ovviamente con la carta inserita, o una penna usb, o un kit per la firma digitale remota), e scaricato l’apposito software per la firma elettronica (Dike, Firma Certa…), posizionandosi sul file XML salavto con il tasto destro del mouse, si può scegliere la voce Firma (non è necessario firmare e marcare).

Il sistema chiede poi di scegliere tra l’estensione .xml o .p7m.

Bisogna poi firmare il documento digitando il codice pin che è stato fornito col dispositivo di firma.

Se la fattura verso un’impresa, un professionista o un privato viene firmata digitalmente, il sistema d’interscambio Sdi effettua:

  • la verifica di autenticità del certificato di firma;
  • la verifica di integrità, per garantire che il documento ricevuto non sia stato modificato successivamente all’apposizione della firma.

Il sistema può quindi verificare se il certificato di firma elettronica è scaduto o revocato, se l’autorità di certificazione non è affidabile, se manca o non è coerente il riferimento temporale. Se l’esito dei controlli è negativo, la fattura viene scartata e quindi si considera non emessa.

Se la fattura digitale non è firmata, i controlli non vengono attivati, e la fattura viene considerata emessa indipendentemente dalla verifica di autenticità del documento. Nella fattura PA, ad ogni modo, la firma digitale è obbligatoria.

Come inviare la fattura elettronica

Firmato, controllato e sigillato il documento, dal sito Iva servizi delle Entrate si deve accedere, nel portale Fatture e corrispettivi, alla sezione Trasmissione, posizionarsi sulla maschera Invia File e scegliere il file firmato.

Dopo aver cliccato su invia, apparirà la conferma di avvenuta trasmissione, con data e ora operazione e codice Id del file trasmesso. La ricezione della fattura può anche essere controllata dalla sezione Consultazione del portale Fatture e Corrispettivi, funzione Monitoraggio delle ricevute dei file trasmessi, Ricevute file Fatture elettroniche. Dal servizio è possibile scaricare la ricevuta di consegna con l’identificativo Sdi del file.

Fattura di cortesia in PDF

Il cliente ha la visibilità della fattura inviata dal software utilizzato, oppure dalla sezione Fatture ricevute del portale Fatture e Corrispettivi. Il portale offre comunque la possibità di visualizzare e scaricare il PDF della fattura, per anticiparla via mail al cliente, tramite la funzione Visualizza PDF fattura.

Carta reddito di cittadinanza: come funziona

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Che cosa si può fare con la carta Rdc: a quanto ammonta la ricarica mensile, prelievo contanti, acquisti, bonifici, divieti.
È stata già stampata la prima carta Rdc, ossia la carta acquisti nella quale sarà accreditato il reddito di cittadinanza ogni mese. Si tratta di una carta Postepay, rilasciata dunque dalle Poste, che verrà caricata mensilmente con l’importo del reddito di cittadinanza spettante al nucleo familiare.
Le domande per la carta Rdc potranno iniziare ad essere inviate a partire dal 6 marzo 2019, mentre i primi accrediti dovrebbero partire dal 27 aprile 2019, in base a quanto reso noto sinora.
Ma la carta reddito di cittadinanza come funziona? Sarà possibile prelevare contanti? A ricaricarla può essere soltanto l’Inps? Si possono eseguire dei bonifici? E gli acquisti online sono consentiti, nel caso in cui si tratti di beni o servizi di base? Si possono pagare le bollette, l’affitto o il mutuo?
Facciamo il punto della situazione sulla carta reddito di cittadinanza: che cosa si può pagare, a quanto ammontano gli accrediti, qual è l’importo minimo e massimo che può essere speso ogni mese, quali sono le operazioni vietate.

Come funziona la carta reddito di cittadinanza?

Con la carta Rdc, le operazioni consentite sono diverse. Innanzitutto, è possibile acquistare gli stessi beni e servizi che, ad oggi, è possibile acquistare con la carta Rei (la carta nella quale è accreditato il reddito d’inclusione). Si tratta, per grandi linee, dei generi alimentari, dei beni acquistabili in farmacia, parafarmacia e nella grande distribuzione.
È vietato qualsiasi acquisto legato al gioco d’azzardo: no, dunque, ai gratta e vinci, alle scommesse, alle schedine del Lotto o del Super Enalotto, ed a qualsiasi concorso a premi.
Con la carta Rdc è possibile anche pagare le utenze, come la bolletta dell’elettricità, dell’acqua e del gas.

Si possono mandare bonifici con la carta Rdc?

La carta Rdc consente l’invio di un bonifico mensile, tramite le Poste, per il pagamento del mutuo o dell’affitto.

Si possono ricevere fondi nella carta Rdc?

Nella carta reddito di cittadinanza non è possibile ricevere fondi se non dall’Inps, o eventualmente, in futuro, da altre istituzioni (ad esempio i Comuni) che potranno integrare il sussidio.
Non è quindi possibile chiedere a un parente, a un amico, a un committente o a un datore di lavoro di ricaricare la carta Rdc, che sarà una Postepay, come osservato.

Che cosa succede se non si spendono tutti i soldi dalla carta Rdc?

Peraltro, se fosse consentito effettuare una ricarica sulla carta Rdc, l’operazione apporterebbe più problemi che benefici: se tutti i fondi caricati mensilmente sulla carta non sono spesi entro il mese successivo all’accredito, difatti, l’importo risparmiato è decurtato dal reddito di cittadinanza nel mese successivo, sino a un massimo del 20% del sussidio, come disposto dal decreto in materia. Fanno eccezione i soli importi erogati a titolo di arretrati.
È prevista inoltre la decurtazione dalla carta Rdc degli importi complessivamente non spesi o non prelevati nei 6 mesi precedenti, ad eccezione di una mensilità.

Si possono prelevare contanti con la carta Rdc?

Con la carta Rdc è possibile prelevare contanti sino a un massimo di 210 euro mensili, a seconda del numero dei componenti della famiglia.
Nel dettaglio, se il reddito di cittadinanza è percepito da un single, o più precisamente da un nucleo familiare con un solo componente, il prelievo consentito è pari a 100 euro. I 100 euro devono essere moltiplicati per la scala di equivalenza, ossia per le maggiorazioni previste, che sono pari a 0,4 per ogni componente adulto del nucleo familiare, ed a 0,2 per ogni minorenne: si può arrivare sino a un massimo di 2,1.
Osserviamo degli esempi per capire meglio:
  • se in un nucleo familiare ci sono solamente marito e moglie, il prelievo di contanti possibile è pari a 140 euro, ossia 100  euro più il 40%;
  • se in un nucleo familiare ci sono marito, moglie e due figli minorenni, è possibile prelevare 180 euro ogni mese (ossia 100 euro, più il 40% per la moglie ed il 20% per ciascuno dei figli);
  • in una famiglia numerosa, per la quale la scala di equivalenza è pari al massimo di 2,1, è possibile prelevare sino a 210 euro mensili.

A quanto ammonta l’importo caricato ogni mese nella carta Rdc?

L’importo caricato ogni mese è pari al reddito di cittadinanza spettante. Ricordiamo che l’importo del reddito di cittadinanza è determinato da due quote:
  • la prima quota, a integrazione del reddito familiare, ammonta,per il singolo componente, a una soglia massima pari a 6mila euro annui, 500 euro al mese; la soglia massima è pari a 630 euro al mese, 7.560 euro annui in caso di pensione di cittadinanza; in presenza di più componenti si può arrivare a massimo 12.600 euro annui, cioè a 1.050 euro al mese, 1.323 euro al mese per la pensione di cittadinanza, dato che il parametro massimo della scala di equivalenza è 2,1 ;
  • la seconda quota, a integrazione del reddito familiare, è riconosciuta ai nuclei che pagano l’affitto dell’abitazione, ed è pari al canone annuo previsto dal contratto di affitto, sino a 280 euro al mese (150 euro al mese, 1.800 euro annui in caso di pensione di cittadinanza);
  • la seconda quota è pari alla rata del mutuo, fino a un massimo di 150 euro al mese, 1.800 euro annui, nel caso di nuclei familiari residenti in abitazioni di proprietà per il cui acquisto o per la cui costruzione sia stato stipulato un contratto di mutuo da un componente della famiglia.

In ogni caso il beneficio economico:

  • non può superare la soglia di 9.360 euro annui (780 euro al mese) nel caso di nucleo familiare con un solo componente, ridotta del valore del reddito familiare; la misura massima in caso di più componenti può arrivare, teoricamente, a 1.638 euro al mese, 19.656 euro annui; nel concreto, al momento, può arrivare a 15.960 euro all’anno, 1.330 euro al mese, per il reddito di cittadinanza, ed a 1.473 euro per la pensione di cittadinanza;
  • non può essere inferiore a 480 euro annui (40 euro al mese).

Sia il reddito che la pensione di cittadinanza sono esentasse. Per approfondire: Reddito di cittadinanza, a quanto ammonta.

Inps può chiedere soldi indietro?

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Importi non dovuti riconosciuti dall’Inps: in quali casi devono essere restituiti all’ente?

Di solito l’Inps toglie, e non dà: tuttavia, può capitare che, per errore, l’istituto corrisponda delle somme non dovute. Può trattarsi di un assegno di pensione più alto, rispetto all’importo spettante, a causa di calcoli sbagliati, oppure di un’integrazione o di una maggiorazione riconosciute considerando redditi inferiori rispetto a quelli reali, o, in generale, di prestazioni erogate sulla base di presupposti errati.

Ma in questi casi l’Inps può chiedere soldi indietro? Vale, cioè, il detto “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato”, oppure l’indebito va sempre restituito, anche se non è stato percepito per colpa dell’interessato?

Non esiste un’unica risposta a questa domanda: in alcuni casi, il pensionato, o il beneficiario della prestazione, è tenuto a restituire l’indebito all’Inps, mentre in altre situazioni si applica la cosiddetta sanatoria degli indebiti, e l’interessato non deve restituire nulla.

