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Pensione quota 100: si può lavorare?

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Torna il divieto di cumulo tra lavoro e pensione per chi esce con la quota 100: che cosa potrebbe cambiare nel nuovo pensionamento anticipato.

La nuova pensione quota 100, operativa a breve grazie al decreto pensioni [1], prevede diverse condizioni da soddisfare per ottenere il trattamento: in particolare, oltre ai limiti di età e contribuzione, la quota 100 comporta anche il parziale divieto di lavorare. In pratica, si ripristina il divieto di cumulo tra lavoro e pensione, divieto abolito, per la maggior parte delle pensioni dirette, dal 2008. Il divieto di cumulo non sarà assoluto, come avviene oggi per la pensione anticipata dei lavoratori precoci, ma relativo, come avviene per l’assegno ordinario d’invalidità e per alcune pensioni d’inabilità.

Il divieto dovrebbe durare, comunque, sino al compimento dell’età pensionabile, cioè dell’età per la pensione di vecchiaia. Inoltre, sarà possibile percepire un reddito di lavoro autonomo occasionale.

Ma procediamo per ordine e cerchiamo di fare il punto sulla pensione quota 100: si può lavorare, quali sono i limiti per chi vuole pensionarsi, chi può uscire con le nuove regole.

Come si calcola la quota 100

La quota è il risultato della somma dell’età pensionabile dell’interessato e degli anni di contributi posseduti: non si tratta di una novità assoluta, in quanto, prima che entrasse in vigore la legge Fornero, era possibile ottenere la pensione di anzianità (ora abolita e sostituita dalla pensione anticipata) con le quote.

Ad oggi sopravvivono alcune tipologie residuali di pensione di anzianità con le quote: si tratta delle pensioni degli addetti ai lavori usuranti, delle pensioni dei beneficiari delle salvaguardie e del cosiddetto salvacondotto.

Quando l’età o le annualità di contribuzione non corrispondono a una cifra esatta, per calcolare la quota i mesi devono essere trasformati in decimi:

  • ad esempio, se il lavoratore ha raggiunto 63 anni e 6 mesi di età, ai fini del calcolo della quota dovrà indicare 63,5;
  • potrà ottenere la pensione quota 100 se possiede almeno 36 anni e 6 mesi di contributi (perché 100-63,5= 36,5, ossia 36 anni e 6 mesi).

Tuttavia, in base a quanto descritto nella nota di aggiornamento al Def e nel cosiddetto “pacchetto previdenza”, per pensionarsi con la quota 100 è stabilita un’età minima e un requisito contributivo minimo.

Età e anni di contributi minimi per la quota 100

La pensione anticipata quota 100 potrà essere ottenuta con un’età minima di 62 anni ed una contribuzione minima pari a 38 anni. In buona sostanza, anche se si raggiunge la quota 100, non ci si potrà pensionare se l’età non sarà almeno pari a 62 anni ed i contributi non risulteranno almeno pari a 38 anni. Per chi ha 63 anni, dunque, la quota diventa 101, in quanto resta fermo il requisito contributivo dei 38 anni, per chi ne ha 64 102, per chi ne ha 65 103, e così via…

Altre proposte invece fissavano l’età minima a 64 anni ed la contribuzione minima a 36 anni, ma sono state scartate.

Quota 100 tre anni prima per gli esuberi

La quota 100 potrà essere riconosciuta con 3 anni di anticipo ai lavoratori di aziende che aderiscono ai fondi di solidarietà bilaterali, per favorire percorsi di ricambio generazionale. Non si tratterà, dunque, di una quota 100, ma di una quota 94, considerando che sarà possibile uscire dal lavoro con un minimo di 59 anni di età e 35 di contributi

L’assegno di pensionamento anticipato può essere riconosciuto solo in presenza di accordi collettivi di livello aziendale o territoriale, sottoscritti con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, nei quali è stabilito, a garanzia dei livelli occupazionali, il numero di lavoratori da assumere in sostituzione dei lavoratori uscenti.

In pratica, non ci può essere nessun prepensionamento senza ricambio generazionale.

La pensione quota 100 è soggetta agli adeguamenti alla speranza di vita?

La pensione anticipata quota 100 non sarà soggetta agli adeguamenti alla speranza di vita.

Potrà però essere richiesta solo da chi matura i requisiti entro il 31 dicembre 2021. Inoltre, è soggetta alla decorrenza differita con le finestre di attesa.

La pensione quota 100 conviene più dell’attuale pensione anticipata?

La pensione quota 100, nella generalità dei casi, dal punto di vista dei requisiti richiesti appare più conveniente della pensione anticipata, per la quale attualmente sono richiesti 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.

Dipende, tuttavia, dall’età dell’interessato e dalla carriera personale: per i lavoratori precoci con una carriera continuativa, considerando lo sbarramento dei 62 anni di età, potrebbe risultare più conveniente la pensione anticipata ordinaria.

Con la pensione quota 100 ci sono penalizzazioni?