Ma procediamo per ordine, e cerchiamo di capire quando l’Inps può chiedere la restituzione degli importi non dovuti, e quando, invece, il pensionato può tenere i soldi ricevuti in più dall’istituto.

Quando si prescrivono le somme non dovute dall’Inps?

Innanzitutto, bisogna tener presente che i pagamenti indebiti effettuati dall’Inps sono soggetti all’ordinario termine di prescrizione decennale: in pratica, trascorsi 10 anni dal pagamento, l’Inps non può più richiedere le somme indietro.

Quando non si devono restituire i soldi all’Inps?

Se l’Inps corrisponde dei soldi in più, sulla base di un provvedimento formale e definitivo, viziato da un errore di qualsiasi natura imputabile all’istituto, le somme non devono essere restituite: si tratta della cosiddetta sanatoria degli indebiti, prevista da una nota legge [1], applicabile a tutti gli indebiti Inps successivi al 31 dicembre 2000.

Le somme devono essere invece restituite:

  • se l’indebita percezione è dovuta al dolo dell’interessato.
  • se il pensionato, pur essendo a conoscenza di fatti che incidono sul diritto alla pensione o sulla sua misura, non li ha segnalati, a meno che l’Inps non risulti già informato.

Pensione più alta perché calcolata male: si deve restituire?

Se l’interessato riceve dall’Inps una pensione più alta a causa di un errore dell’ente nel provvedimento di liquidazione o di ricostituzione della prestazione, i soldi non vanno restituiti se:

  • le somme sono state riconosciute sulla base di un provvedimento formale e definitivo;
  • il provvedimento è già stato comunicato al pensionato;
  • il provvedimento risulta viziato da un errore imputabile all’Inps: lo sbaglio può anche consistere in una valutazione omessa o errata, ai fini del diritto o della misura del trattamento, di redditi già conosciuti dall’istituto [2].

L’errore non è imputabile all’Inps, se l’interessato non comunica all’istituto, o comunica solo in parte, eventuali fatti, sconosciuti all’ente, che possono avere delle conseguenze sul diritto o sulla misura della prestazione. Di conseguenza, le somme riconosciute indebitamente sono integralmente recuperabili.

L’errore è invece imputabile all’Inps, quindi i soldi non vanno restituiti, se l’interessato comunica all’ente l’esistenza di fatti che incidono sul diritto o sulla misura della prestazione, ma l’istituto continua a versare per intero le somme.

Pensione più alta per errori successivi alla liquidazione: si deve restituire?

Può capitare che l’Inps versi degli importi non spettanti a causa di un errore successivo al provvedimento di liquidazione della prestazione: l’errore può essere dovuto, ad esempio, al mutamento della situazione di fatto che incide sul diritto o sulla misura della pensione, o alla mancata o tardiva applicazione di una norma.

In sostanza, può capitare che, nonostante la pensione sia stata liquidata correttamente, intervengano, successivamente, delle norme o dei fatti in base ai quali la prestazione debba essere riliquidata.

Se le somme sono state versate sulla base di una valutazione errata, da parte dell’Inps, dei fatti intervenuti successivamente al provvedimento e conosciuti dall’ente, gli indebiti non possono essere richiesti, quindi si applica la sanatoria.

I soldi vanno invece restituiti se i fatti non erano conosciuti dall’Inps e sussisteva l’obbligo, da parte dell’interessato, di dichiararli.

Pensione più alta per errori nella dichiarazione dei redditi

Se i soldi in più sono stati accreditati al pensionato a causa di una mancata o erronea valutazione dei redditi, la situazione è più complessa.

Innanzitutto, l’Inps deve verificare ogni anno i redditi che possono incidere sulla misura o sul diritto alle prestazioni di previdenza e assistenza: inoltre, esiste un preciso termine [3] entro il quale l’istituto può procedere al recupero delle somme non dovute, superato il quale gli indebiti non possono più essere richiesti indietro.

Nello specifico:

  • se i redditi che hanno inciso sul diritto alla pensione o sul suo importo non erano, in principio, conosciuti dall’Inps, la richiesta di restituzione dell’indebito deve essere notificata entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di conoscenza dei redditi;
  • se i redditi che hanno inciso sul diritto alla pensione o sul suo importo sono riportati nella dichiarazione annuale (730 o modello Redditi), la richiesta di restituzione dell’indebito deve essere notificata entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello della dichiarazione.

In caso contrario, i soldi non possono essere chiesti indietro (fanno sempre eccezione le ipotesi in cui è accertato il dolo del contribuente).

In che modo l’Inps recupera le somme non dovute?

Nelle ipotesi in cui l’Inps può recuperare gli importi non dovuti, questi possono essere versati all’istituto:

  • tramite compensazione con i crediti del pensionato nei confronti dell’Inps: sono esclusi dalla compensazione gli assegni al nucleo familiare (Anf), la pensione o l’assegno sociale ed i trattamenti di invalidità civile, a meno che il debito e il credito del pensionato si riferiscano a prestazioni riconosciute allo stesso titolo e per lo stesso periodo;
  • tramite trattenute sulla pensione: in questo caso, il recupero può essere effettuato entro 1/5 della somma delle pensioni in pagamento, ferma restando la salvaguardia del trattamento minimo (513,01 euro mensili nel 2019), e senza interessi, a meno che il versamento non spettante sia stato causato dal dolo dell’interessato; nessun recupero può essere effettuato sugli assegni familiari, sulle pensioni e sugli assegni sociali, e sui trattamenti di invalidità civile, se non per indebiti relativi allo stesso tipo di prestazione;
  • tramite pagamento con rimessa in denaro: a seconda della situazione del debitore e dell’importo dovuto, l’Inps può stabilire un piano di recupero della durata massima di 24 mesi, salvo situazioni eccezionali.

Pace contributiva: come recuperare più anni di versamenti

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Come recuperare contributi per la pensione attraverso il riscatto per chi non lavora e non versa da molto tempo.
Il decreto-legge in materia di pensioni ha previsto, per i lavoratori più giovani, che non possiedono contributi precedenti al 1996, la possibilità di coprire i periodi senza versamenti ai fini della pensione: questa possibilità è stata chiamata pace contributiva.
In parole semplici, la pace contributiva consente di effettuare il riscatto di periodi non lavorati e non coperti da versamenti. Il riscatto dei contributi non è certamente una novità: sino a oggi, però, era possibile coprire soltanto alcuni periodi, ad esempio gli anni del corso di laurea o i periodi di aspettativa non retribuita. Grazie alla pace contributiva, invece, è possibile recuperare qualsiasi periodo scoperto presso le gestioni previdenziali amministrate dall’Inps.
I periodi che è possibile riscattare, però, non devono essere già coperti da contribuzione, comunque versata
e accreditata, presso forme di previdenza obbligatoria, e non devono risultare soggetti all’obbligo di versamenti.
Inoltre, i periodi scoperti che si possono recuperare devono essere collocati tra il primo versamento a una determinata forma previdenziale e l’ultimo versamento alla stessa gestione. Questa disposizione è un problema per chi possiede dei contributi versati presso un determinato fondo, ma non possiede “buchi contributivi”, cioè periodi non contribuiti tra il primo e l’ultimo versamento. In questo caso, si possono recuperare i periodi scoperti in qualche modo? Vediamo, con la pace contributiva, come recuperare più anni di versamenti.

Contributi volontari

Il decreto pensioni, nel disciplinare la pace contributiva, stabilisce che si possono coprire i periodi non contribuiti compresi tra il primo versamento e l’ultimo versamento presso una determinata gestione.
La norma chiarisce anche che, quale ultimo contributo da considerare, vale qualsiasi tipo di versamento, comunque effettuato.
Che cosa fare se, però, si possiedono dei contributi presso una determinata gestione, risalenti a parecchi anni fa, e successivamente non risulta più nessun versamento? In teoria, in questa situazione non sarebbe possibile riscattare alcunché con la pace contributiva, perché i periodi scoperti non rappresentano dei “buchi contributivi”, non essendo compresi tra il primo e l’ultimo versamento presso il fondo previdenziale. Come recuperare, allora, gli anni senza accrediti?
Per far sì che il periodo scoperto risulti un “buco contributivo”, quindi sia collocato tra il primo e l’ultimo accredito presso la gestione previdenziale considerata, è possibile accreditare dei nuovi contributi presso la stessa gestione, richiedendo l’autorizzazione al versamento di contribuzione volontaria.
Una volta accreditati i contributi volontari, ottenuto l’ok al versamento dall’Inps, il periodo non contribuito da riscattare risulterà collocato tra il primo e l’ultimo contributo risultanti presso la gestione previdenziale interessata. In sostanza, si “crea” un buco contributivo tra il primo e l’ultimo versamento nel fondo previdenziale. Risulterà così possibile aderire al riscatto con pace contributiva.
In ogni caso, bisogna tenere a mente che non è possibile riscattare, con pace contributiva, più di cinque anni.

Lavoro occasionale

Molti lavoratori sono iscritti da anni alla gestione separata dell’Inps senza ricordarsene, alcuni addirittura senza saperlo. Risulta iscritto presso questa cassa, difatti, non solo chi ha lavorato come libero professionista (senza una gestione previdenziale di categoria), ma anche chi ha effettuato delle collaborazioni, o chi ha lavorato con i vecchi voucher, o col contratto di prestazione occasionale, col libretto famiglia o, ancora, col lavoro autonomo occasionale (in quest’ultimo caso, i versamenti presso la gestione separata sono obbligatori se nell’anno sono stati superati 5mila euro di compensi).
Parecchi lavoratori, quindi, risultano avere alle spalle dei versamenti nella gestione separata, seguiti da un lungo periodo non contribuito.
Anche in questi casi, teoricamente, non si potrebbe aderire alla pace contributiva, in quanto manca il requisito del “buco contributivo”, cioè del periodo non contribuito tra il primo e l’ultimo versamento presso la gestione previdenziale.
Presso la gestione separata, però, perché possa essere accreditata ulteriore contribuzione si può anche evitare di richiedere l’autorizzazione al versamento dei contributi volontari. Può bastare, difatti, un breve contratto di collaborazione, o un’attività svolta con i nuovi voucher, ossia attraverso il contratto di prestazione occasionale o il libretto famiglia, perché siano accreditati dei nuovi versamenti presso questa cassa.
Accreditando dei nuovi contributi, il periodo scoperto viene a trovarsi tra il primo e l’ultimo versamento presso la gestione separata, e può essere dunque riscattato con pace contributiva, sino a un massimo di 5 anni.
Bisogna in ogni caso tener presente che i periodi riscattabili sono soltanto quelli anteriori all’entrata in vigore del decreto legge in materia di pensioni: non sarà dunque possibile utilizzare l’escamotage della pace contributiva per i periodi futuri.

Pensione senza limiti di età

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Pensione anticipata ordinaria, pensione di anzianità in totalizzazione, quota 41 e 42, inabilità e invalidità: quando si può uscire dal lavoro a prescindere dall’età?

Sei abbastanza giovane e possiedi molti anni di contributi previdenziali? Vorresti uscire dal lavoro il prima possibile ma non vuoi aspettare di compiere l’età pensionabile prevista per la pensione di vecchiaia?

Forse non sai che in alcuni casi la pensione può essere raggiunta senza bisogno di maturare un’età minima: questo è possibile, oggi, per chi richiede la pensione anticipata ordinaria (che può essere ottenuta anche cumulando i contributi di gestioni diverse), la pensione anticipata precoci e la pensione di anzianità in regime di totalizzazione.

Se sei un libero professionista, verifica se la tua gestione previdenziale prevede una pensione anticipata, o di anzianità, che può essere ottenuta sulla base dei soli anni di versamenti, senza limiti di età: in caso contrario, senza barriere collegate all’età minima puoi ottenere la pensione anticipata ordinaria in regime di cumulo, o la pensione di anzianità in totalizzazione.

Ma procediamo per ordine e facciamo il punto della situazione sulla pensione senza limiti di età: quali trattamenti si possono ottenere, come si calcolano, quali prestazioni sono previste dal nuovo decreto sulle pensioni.

Pensione anticipata ordinaria senza limiti di età

L’attuale pensione anticipata ordinaria si può richiedere senza bisogno della maturazione di un’età minima. In passato, invece, era richiesta un’età minima di 62 anni: chi non la possedeva era soggetto a delle penalizzazioni sull’assegno.

Ad oggi, la pensione anticipata si può raggiungere con i seguenti requisiti:

  • 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne;
  • 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini.

Dal 2019 si applica, però, una finestra mobile pari a 3 mesi, dalla data di maturazione del requisito contributivo. In sede di prima applicazione, chi matura i requisiti dal 1° gennaio 2019 al 29 gennaio 2019, data di entrata in vigore del decreto pensioni, consegue il diritto al trattamento pensionistico dal 1° aprile 2019.

I requisiti non subiranno gli incrementi periodici legati alla speranza di vita sino al 31 dicembre 2026.

Com’è calcolata la pensione anticipata senza limiti di età?

La pensione anticipata ordinaria, come la generalità dei trattamenti pensionistici, è calcolata col sistema:

  • retributivo sino al 31 dicembre 2011, poi contributivo, per chi possiede almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995;
  • retributivo sino al 31 dicembre 1995, poi contributivo, per chi possiede meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995;
  • interamente contributivo, per chi non possiede contributi al 31 dicembre 1995.

Come abbiamo osservato, ad oggi non sono più applicate penalizzazioni in base all’età.

Pensione anticipata in regime di cumulo

La pensione anticipata ordinaria può essere anche ottenuta in regime di cumulo, ossia sommando i contributi presenti in gestioni diverse.

Attraverso il cumulo, in pratica, i versamenti presenti in casse diverse sono sommati ai fini del diritto alla pensione, mentre ai fini della misura della pensione ogni gestione liquida la quota di propria competenza.

Il cumulo non prevede il ricalcolo contributivo della prestazione, per quanto riguarda le gestioni Inps: al contrario, il totale dei contributi cumulati rileva anche ai fini del sistema di calcolo della pensione da utilizzare. Se, ad esempio, attraverso il cumulo il pensionato raggiunge 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, ottiene il calcolo retributivo della prestazione sino al 31 dicembre 2011, anziché solo sino al 31 dicembre 1995. Non vengono considerati i contributi versati presso le casse professionali, però, ai fini del sistema di calcolo: in pratica, se si raggiungono 18 anni di contributi anche sommando i versamenti presso una gestione dei liberi professionisti, il metodo di calcolo non varia.

Per quanto riguarda le casse professionali, in certi casi il cumulo può determinare il calcolo contributivo della propria quota di pensione, se non si raggiunge un requisito assicurativo o di contribuzione minimo: dipende dal regolamento della specifica gestione.

Pensione di anzianità in totalizzazione senza limiti di età

La totalizzazione è uno strumento che, come il cumulo, dà la possibilità di ottenere il diritto alla pensione sommando i gratuitamente contributi versati in gestioni diverse.

Attraverso la totalizzazione è possibile raggiungere, senza limiti di età, la pensione di anzianità, con:

  • 41 anni di contributi (requisito valido dal 2019);
  • l’attesa di una finestra di 21 mesi.

Come si calcola la pensione in totalizzazione?

La pensione in totalizzazione è calcolata secondo il sistema contributivo, che si basa sulla contribuzione accantonata, rivalutata in base al Pil, e trasformata in assegno da appositi coefficienti che aumentano al crescere dell’età. Ogni gestione calcola separatamente la propria quota di pensione.

Se, però, in una delle gestioni previdenziali privatizzate si matura il diritto ad un’autonoma pensione di vecchiaia, il calcolo di quella quota non è contributivo, ma segue il sistema di calcolo proprio della gestione. Il più delle volte, le casse dei liberi professionisti prevedono, sino a un determinato anno, il calcolo reddituale della pensione (basato sui redditi migliori), poi il calcolo contributivo: è dunque questa sorta di calcolo misto che deve essere utilizzato, se presso il fondo si ottiene il diritto alla pensione di vecchiaia, senza bisogno di sommare i contributi di altre gestioni.

Pensione anticipata lavoratori precoci senza limiti di età

I lavoratori precoci, cioè coloro che possiedono almeno 12 mesi di contributi versati prima del 19° anno di età, possono ottenere la pensione anticipata, senza limiti di età, con 41 anni di contributi (con l’applicazione di una finestra mobile di 3 mesi dal 2019), se appartengono a una delle categorie salvaguardate: disoccupati, invalidi in misura almeno pari al 74%, caregiver (coloro che assistono, da almeno 6 mesi, un familiare entro il 2° grado convivente, con handicap grave), addetti ai lavori gravosi e usuranti.

Per ciascuna di queste categorie sono previsti dei requisiti specifici, al fine di ottenere la pensione anticipata precoci:

  • chi matura i requisiti entro il 31 dicembre 2019 deve presentare domanda per il riconoscimento delle condizioni di accesso al beneficio entro il 1° marzo 2019;
  • chi matura i requisiti entro il 31 dicembre 2020 (pari, ugualmente, a 41 anni di contributi) deve presentare domanda di certificazione dei requisiti entro il 1° marzo 2020;
  • non è prevista una scadenza per questo tipo di pensione agevolata, la cui domanda di certificazione può dunque essere presentata entro il 1° marzo di ogni anno; l’adeguamento dei requisiti alla speranza di vita media è bloccato sino al 31 dicembre 2026.

Pensione anticipata quota 41 

La possibilità di ottenere la pensione con 41 anni di contributi, in base alle attuali proposte, dovrebbe essere estesa anche ai lavoratori non precoci e non appartenenti alle categorie tutelate, a partire dal 2022, una volta terminata la sperimentazione Quota 100.

Assegno d’invalidità senza limiti d’età

Un’altra prestazione che è possibile ottenere senza limiti d’età è l’assegno ordinario d’invalidità. L’assegno ordinario d’invalidità è una prestazione, riconosciuta dall’Inps, che spetta a chi possiede una riduzione della capacità lavorativa superiore ai 2/3.

Perché si possa ottenere l’assegno ordinario d’invalidità, nel dettaglio, è necessario possedere:

  • almeno 5 anni di contributi;
  • almeno 3 anni di contributi versati nell’ultimo quinquennio;
  • un’invalidità superiore ai 2/3, ossia la riduzione della capacità lavorativa a meno di 1/3.

L’assegno d’invalidità è calcolato allo stesso modo della pensione, in base ai redditi e ai contributi posseduti, a seconda del sistema di calcolo utilizzato. È ridotto in presenza di redditi da lavoro superiori a un certo tanto. Per saperne di più: Quando si riduce l’assegno d’invalidità.

Pensione d’inabilità senza limiti d’età

Nemmeno per la pensione d’inabilità sono previsti dei limiti minimi di età: bastano infatti 5 anni di contributi, di cui 3 versati nell’ultimo quinquennio (gli stessi requisiti previsti per l’assegno ordinario d’invalidità), per aver diritto al trattamento. La pensione d’inabilità è più vantaggiosa, solitamente, dell’assegno d’invalidità, perché non è calcolata sulla sola base dei contributi posseduti, ma viene aggiunta una maggiorazione, sino al compimento del sessantesimo anno di età e sino a un massimo di 40 anni di contributi. Il diritto alla pensione d’inabilità, però, non è riconosciuto facilmente: per ottenere questo trattamento, difatti, che non va confuso con la pensione per inabilità alle mansioni o a proficuo lavoro, è necessario che sia riconosciuta l’impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa, in modo assoluto e permanente.

Per le prestazioni di assistenza sono previsti limiti di età?

Solitamente, per le prestazioni di assistenza, come l’accompagno o la pensione d’invalidità civile, non è prevista un’età minima, ma sono disposti precisi requisiti sanitari, ed in alcuni casi anche limiti di reddito. Ci sono comunque delle prestazioni di assistenza legate all’età, come la pensione sociale e l’assegno sociale.

Per il prepensionamento ci sono limiti di età?

Per le prestazioni di prepensionamento che possono essere agganciate alla pensione anticipata, come assegno straordinario e Isopensione, non sono previsti limiti di età.

Scivolo per la pensione

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Isopensione, assegno straordinario, Ape sociale, volontario e aziendale, Rita, prepensionamento Quota 100: quali sono e come funzionano gli scivoli pensionistici.

Si sente spesso parlare dello scivolo per la pensione: di che cosa si tratta? Sono chiamati scivoli per la pensione quei trattamenti , come l’assegno straordinario, l’Ape e l’Isopensione, che offrono un sostegno economico al lavoratore sino alla data in cui matura i requisiti per la pensione.

Con lo scivolo, in pratica, l’interessato può uscire dal lavoro in anticipo, senza per questo ritrovarsi senza reddito né pensione. In alcuni casi, come avviene per il cosiddetto prepensionamento Quota 100 , ci si può “pensionare” anche 8 anni prima (questa prestazione, infatti, può essere erogata a coloro ai quali mancano non più di 3 anni per la pensione con Quota 100, che può essere riconosciuta sino a 5 anni prima del compimento dell’età pensionabile) ; l’Isopensione e l’assegno straordinario consentono di uscire dal lavoro con 7 anni di anticipo, con un importo molto vicino alla pensione spettante. Grazie alla Rita, addirittura, si può ottenere un assegno 10 anni prima di maturare i requisiti per la pensione, anche se la possibilità è riservata soltanto agli iscritti alla previdenza complementare.

Ma quali sono, nel dettaglio, gli scivoli pensionistici, chi può accedervi e come funzionano?  Proviamo a fare chiarezza.

Isopensione

L’isopensione è uno scivolo pensionistico istituito dalla Legge Fornero nel 2012 [1], recentemente modificato,  che consente ai dipendenti di anticipare l’uscita dal lavoro sino a un massimo di 7 anni senza perdere la retribuzione.

Non si tratta di un vero e proprio pensionamento anticipato, anche se la prestazione a cui il lavoratore ha diritto è vicina al trattamento di pensione spettante: si tratta, invece, di una prestazione previdenziale a sostegno del reddito, come la disoccupazione e la mobilità.

Possono beneficiare dell’Isopensione i lavoratori in esubero che:

  • sono occupati presso aziende che hanno mediamente più di 15 dipendenti, ai quali manchino non più di 7 anni al raggiungimento dei requisiti per la pensione;
  • sono oggetto di un accordo sindacale aziendale per l’uscita volontaria degli esuberi (con le organizzazioni comparativamente più rappresentative);
  • concludono un ulteriore accordo con l’impresa, con cui si fornisce il consenso alla cessazione del rapporto (il consenso non è necessario solo in caso di licenziamenti collettivi).

Oltre all’Isopensione, erogata mensilmente, al lavoratore sono anche accreditati i contributi previdenziali spettanti sino alla data di maturazione dei requisiti per la pensione anticipata o di vecchiaia (a seconda del trattamento che il lavoratore può ottenere per primo).

Assegno straordinario di prepensionamento

Per i lavoratori di alcune imprese che aderiscono ai fondi bilaterali (ad oggi, aziende destinatarie dei fondi di Credito ordinario, Credito cooperativo, Esattoriali, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, imprese assicuratrici, società di assistenza e del Trentino, coinvolte in processi di ristrutturazione o riorganizzazione) può essere erogato, se previsto dagli accordi di costituzione del fondo, un assegno straordinario per il sostegno al reddito: la prestazione, meglio nota come prepensionamento, è riconosciuta nelle procedure di agevolazione all’esodo dei dipendenti.

L’assegno straordinario, come l’Isopensione, può essere ottenuto dai dipendenti che maturano i requisiti per la pensione di vecchiaia o anticipata entro 7 anni.

L’assegno straordinario è pari all’importo della pensione spettante alla data di cessazione del rapporto di lavoro, compresa la quota di pensione calcolata sulla base della contribuzione mancante per il diritto alla pensione di vecchiaia.

Ape volontario

Un altro scivolo introdotto di recente è l’anticipo pensionistico volontario, o Ape volontario: questo strumento consente l’uscita dal lavoro sino a 3 anni e 7 mesi prima rispetto alla maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia.

L’Ape volontario è ottenuto grazie a un prestito bancario, il cosiddetto prestito pensionistico, un finanziamento che deve essere restituito in 20 anni, una volta perfezionati i requisiti per la pensione.

Il trattamento è esentasse: ciò significa che l’assegno ricevuto mensilmente a titolo di Ape non ha trattenute tributarie, non essendo gravato dalle imposte.

L’Ape volontario, per quanto riguarda l’importo dell’assegno, può arrivare:

  • al 75% dell’importo mensile della pensione, se la durata di erogazione dell’Ape è superiore a 36 mesi;
  • all’80% dell’importo mensile della pensione, se la durata di erogazione dell’Ape è superiore a 24 e pari o inferiore a 36 mesi;
  • all’85% dell’importo mensile della pensione, se la durata di erogazione dell’Ape è compresa tra 12 e 24 mesi;
  • al 90% dell’importo mensile della pensione, se la durata di erogazione dell’Ape è inferiore a 12 mesi.

L’Ape volontario determina un taglio della futura pensione: la penalizzazione non è soltanto dovuta ai costi di restituzione di prestito pensionistico, ma anche all’assicurazione obbligatoria per il rischio di premorienza e al contributo per il fondo di garanzia.

Ape aziendale

L’Ape aziendale consiste nella possibilità, per il datore di lavoro, di incentivare l’esodo dei dipendenti ai quali non mancano più di 3 anni e 7 mesi alla pensione di vecchiaia, offrendo un contributo che serva ad abbassare i costi dell’Ape volontario.

Nello specifico, il datore di lavoro può, con il consenso del lavoratore dipendente interessato dall’esodo, incrementare la somma dei contributi accreditati a quest’ultimo, versando un contributo all’Inps in un’unica soluzione al momento della richiesta dell’Ape.

Il contributo non deve essere inferiore, per ciascun anno o sua frazione di anticipo rispetto alla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, all’importo della contribuzione volontaria basata sulla retribuzione percepita dal lavoratore prima del pensionamento (per approfondire: Come calcolare i contributi volontari).

Il contributo aggiuntivo serve ad incrementare la misura della pensione che il lavoratore riceve una volta terminata la fruizione dell’Ape, abbassando in questo modo l’incidenza sulla prestazione delle rate di restituzione del prestito finanziario.

Ape sociale

L’Ape sociale ha un meccanismo molto simile all’Ape volontario, in quanto accompagna il lavoratore dai 63 anni di età sino all’età per la pensione di vecchiaia: il costo dell’anticipo pensionistico, però, è a carico dello Stato, e l’importo dell’assegno è uguale a quello della futura pensione, con un massimo di 1500 euro mensili.

Le categorie beneficiarie dell’Ape sociale sono i disoccupati di lungo corso, i caregiver, gli invalidi dal 74% e gli addetti ai lavori gravosi: disoccupati, caregiver e invalidi dal 74% ottengono l’anticipo con almeno 30 anni di contributi, mentre per gli addetti ai lavori gravosi ne occorrono 36. Le donne hanno diritto a una riduzione del requisito contributivo di un anno per ogni figlio, sino a un massimo di 2 anni.

L’Ape sociale è stata prorogata al 2019: possono cioè richiederla coloro che maturano i requisiti utili sino al 31 dicembre 2019.

Rita

La Rita,  rendita integrativa anticipata, è una prestazione di previdenza complementare, che affianca la pensione principale e ne integra l’importo, e può essere erogata sino a 10 anni prima della data di maturazione della pensione principale.

Ne hanno diritto gli iscritti alla previdenza complementare che risultano disoccupati da almeno 24 mesi, possiedono almeno 20 anni di contributi e maturano entro 5 anni i requisiti per la pensione di vecchiaia.

Inoltre, la rendita può essere richiesta con un anticipo di 10 anni rispetto alla data di maturazione dei requisiti della pensione principale, nell’ipotesi in cui l’anticipo decennale sia previsto dallo statuto o dal regolamento del fondo di previdenza complementare a cui il lavoratore aderisce.

La pensione integrativa è finanziata attraverso il conferimento del Tfr (trattamento di fine rapporto) al fondo di previdenza complementare e attraverso il versamento di contributi supplementari.

Prepensionamento quota 100

Il prepensionamento quota 100 offre la possibilità di uscire dal lavoro ai dipendenti in esubero ai quali non manchino più di 3 anni per raggiungere la pensione con quota 100. In sostanza, ci si può pensionare con quota 94, ossia con soli 59 anni di età e 35 anni di contributi: si tratta di una nuova possibilità prevista dal decreto pensioni [2].

Con la quota 94 si ottiene non una vera e propria pensione, ma un assegno di prepensionamento, molto simile all’Isopensione e all’assegno straordinario: in pratica, si tratta di una prestazione di accompagnamento alla pensione, d’importo pari, o molto vicino, al futuro trattamento spettante.

Il nuovo assegno di prepensionamento può essere richiesto dai lavoratori ai quali non mancano più di 3 anni per raggiungere la pensione quota 100, se appartenenti a un’azienda che aderisce ad un ente bilaterale e che ha sottoscritto appositi accordi sindacali.

Il pensionamento anticipato è finanziato sia dall’azienda che dal fondo interprofessionale a cui aderisce; ad ogni prepensionamento deve poi seguire un’assunzione incentivata: il provvedimento della pensione quota 100 3 anni prima, per questo motivo, è stato ribattezzato “staffetta generazionale”.

Possono prepensionare i lavoratori senza assumerne di nuovi, comunque, le aziende in crisi.


Stipendio e pensione: cumulo del reddito

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In quali casi il pensionato ha il divieto di cumulare il reddito derivante dal lavoro dipendente col reddito di pensione?

Sino a una decina di anni fa, percepire una pensione assieme a uno stipendio, o a un reddito da lavoro, non era possibile: la pensione riconosciuta, difatti, doveva essere decurtata in base ai redditi di lavoro prodotti nell’anno, in modo differente a seconda del trattamento spettante. Solo con una legge del 2008 [1], infatti, è stato abolito il divieto di cumulo tra reddito di lavoro e pensione, rendendo così possibile sommare le due tipologie di reddito in modo pieno. Lo stop al divieto di cumulo non ha effetto, però, per tutte le pensioni: per alcuni trattamenti, come le prestazioni per invalidità e indirette, continuano ancora ad applicarsi i limiti di cumulo con i redditi derivanti dall’attività lavorativa. Nuovi limiti sono stati poi introdotti per chi ha diritto alla pensione anticipata precoci e per gli aventi diritto alla pensione con quota 100, trattamento che può essere ottenuto dal 2019.

Ad oggi quali pensioni non possono essere sommate, in tutto o in parte, al reddito di lavoro? Facciamo il punto della situazione su stipendio e pensione: cumulo del reddito, quali trattamenti possono essere tagliati.

Pensione anticipata precoci

In primo luogo, è presente un divieto di cumulo assoluto tra il reddito di lavoro ed il reddito di pensione, nel caso in cui la prestazione riconosciuta sia la cosiddetta pensione anticipata per i lavoratori precoci.

Nel dettaglio, il trattamento liquidato dall’Inps non può essere sommato al reddito percepito per lo svolgimento di un’attività lavorativa, ad esempio allo stipendio, o ai compensi per lavoro autonomo, per il periodo che va dalla decorrenza della pensione anticipata precoci, sino alla data in cui sarebbero maturati i requisiti per la pensione anticipata ordinaria.

A questo proposito, è opportuno ricordare che la pensione anticipata dei lavoratori precoci si ottiene con 41 anni di contributi, mentre la pensione anticipata ordinaria con 41 anni e 10 mesi di contribuzione per le donne, e 42 anni e 10 mesi per gli uomini.

Il cumulo tra redditi di lavoro e di pensione, di conseguenza, è vietato in modo assoluto per un periodo massimo di 1 anno e 10 mesi per gli uomini e di 10 mesi per le donne.

Dal 2019, a queste pensioni si applica una finestra mobile di 3 mesi; gli adeguamenti alla speranza di vita sono bloccati sino al 31 dicembre 2026.

Pensione di reversibilità

Un limite di cumulo parziale, tra reddito di pensione e reddito derivante dall’attività lavorativa, si applica se l’interessato percepisce una prestazione di reversibilità o indiretta, cioè una pensione ai superstiti: la prestazione riconosciuta dall’Inps è ridotta:

  • del 25% se il reddito del pensionato supera 3 volte il trattamento minimo, ossia se supera i 20.007,39 euro annui, per il 2019 (considerando che dal 2019 il trattamento minimo sale a 513, 01 euro mensili);
  • del 40%, se il reddito del pensionato supera il trattamento minimo di 4 volte, ossia se supera i 26.676,52 euro annui, per il 2019;
  • del 50% se il reddito del pensionato supera il trattamento minimo di 5 volte, ossia se supera i 33.345,65 euro annui, per il 2019.

Assegno ordinario d’invalidità

Se il beneficiario dell’assegno ordinario d’invalidità (che spetta, in presenza di almeno 5 anni di contributi, di cui 3 accreditati nell’ultimo quinquennio, se la capacità lavorativa dell’interessato è ridotta a meno di un terzo) percepisce redditi di lavoro, l’assegno è decurtato del 25% se il reddito derivante dall’attività lavorativa supera di 4 volte il trattamento minimo, mentre è dimezzato se lo supera di 5 volte.

L’assegno ordinario d’invalidità, sull’eventuale parte eccedente il trattamento minimo, può subire un’ulteriore decurtazione, corrispondente:

  • al 50% della quota eccedente il minimo, se il reddito percepito è di lavoro dipendente;
  • al 30% della quota eccedente il minimo, se il reddito percepito è di lavoro autonomo.

Questa seconda riduzione non può superare l’importo del reddito prodotto, e non si può applicare se l’invalido possiede almeno 40 anni di contributi; la decurtazione non si applica in presenza di particolari condizioni [2].

Pensione d’invalidità o inabilità specifica

Se l’interessato percepisce una pensione d’invalidità o inabilità specifica (ad esempio la pensione per inabilità alle mansioni o a proficuo lavoro), subisce il solo taglio dell’eventuale parte del trattamento eccedente il minimo (quindi oltre i 513,01 euro mensili), che corrisponde alla seconda riduzione dell’assegno d’invalidità.

Se la pensione non è un trattamento d’invalidità o indiretto, ma è calcolata utilizzando il sistema integralmente contributivo, può essere sommata in misura piena con i redditi da lavoro solo se risulta verificata almeno una delle seguenti condizioni, alla decorrenza della prestazione:

  • l’interessato risulta possedere i requisiti previsti per la pensione di vecchiaia precedenti alla Legge Fornero;
  • l’interessato risulta in possesso dei requisiti previsti per la pensione di anzianità (con e senza quote) precedenti alla Legge Fornero.

Pensione d’inabilità

La pensione per assoluta e permanente inabilità all’attività lavorativa non è cumulabile con alcun tipo di reddito di lavoro.

Ape sociale

Se il lavoratore risulta percettore dell’Ape sociale, ossia dell’anticipo pensionistico a carico dello Stato, può cumulare il trattamento con redditi derivanti da lavoro dipendente e collaborazioni sino a 8mila euro annui, e con redditi di lavoro autonomo sino a 4800 euro annui.

Quota 100

Infine, per quanto riguarda i lavoratori che dal 2019 percepiranno la nuova pensione anticipata con quota 100 (la misura sarà operativa a breve), è appena entrato in vigore un divieto di cumulo parziale con i redditi di lavoro: in particolare, il reddito di pensione non è cumulabile con i redditi derivanti da lavoro dipendente o autonomo, mentre è cumulabile con i compensi derivanti da lavoro autonomo occasionale, non superiori a 5mila euro all’anno.

Il limite di cumulo parziale si applicha sino al compimento dell’età per la pensione di vecchiaia, cioè sino ai 67 anni del pensionato.

Quale pensione con 20 anni di contributi

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A quali trattamenti ha diritto chi possiede 20 anni di contributi: pensione di vecchiaia, pensione anticipata contributiva, Ape.

Pensi che occorrano almeno 43 anni di contributi per ottenere la pensione? Questo è vero soltanto per quanto riguarda la pensione anticipata ordinaria, che si ottiene con 42 anni e 10 mesi di versamenti, per gli uomini, e con 41 anni e 10 mesi di versamenti per le donne (i requisiti aumenteranno di 5 mesi nel 2019, portando le soglie di accesso, rispettivamente, a 43 anni e 3 mesi ed a 42 anni e 3 mesi). Ci sono diversi casi, però, nei quali è possibile pensionarsi con 20 anni di contributi: partiamo dall’ordinaria pensione di vecchiaia, per la quale sono necessari, appunto, 20 anni di contribuzione, per arrivare alla pensione anticipata contributiva, a 64 anni, passando per due ulteriori forme di pensionamento agevolato, l’Ape volontario e la pensione di vecchiaia anticipata. Per non parlare, poi, dei casi in cui è possibile pensionarsi con soli 15 anni di versamenti, e addirittura con soli 5 anni di contribuzione. Ma procediamo per ordine e vediamo, nel dettaglio, quale pensione con 20 anni di contributi è possibile ottenere.

Pensione di vecchiaia con 20 anni di contributi

Con 20 anni di contributi è possibile ottenere, in primo luogo, la pensione di vecchiaia: questa tipologia di pensione, nel dettaglio, fino al 31 dicembre 2018 si poteva raggiungere con 66 anni e 7 mesi di età e con almeno 20 anni di versamenti, contributi figurativi (maternità, servizio militare, disoccupazioni, casse integrazioni e malattia), volontari e da riscatto compresi. La pensione di vecchiaia si può raggiungere anche attraverso il cumulo dei contributi, cioè sommando la contribuzione presente in gestioni previdenziali differenti.

Dal 1° gennaio 2019 l’età pensionabile è salita di 5 mesi, e risulta dunque pari a 67 anni; resta invece invariato il requisito pari a 20 anni di contributi previdenziali, non soggetto all’applicazione dell’adeguamento all’aspettativa di vita. Successivamente, il requisito di età dovrebbe aumentare di 3 mesi ogni biennio.

L’età per la pensione di vecchiaia resta ferma al requisito di 66 anni e 7 mesi di età solo per gli addetti ai lavori gravosi, ma in questo caso saranno necessari almeno 30 anni di contributi.

Per coloro che non hanno versamenti di contributi prima del 1996, per la pensione di vecchiaia è richiesto, oltre al requisito di età ed al requisito di 20 anni di contributi, anche il superamento di una determinata soglia da parte dell’assegno di pensione: la pensione, nello specifico, deve risultare superiore a 1,5 volte l’assegno sociale, cioè a 686,99 euro (valore per l’anno 2019). Chi non possiede contributi al 31 dicembre 1995 può comunque ottenere la pensione di vecchiaia con soli 5 anni di contributi, al compimento di 71 anni di età (dal 2019). Per approfondire: Pensione di vecchiaia contributiva.

Pensione di vecchiaia anticipata con 20 anni di contributi

Per i lavoratori dipendenti del settore privato, in possesso d’invalidità pensionabile almeno pari all’80%, è possibile ottenere la pensione di vecchiaia, con 20 anni di contributi:

  • a 56 anni di età, più l’attesa di 12 mesi di finestra, se donne;
  • a 61 anni di età, più 12 mesi di finestra, se uomini.

Ricordiamo che, per chi rientra in una delle tre deroghe Amato, è possibile ottenere sia la pensione di vecchiaia, che la pensione di vecchiaia anticipata, con soli 15 anni di versamenti. Per approfondire: Pensione con 15 anni di contributi.

Pensione anticipata con 20 anni di contributi

Con 20 anni di contribuzione è anche possibile ottenere la pensione anticipata a 64 anni di età, per chi non ha contributi versati prima del 1996: in questo caso, però, il trattamento deve risultare almeno pari a 2,8 volte l’assegno sociale, cioè almeno pari a 1.282,37 euro (valore per l’anno 2019). Dal 2021 il requisito di età per la pensione anticipata contributiva dovrebbe salire a 64 anni e 3 mesi.

Anticipo pensionistico con 20 anni di contributi

Sono necessari 20 anni di contributi per accedere all’anticipo pensionistico volontario, o Ape volontario: si tratta di una prestazione, da non confondere con la pensione anticipata, che accompagna il lavoratore dai 63 anni di età (o dal momento in cui domanda il trattamento) sino all’età in cui può ottenere la pensione di vecchiaia.

In pratica, con l’Ape il lavoratore può ricevere un assegno, a partire dai 63 anni di età, se possiede almeno 20 anni di contributi, sino alla data di maturazione della pensione di vecchiaia, con un anticipo massimo possibile pari a 3 anni e 7 mesi.

Considerando che l’età per la pensione di vecchiaia, nel 2018, era pari a 66 anni e 7 mesi, l’anticipo sino allo scorso anno poteva essere richiesto con un minimo di 63 anni di età; per coloro che maturano i requisiti per la pensione di vecchiaia dal 2019, però, il requisito slitta a 63 anni e 5 mesi di età, dato che dal 2019 l’età pensionabile è stata elevata a 67 anni. In caso di futuri adeguamenti alla speranza di vita nel 2021, il decreto sull’Ape volontario prevede la concessione dell’Ape supplementare, ossia un allungamento del periodo di percezione dell’anticipo.

L’Ape volontario è ottenuto grazie a un prestito bancario, che deve essere restituito in 20 anni, una volta perfezionati i requisiti per la pensione: la restituzione del finanziamento comporta delle penalizzazioni non indifferenti.

L’Ape volontario è esentasse, e l’importo massimo dell’assegno non può superare, rispettivamente:

  • il 75% dell’importo mensile del trattamento pensionistico, se la durata di erogazione dell’Ape è superiore a 36 mesi;
  • l’80% dell’importo mensile del trattamento pensionistico, se la durata di erogazione dell’Ape è superiore a 24 e pari o inferiore a 36 mesi;
  • l’85% dell’importo mensile del trattamento pensionistico, se la durata di erogazione dell’Ape è compresa tra 12 e 24 mesi;
  • il 90% dell’importo mensile del trattamento pensionistico, se la durata di erogazione dell’APE è inferiore a 12 mesi.

L’anticipo minimo da richiedere deve essere comunque pari a 6 mesi e la futura pensione, al netto della ritenuta Ape, non deve essere inferiore a 1,4 volte il trattamento minimo (circa 710 euro); inoltre il rateo dell’anticipo sulla pensione, da solo o assieme ad altri debiti pregressi, non può superare il 30% della prestazione stessa.

L’Ape è precluso per chi versa in particolari situazioni di difficoltà economica (si veda: Niente Ape per chi ha debiti) e per chi, soggetto al calcolo interamente contributivo della pensione, ha diritto a una futura pensione inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale, cioè a circa 686,99 euro.

Quale pensione con meno di 20 anni di contributi?

In alcuni casi è possibile ottenere la pensione, come abbiamo accennato, con meno di 20 anni di contributi. In particolare, ci si può pensionare:

  • con 15 anni di contributi, grazie alle deroghe Amato;
  • con 5 anni di contributi, con la pensione di vecchiaia contributiva;
  • con 5 anni di contributi, se si ha diritto alla pensione d’inabilità o all’assegno d’invalidità.

Per approfondire: Pensione con pochi anni di contributi.

Alcune casse professionali e fondi di previdenza complementari o integrativi prevedono, in determinati casi, la possibilità di raggiungere la pensione con meno di 20 anni di contributi: ad esempio, la pensione di vecchiaia contributiva degli avvocati può essere raggiunta con un minimo di 5 anni di versamenti.

Pensione con meno di 60 anni, chi può uscire

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In quali casi è possibile pensionarsi con meno di 60 anni di età?

Con l’età pensionabile che è stata appena elevata a 67 anni di età, sembra un miraggio ottenere la pensione con meno di 60 anni: eppure esistono ancora alcune deroghe, agevolazioni e alcuni fondi previdenziali speciali, che consentono il pensionamento con questo larghissimo anticipo.

Alcuni tra questi strumenti di flessibilità sono stati recentemente ampliati e ristrutturati dal nuovo decreto sulle pensioni [1], come l’opzione Donna e la pensione anticipata ordinaria e precoci. Altre possibilità di uscire dal lavoro prima dell’età pensionabile, invece, non sono state modificate col tempo. In altri casi ancora, a 60 anni è possibile fruire non di una vera e propria pensione, ma del prepensionamento, una prestazione di sostegno al reddito che accompagna l’interessato sino alla maturazione dei requisiti per la quiescenza.

Ma procediamo per ordine e vediamo, nel dettaglio, chi può andare in pensione con meno di 60 anni.

Pensione anticipata per chi ha iniziato a lavorare da giovane

Innanzitutto, può pensionarsi con meno di 60 anni di età chi ha iniziato a lavorare, continuativamente, da giovanissimo, dai circa 17 anni di età in giù se uomo, e dai 18 anni in giù se donna. La pensione anticipata si può difatti ottenere, a prescindere dall’età, con 42 anni e 10 mesi di contributi, per i lavoratori, e con 41 anni e 10 mesi di contributi, se donna. A partire dal 2019, sono applicate delle finestre mobili di 3 mesi, dalla data di maturazione dei requisiti.

Peraltro, per chi possiede almeno 12 mesi di contributi da effettivo lavoro accreditati prima del 19° anno di età, è possibile pensionarsi con soli 41 anni di contributi, se si appartiene a una categoria debole (invalidi dal 74%, caregivers o disoccupati di lungo corso) o si è addetti ai lavori gravosi

Pensione di vecchiaia anticipata

Le donne con invalidità pensionabile almeno pari all’80%, se dipendenti del settore privato, possono pensionarsi con soli 56 anni di età e un minimo di 20 anni di contributi (15 per chi beneficia di una delle deroghe Amato). Per gli uomini il requisito è più alto, pari a 61 anni di età.

Per i non vedenti i requisiti di età sono pari a 56 anni per gli uomini ed a 51 anni per le donne, con un minimo di 10 anni di contributi.

Opzione donna

Le lavoratrici che hanno raggiunto 35 anni di contributi alla data del 31 dicembre 2018, ed hanno compiuto 58 anni alla stessa data (59 anni se lavoratrici autonome), possono ottenere la pensione con questo requisito di età agevolato, grazie al beneficio conosciuto come Opzione donna.

In cambio dell’agevolazione, però, il trattamento è ricalcolato col sistema contributivo. Si applica inoltre una finestra pari a 18 mesi per le autonome ed a 12 mesi per le dipendenti.

Pensione di anzianità comparto difesa e sicurezza

Per i lavoratori del comparto difesa e sicurezza è possibile raggiungere la pensione di anzianità:

  • con 58 anni di età ed un minimo di 35 anni di contributi;
  • con 41 anni di contributi a prescindere dall’età.

I lavoratori del comparto difesa e sicurezza possono ottenere la pensione di vecchiaia con 60 anni di età ed un minimo di 35 anni di contributi effettivi.

Nei casi elencati si applica una finestra di 12 mesi.

Pensione dei ballerini, attori e tersicorei

I lavoratori del gruppo ballo, iscritti all’Enpals, hanno diritto alla pensione di vecchiaia con 47 anni di età, con un minimo di 20 anni di contributi.

Pensione dei cantanti e dei concertisti

I lavoratori appartenenti al gruppo Canto e concertisti orchestrali dell’Enapls hanno diritto alla pensione di vecchiaia con 60 anni di età, se donne, unitamente a 20 anni di contribuzione. Per gli uomini il requisito è di 62 anni di contributi.

Pensione dei lavoratori marittimi

Si pensionano con meno di 60 anni di età anche i lavoratori marittimi, se adibiti al servizio di macchina o  di stazione radiotelegrafica di bordo. Il requisito per la pensione di vecchiaia, in particolare, è di 59 anni di età, unitamente a 20 anni di contributi.

Pensione di vecchiaia sportivi professionisti

Gli sportivi professionisti possono pensionarsi con 54 anni di età se uomini, 52 anni se donne, con un minimo di 20 anni di anzianità assicurativa e 5.200 contributi giornalieri accreditati con la qualifica di sportivo professionista.

I lavoratori privi di contributi alla data del 31 dicembre 1995 possono ottenere la pensione di vecchiaia con una riduzione del requisito di età pari a un massimo di 5 anni.

Isopensione

L’isopensione è uno scivolo pensionistico, ossia una prestazione che consente ai dipendenti di anticipare l’uscita dal lavoro sino a un massimo di 7 anni senza perdere la retribuzione. Si può dunque uscire dal lavoro con un minimo di 60 anni, considerando che l’attuale età pensionabile è pari a 67 anni. Inoltre, a prescindere dall’età, si può uscire dal lavoro quando non mancano più di 7 anni dalla maturazione dei requisiti per la pensione anticipata.

Non si tratta di un vero e proprio pensionamento anticipato, anche se la prestazione a cui il lavoratore ha diritto è vicina al trattamento di pensione spettante: si tratta, invece, di una prestazione previdenziale a sostegno del reddito, come la disoccupazione e la mobilità.

Assegno straordinario di prepensionamento

Per i lavoratori di alcune imprese che aderiscono ai fondi bilaterali (ad oggi, aziende destinatarie dei fondi di Credito ordinario, Credito cooperativo, Esattoriali, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, imprese assicuratrici, società di assistenza e del Trentino, coinvolte in processi di ristrutturazione o riorganizzazione) può essere erogato, se previsto dagli accordi di costituzione del fondo, un assegno straordinario per il sostegno al reddito: la prestazione, meglio nota come prepensionamento, è riconosciuta nelle procedure di agevolazione all’esodo dei dipendenti.

L’assegno straordinario, come l’Isopensione, può essere ottenuto dai dipendenti che maturano i requisiti per la pensione di vecchiaia o anticipata entro 7 anni, quindi anche a 60 anni di età.

Prepensionamento quota 100

Il prepensionamento quota 100 offre la possibilità di uscire dal lavoro ai dipendenti in esubero ai quali non manchino più di 3 anni per raggiungere la pensione con quota 100. In sostanza, ci si può pensionare con quota 94, ossia con soli 59 anni di età e 35 anni di contributi: si tratta di una nuova possibilità prevista dal decreto pensioni [1].

Con la quota 94 si ottiene non una vera e propria pensione, ma un assegno di prepensionamento, molto simile all’Isopensione e all’assegno straordinario: in pratica, si tratta di una prestazione di accompagnamento alla pensione, d’importo pari, o molto vicino, al futuro trattamento spettante.

Il nuovo assegno di prepensionamento può essere richiesto dai lavoratori ai quali non mancano più di 3 anni per raggiungere la pensione quota 100, se appartenenti a un’azienda che aderisce ad un ente bilaterale e che ha sottoscritto appositi accordi sindacali.

Residenza quando decade

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In quali casi può avvenire la cancellazione anagrafica dalla popolazione residente nel Comune: irreperibilità, trasferimento e altre ipotesi.

Ti sei dovuto assentare dalla tua abitazione per lavoro per parecchio tempo: considerato che il tuo trasferimento era temporaneo e non definitivo, non hai effettuato alcun cambio di residenza. Ora che sei tornato, però, temi che, a causa della tua irreperibilità prolungata, il tuo Comune ti abbia cancellato dalla popolazione residente.

Il tuo ex inquilino è andato via dalla casa che gli avevi affittato molto tempo fa, e si è trasferito chissà dove: recandoti presso il tuo Comune, tuttavia, hai scoperto che risulta ancora regolarmente residente presso la tua abitazione.

Allora la residenza quando decade? Il Comune, tramite i vigili, deve eseguire delle verifiche periodiche per stabilire se la residenza di una persona iscritta all’anagrafe è cambiata? Il proprietario di un’abitazione affittata può segnalare al Comune che l’inquilino non abita più lì? Che cosa succede se in occasione del censimento in casa non viene trovato nessuno? E se non si ritirano le raccomandate, o ci si toglie la cassetta della posta, si può essere segnalati in quanto irreperibili?

Proviamo a fare chiarezza sui casi nei quali può avvenire la cancellazione anagrafica dalla popolazione residente nel Comune.

Quando può essere cancellata la residenza?

La cancellazione anagrafica dalla popolazione residente nel Comune può avvenire nei seguenti casi:

  • morte;
  • emigrazione in un altro comune o all’estero;
  • trasferimento del domicilio in un altro comune, nel caso di persone senza fissa dimora;
  • irreperibilità al censimento o accertata;
  • per i cittadini stranieri, appartenenti uno Stato non europeo, mancato rinnovo della dichiarazione di dimora abituale nel comune.

Se mi assento per studio o per lavoro decade la residenza?

L’assenza temporanea dal comune nel quale si risulta residenti, se ci si trova in un’altra città o all’estero per motivi di studio, di lavoro o per altre eventuali cause di durata limitata, non produce effetti sul riconoscimento della residenza.

In pratica, la residenza non decade se ti assenti, per periodi limitati, per motivi di studio, di lavoro, o per altri motivi di durata temporanea.

Come funziona la cancellazione della residenza per morte?

Un’ulteriore causa di cancellazione anagrafica dalla popolazione residente nel Comune è, ovviamente, la morte del cittadino. Ma che cosa devono fare i parenti del defunto? Devono richiedere la sua cancellazione all’anagrafe del comune di residenza?

In caso di morte (anche dichiarata giudizialmente), i familiari del defunto non devono comunicare niente all’ufficio anagrafe: è compito dell’ufficiale dello Stato Civile, difatti, comunicare il decesso all’ufficio anagrafe competente. Quanto osservato vale anche se la residenza risulta in un comune diverso dal luogo del decesso.

Come funziona la cancellazione della residenza per trasferimento in altro comune?

Nel caso in cui ci si trasferisca in un altro comune, si viene cancellati dall’anagrafe della popolazione residente del comune di provenienza. Il cittadino deve comunicare il trasferimento al nuovo comune d’iscrizione, che si occupa di comunicare il cambio di residenza all’ufficio anagrafe del precedente comune.

Il comune di provenienza conclude il procedimento di cancellazione entro 2 giorni lavorativi dal ricevimento della pratica dal nuovo comune di iscrizione.

Per quanto riguarda le persone senza fissa dimora, la cancellazione per trasferimento avviene in seguito allo spostamento del domicilio in un altro comune.

Come funziona la cancellazione della residenza per trasferimento all’estero?

Se un cittadino italiano si trasferisce all’estero per un periodo superiore ad un anno, può iscriversi all’Aire, cioè all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero.

Nel caso in cui a trasferirsi da un comune italiano all’estero sia un cittadino dell’Unione Europea (cioè comunitario) o appartenente a uno Stato terzo (cioè extracomunitario), il cittadino straniero deve dichiarare l’indirizzo di nuova residenza. Quanto osservato vale anche se lo straniero, comunitario o extracomunitario, deve rientrare nel suo Paese d’origine.

Anche in questi casi, il procedimento di cancellazione viene concluso entro 2 giorni lavorativi dal ricevimento della dichiarazione presentata dall’interessato.

Come funziona la cancellazione della residenza per irreperibilità al censimento?

La residenza decade anche nel caso in cui sia stata accertata l’irreperibilità del cittadino, a seguito delle operazioni del censimento generale della popolazione. Attenzione, però: se, per una sfortunata coincidenza, non si è presenti in casa al momento del censimento, non per questo si viene automaticamente cancellati dall’anagrafe.

L’ufficio dell’anagrafe, difatti, invita gli iscritti all’anagrafe del comune a presentarsi entro un determinato termine (di solito entro 30 giorni) nel competente ufficio comunale, per confermare la dimora abituale nel comune, con dichiarazione scritta. L’invito è spedito tramite raccomandata con avviso di ricevimento, il cui periodo di giacenza è pari a 30 giorni, e l’originale della comunicazione è depositato presso la casa comunale. Solo se non ci si presenta entro il termine la residenza decade per cancellazione dall’anagrafe.

Come funziona la cancellazione della residenza per irreperibilità accertata?

La cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente può avvenire anche quando, a seguito di ripetute verifiche, nell’arco di 365 giorni, l’interessato sia sempre risultato irreperibile.

Ma in quali casi il comune può verificare la reperibilità? Si fanno controlli a campione? Chi esce da casa la mattina presto e torna la sera tardi perché deve lavorare rischia di perdere la residenza?

Le verifiche sulla reperibilità non avvengono a campione, ma il procedimento può essere avviato d’ufficio, oppure su segnalazione del cittadino o di un esercente la funzione pubblica.

Il procedimento può essere avviato d’ufficio quando, ad esempio, il Comune non riesce ripetutamente a notificare un atto. L’irreperibilità può essere segnalata anche da chi svolge un servizio pubblico: pensiamo al caso del postino che non trova il nominativo dell’interessato nel citofono, o nella cassetta delle lettere; oppure al caso della società che fornisce elettricità, gas, o acqua, o della compagnia telefonica, quando verifica che le bollette tornano ripetutamente indietro e l’interessato non effettua consumi da mesi.

Il cittadino, poi, può segnalare l’irreperibilità in diverse ipotesi, ad esempio nel caso in cui l’inquilino abbia lasciato l’abitazione da mesi, ma non risulti aver cambiato la residenza.

In questi casi, la segnalazione può essere effettuata presentando al comune il modulo di mancata dimora, accompagnato dalla copia di un documento di identità, attraverso una delle seguenti modalità:

  • inviando una comunicazione all’indirizzo e-mail o all’indirizzo pec del comune;
  • via posta, all’indirizzo del comune;
  • recandosi direttamente presso l’ufficio anagrafe del comune.

La cancellazione per irreperibilità comporta la perdita del diritto di voto e l’impossibilità di ottenere certificazione anagrafica e i documenti di riconoscimento.

Il procedimento di cancellazione viene concluso solo dopo ripetute verifiche che abbiano dato esito negativo, in un periodo minimo di 365 giorni.

Come funziona la cancellazione della residenza per mancato rinnovo della dichiarazione di dimora abituale?

I cittadini stranieri iscritti all’anagrafe hanno l’obbligo di presentare al comune la dichiarazione di dimora abituale entro 60 giorni dal rinnovo del permesso di soggiorno.

La dichiarazione deve essere presentata, insieme alla copia del nuovo permesso, attraverso una delle seguenti modalità:

  • inviando una comunicazione all’indirizzo e-mail o all’indirizzo pec del comune;
  • via posta, all’indirizzo del comune;
  • recandosi direttamente presso l’ufficio anagrafe del comune.

Se passano 180 giorni dalla scadenza del permesso di soggiorno, senza che lo straniero abbia rinnovato la dichiarazione di dimora abituale, questi viene invitato dall’ufficio anagrafe ad esibire il permesso di soggiorno rinnovato, rendendo contemporaneamente la dichiarazione di dimora abituale.

La cancellazione avviene trascorsi 30 giorni dalla ricezione di questo invito da parte dell’interessato, senza che questi abbia presentato la documentazione richiesta.

Che cosa succede se si decade dalla residenza?

La cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente comporta:

  • la perdita del diritto di voto;
  • l’impossibilità di ottenere la carta d’identità, i certificati anagrafici ed altri documenti;
  • la cancellazione dall’assistenza sanitaria.

Si può ripristinare la residenza?

In caso di cancellazione, la posizione anagrafica può essere ripristinata con una nuova richiesta di iscrizione all’anagrafe dello stesso Comune.

Isee: quali documenti servono?

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Dichiarazione Isee Dsu 2019 per reddito di cittadinanza e altre agevolazioni: validità, scadenza, documenti da presentare al CAF.

Nella dichiarazione Isee, o Dsu, devono essere dichiarati, relativamente a ogni componente del nucleo familiare, redditi e patrimonio. In pratica, per ogni membro della famiglia bisogna dichiarare redditi percepiti, immobili posseduti (case, terreni), patrimonio mobiliare (conti, carte, anche prepagate, libretti, partecipazioni…), auto e altri veicoli, affitto dell’abitazione principale.

Questa dichiarazione è obbligatoria anche se si è presentata la dichiarazione dei redditi (modello Redditi o 730), se si richiedono determinate prestazioni, come il reddito di cittadinanza, o agevolazioni (ad esempio in merito alle tasse universitarie, alla mensa scolastica, alla possibilità di dilazionare le cartelle o chiedere il saldo e stralcio…).

Dalla dichiarazione Dsu (dichiarazione sostitutiva unica) si ricava l’indicatore Isee, ossia l’indicatore della situazione economica della famiglia, ma si possono ricavare ulteriori indicatori, utili a seconda della prestazione richiesta, come l’Isp (indicatore della situazione patrimoniale) e l’Isr (indicatore della situazione reddituale).

La dichiarazione Isee può essere presentata tramite CAF o direttamente dal sito dell’Inps, per chi possiede le credenziali di accesso (Pin, Spid, Carta nazionale dei servizi). Ma per ottenere l’Isee quali documenti servono?

Quando scade l’Isee 2019?

In primo luogo, è bene ricordare che le dichiarazioni presentate a partire dal 1° Gennaio 2019 al 31 Dicembre 2019 hanno come data di scadenza il 31 Dicembre 2019, redditi riferiti all’anno 2017 e patrimoni immobiliari e mobiliari posseduti al 31 Dicembre 2018. Queste modifiche sono intervenute grazie alle previsioni del decreto in materia di reddito di cittadinanza e pensioni, in quanto la scadenza originariamente prevista era il 31 dicembre 2019.

Come si compila la dichiarazione Isee?

Vuoi sapere come compilare e presentare in completa autonomia la dichiarazione Dsu dal sito dell’Inps? Leggi la nostra Guida alla dichiarazione Isee. Troverai le indicazioni per compilare tutti i moduli, chi è nel nucleo familiare, chi sono i disabili ai fini Isee.

Documenti Isee dati anagrafici

In merito ai dati anagrafici, ecco quali documenti presentare e quali dati fornire al CAF:

  • codice fiscale di tutti i componenti il nucleo familiare (tesserino sanitario); rientra nel nucleo familiare anche il coniuge iscritto nell’anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero (Aire);
  • documento d’identità in corso di validità (solo del dichiarante e dell’eventuale tutore/rappresentante legale).

Documenti Isee patrimonio mobiliare

Nella Dsu deve essere dichiarato il patrimonio mobiliare di tutti i componenti del nucleo detenuto fino al 31 dicembre dell’anno prima. Nell’Isee 2019 va dunque dichiarato il patrimonio mobiliare detenuto sino al 31 dicembre 2018.

Ecco quali documenti presentare e quali dati fornire al CAF:

  • conti correnti bancari e postali, depositi, libretti, carte prepagate con iban: saldo al 31 dicembre 2018 e giacenza media 2018
  • buoni fruttiferi (va considerato il valore nominale), contratti di assicurazione, carte prepagate senza iban;
  • titoli di stato, obbligazioni, azioni, Bot, Cct, fondi d’investimento;
  • per le partecipazioni azionarie in società non quotate o in società non azionarie: il valore del patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio presentato;
  • per le partecipazioni azionarie in società quotate: il valore rilevato alla data del 31 dicembre 2018;
  • per le imprese individuali in contabilità ordinaria il valore del patrimonio netto, ovvero per le imprese individuali in contabilità semplificata la somma delle rimanenze finali e dei beni ammortizzabili al netto degli ammortamenti.

Documenti Isee patrimonio immobiliare

Nella Dsu deve essere dichiarato il patrimonio immobiliare (case, terreni, box…) di tutti i componenti del nucleo detenuto fino al 31 dicembre dell’anno prima. Nell’Isee 2019 va dunque dichiarato il patrimonio immobiliare Documenti Isee detenuto sino al 31 dicembre 2018.

Ecco quali documenti presentare e quali dati fornire al CAF:

  • visure catastali o altra documentazione (compravendita, dichiarazione di successione);
  • documentazione attestante la quota capitale del mutuo residuo;
  • documentazione attestante il valore delle aree edificabili;
  • per immobili detenuti all’estero: documentazione attestante valore ai fini Ivie.

Documenti Isee casa in affitto

Se l’abitazione del nucleo familiare è in locazione bisogna presentare:

  • contratto di locazione con tutti i relativi dati di registrazione (es. ricevuta telematica dell’Agenzia delle entrate)
  • ultima ricevuta/fattura relativa al canone di locazione

Documenti Isee disabili

Se si presenta l’Isee disabili, è necessario fornire al CAF la documentazione certificante la disabilità.

Ad esempio, in merito alla certificazione dell’handicap, bisogna fornire la denominazione dell’ente che ha rilasciato la certificazione, il numero del documento e la data del rilascio.

Nel caso in cui siano richieste prestazioni sociosanitarie residenziali, se i figli non fanno parte del nucleo familiare del richiedente, occorre il numero di protocollo della loro dichiarazione Isee (se già è stata presentata); in caso contrario, vanno presentati gli stessi documenti richiesti per i componenti del nucleo familiare del dichiarante.

Se c’è stata una donazione immobiliare, occorre presentare l’atto notarile di donazione di immobili.

Documenti Isee veicoli e imbarcazioni

Nella dichiarazione Isee è anche necessario indicare tutti i veicoli e le imbarcazioni intestati ai componenti del nucleo familiare. Bisogna indicare, in particolare, i veicoli e le imbarcazioni di proprietà alla data di presentazione della Dsu.

Ecco quali documenti presentare e quali dati fornire al CAF:

  • targa o estremi di registrazione al P.R.A. o al R.I.D. di autoveicoli e motoveicoli di cilindrata pari o superiore a 500 cc, di navi e imbarcazioni da diporto.

Documenti Isee minori o diritto allo studio universitario (Isee università)

Se devono essere richieste prestazioni a favore di minori o di studenti universitari, per i genitori coniugati, anche se hanno diversa residenza, non occorrono ulteriori documenti in quanto fanno parte dello stesso nucleo familiare ai fini Isee.

Se i genitori sono non coniugati e non conviventi, occorre il numero di protocollo dell’Isee del genitore non convivente, se già è stato presentato, altrimenti vanno presentati gli stessi documenti richiesti per i componenti del nucleo familiare dello studente.

Documenti Isee redditi

La maggior parte dei redditi prodotti è estrapolata direttamente dall’Inps, dalle proprie banche dati e dalle banche dati delle Entrate. È opportuno comunque portare i seguenti documenti e fornire le seguenti informazioni al CAF:

  • modello 730 o modello Redditi dell’anno precedente (completo della documentazione utilizzata per la compilazione), se presentato;
  • tutti i modelli CU (certificazione unica, ex Cud) per i redditi percepiti a titolo di lavoro dipendente, assimilato e pensione nell’anno precedente;
  • tutte le certificazioni attestanti le diverse tipologie di redditi percepiti nell’anno precedente (lavoro occasionale, diritti d’autore, vendite a domicilio, attività sportive dilettantistiche etc.);
  • dichiarazione Irap dell’anno imposta precedente per proventi agrari;
  • certificazione relativa ai redditi prodotti nell’anno precedente in uno stato estero;
  • certificazione per l’anno precedente relativa ai redditi e ad eventuali trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari esenti da Irpef e non erogati dall’Inps (borse di studio o per attività di ricerca, contributo affitto, reversibilità rendite Inail, etc.), ad esclusione di quelli percepiti per la condizione di disabilità; i trattamenti erogati dall’Inps sono rilevati direttamente dall’ente;
  • assegni per il mantenimento di coniuge o figli percepiti o corrisposti nell’anno precedente.

Documenti Isee corrente

L’utilizzo dei dati dell’anno precedente per la dichiarazione Isee spesso non rispecchia la reale situazione del nucleo familiare: questo può accadere, ad esempio, se uno dei componenti perde il lavoro. Per rimediare a questa iniquità, allora, è stato istituito un particolare modello Isee, detto Isee corrente: il calcolo dell’indicatore Isee corrente si basa su dati più recenti e, anche se ha una validità temporanea, consente di attribuire alla famiglia un indice di ricchezza che rispecchia maggiormente la situazione reale.

L’Isee corrente, nello specifico, può essere presentato in caso di variazione lavorativa di uno o più componenti del nucleo (sospensione, riduzione, licenziamento etc.), che comporti una modifica superiore al 25% della situazione reddituale individuata nell’Isee ordinario (per approfondire: Isee corrente, quando si presenta?).

Ecco quali documenti presentare e quali dati fornire al CAF per presentare l’Isee corrente:

  • documenti relativi all’attività lavorativa svolta ed ai redditi percepiti negli ultimi 12 mesi (buste paga, disoccupazione, redditi da impresa o di lavoro autonomo);
  • documenti relativi agli ultimi 2 mesi (esclusivamente per lavoratori dipendenti a tempo indeterminato).

Ricordiamo che l’Isee corrente ha validità di 2 mesi dalla data di presentazione.

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