Per arginare il grande numero di lavoratori che potrebbero pensionarsi con la quota 100 e rendere sostenibile questa nuova possibilità, era stato ipotizzato sia il ricalcolo contributivo delle annualità di pensione dal 1996 in poi (in pratica, il calcolo misto anche per chi avrebbe diritto al calcolo retributivo sino al 31 dicembre 2011), sia il ricalcolo contributivo integrale. Erano state ipotizzate anche penalizzazioni percentuali, per ogni anno mancante all’età pensionabile.

In base a quanto reso noto dal sottosegretario al Lavoro Durigon, e riportato nella nota di aggiornamento al Def, la quota 100 sarà calcolata come qualsiasi altro trattamento pensionistico, senza penalizzazioni e senza il ricalcolo misto  o il ricalcolo integralmente contributivo.

Il calcolo della pensione sarà dunque:

  • retributivo sino al 31 dicembre 2011, poi contributivo, per chi possiede oltre 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995;
  • retributivo sino al 31 dicembre 1995, poi contributivo, per chi possiede meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995;
  • integralmente contributivo per chi non possiede contributi al 31 dicembre 1995.

Per saperne di più: Quota 100 senza penalità

Per capire meglio le differenze di calcolo della pensione: Come si calcola la pensione.

Come funziona il divieto di cumulo tra lavoro e pensione quota 100?

Come abbiamo osservato, in base alle disposizioni del pacchetto previdenza, per chi richiede la pensione quota 100 è previsto il parziale divieto di lavorare. Non si tratta, però, di un divieto di cumulo assoluto tra lavoro e pensione, ma un divieto di cumulo relativo.

Nel dettaglio, il divieto di cumulo tra lavoro e pensione quota 100 sarà operativo solo sino al compimento dell’età pensionabile, dal 2019 pari a 67 anni, e risulterà parziale.

Nello specifico, non si potranno percepire redditi di lavoro autonomo e dipendente, ma solo redditi di lavoro autonomo occasionale.sino a 5mila euro annui.


Ape sociale

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Che cos’è l’anticipo pensionistico a carico dello Stato, chi può richiederlo, quali sono i requisiti, a quanto ammonta il trattamento.

Alcune categorie tutelate di lavoratori hanno diritto di anticipare la pensione di vecchiaia sino a un massimo di 3 anni e 7 mesi, se possiedono specifici requisiti, grazie ad un assegno di accompagnamento alla quiescenza a carico dello Stato, detto Ape sociale, o Ape social. Questo anticipo pensionistico può essere richiesto, grazie alle previsioni del nuovo decreto pensioni, sino al 31 dicembre 2019.

L’Ape sociale è calcolato allo stesso modo della futura pensione, ma può ammontare a un massimo di 1500 euro mensili; consente il contemporaneo svolgimento di attività lavorativa sino a determinati limiti di reddito, in quanto si tratta di un sussidio. Il riconoscimento dell’assegno cessa, comunque, al compimento dell’età pensionabile, con la maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia.

Ma procediamo per ordine e facciamo il punto della situazione sull’Ape sociale: come funziona, chi ne ha diritto, quali sono i requisiti, come si calcola, che cosa cambia nel 2019 con la riforma pensioni.

Come funziona l’Ape sociale e chi ne ha diritto

L’Ape sociale è un assegno mensile, a carico dello Stato, che può essere richiesto a partire dai 63 anni di età e che sostiene il lavoratore fino al perfezionamento del requisito d’età per la pensione di vecchiaia (sino al 2018 pari a 66 anni e 7 mesi per tutti, dal 2019 pari a 67 anni). L’assegno è calcolato allo stesso modo della futura pensione, ma non può superare 1.500 euro mensili.

Possono accedere all’Ape sociale, nello specifico, i lavoratori che, al momento della domanda, abbiano già compiuto 63 anni di età e che siano, o siano stati, iscritti all’assicurazione generale obbligatoria ( che comprende gli iscritti al fondo pensione lavoratori dipendenti e alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi), alle forme sostitutive ed esclusive della stessa, o alla gestione Separata Inps, purché cessino l’attività lavorativa e non siano già titolari di pensione diretta.

I beneficiari dell’Ape sociale devono possedere almeno 30 anni di contributi (contando tutti i periodi non coincidenti maturati presso le gestioni Inps; le donne con figli hanno diritto a uno sconto sul requisito contributivo pari a un anno per ogni figlio, sino a un massimo di due anni) se appartengono a una delle seguenti

categorie:

  • lavoratori che risultano disoccupati a seguito di licenziamento, anche collettivo, o di dimissioni per giusta causa, o per effetto di risoluzione consensuale nell’ambito della procedura di conciliazione obbligatoria; perché gli appartenenti a questa categoria possano beneficiare dell’Ape sociale, è necessario che abbiano terminato da almeno tre mesi di percepire la prestazione di disoccupazione e che non si siano rioccupati (il trattamento non spetta, dunque, a chi non ha percepito la Naspi o un sussidio analogo); dal 2018, possono accedere all’Ape sociale anche i lavoratori disoccupati:
    • il cui rapporto di lavoro è cessato a seguito di un contratto a termine, se hanno alle spalle almeno 18 mesi di contratti negli ultimi 3 anni (questo requisito potrebbe essere alleggerito);
    •  che sono stati rioccupati con un contratto di lavoro subordinato, con i voucher o col contratto di prestazione occasionale o il libretto famiglia per non più di 6 mesi complessivamente;
  • lavoratori che assistono, al momento della richiesta e da almeno 6 mesi, il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap grave, ai sensi della Legge 104; a partire dal 2018, sono inclusi tra gli assistiti che danno luogo al beneficio dell’Ape sociale anche i familiari, parenti o affini, entro il secondo grado; in questo caso, però, è necessario che il coniuge, o l’unito civilmente, e i parenti di primo grado (cioè figli o genitori) conviventi con la persona affetta da handicap in situazione di gravità si trovino in una delle seguenti situazioni:
    • abbiano compiuto i 70 anni di età;
    • risultino anch’essi affetti da patologie invalidanti (occorre fare riferimento alle patologie a carattere permanente che attualmente consentono al lavoratore dipendente di fruire del congedo per gravi motivi familiari; è necessario che la patologia sia documentata e che la documentazione sia inviata alla competente unità operativa, complessa o semplice);
    • siano deceduti o mancanti (si considera l’assenza naturale o giuridica, ad esempio il divorzio).
  • lavoratori che possiedono un’invalidità uguale o superiore al 74%.

Sono invece necessari 36 anni di contributi (contando tutti i periodi non coincidenti maturati presso le gestioni Inps; anche in questo caso, le donne con figli hanno diritto a uno sconto sul requisito contributivo pari a un anno per ogni figlio, sino a un massimo di due anni) per un’ulteriore categoria beneficiaria dell’Ape sociale, gli addetti ai lavori gravosi: si tratta di coloro che hanno prestato per almeno 6 anni negli ultimi 7 anni, o per 7 anni nell’ultimo decennio, un’attività lavorativa particolarmente rischiosa o pesante, che deve far parte dell’elenco di professioni di seguito indicato:

  • operai dell’industria estrattiva, dell’edilizia e della manutenzione degli edifici;
  • conduttori di gru, di macchinari mobili per la perforazione nelle costruzioni; • conciatori di pelli e di pellicce;
  • conduttori di convogli ferroviari e personale viaggiante;
  • conduttori di mezzi pesanti e camion;
  • professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche ospedaliere con lavoro organizzato in turni;
  • addetti all’assistenza personale di persone in condizioni di non autosufficienza;
  • professori di scuola pre-primaria;
  • facchini, addetti allo spostamento merci ed assimilati;
  • personale non qualificato addetto ai servizi di pulizia;
  • operatori ecologici e altri raccoglitori e separatori di rifiuti;
  • pescatori;
  • lavoratori marittimi;
  • operai agricoli;
  • operai degli impianti siderurgici.

Questi lavoratori possono inoltre avere accesso, così come tutte le categorie di destinatari dell’Ape sociale, alla pensione anticipata precoci con 41 anni di contributi, se possiedono almeno 12 mesi di contributi da effettivo lavoro accreditati prima del compimento del 19° anno di età.

Inoltre gli appartenenti a queste categorie, se non già beneficiari dell’Ape sociale, e se possiedono almeno 30 anni di contributi, hanno diritto al blocco del requisito di età per la pensione di vecchiaia.

Ape sociale per chi ha contributi esteri

Recentemente, l’Inps ha chiarito che, nel requisito contributivo utile all’Ape sociale, pari come abbiamo visto a 30 o 36 anni, possono essere inclusi i contributi per il lavoro all’estero in Paesi europei o convenzionati con l’Italia, purché il lavoratore ne chieda la totalizzazione.

Viene a cadere, dunque, la precedente indicazione dell’Inps, che escludeva proprio i contributi esteri dal totale della contribuzione utile al diritto all’Ape sociale.

Ape sociale donne 

L’Ape donne, o Ape rosa, è una novità introdotta dalla legge di Bilancio 2018 che consiste nella possibilità di accedere all’Ape sociale, per le donne con figli, con uno sconto di 1 anno di contributi per ogni figlio, sino a un massimo di 2 anni.

L’ape sociale, per chi ha da 2 figli in su, è dunque accessibile:

  • con 28 anni di contributi per le appartenenti alle prime tre categorie di lavoratrici tutelate (disoccupate, caregiver e invalide);
  • con 34 anni di contributi per le addette ai lavori faticosi e rischiosi

Come si calcola l’Ape sociale?

L’Ape sociale è calcolata allo stesso modo della futura pensione, ossia col sistema retributivo (sino al 2011), misto o contributivo. L’importo massimo dell’assegno mensile non può, però, eccedere i 1500 euro. Per approfondire: Come si calcola la pensione.

Ape sociale 2019

Il decreto pensioni ha previsto l’estensione dell’Ape sociale a coloro che maturano i requisiti richiesti per la misura entro il 31 dicembre 2019.

Devono ancora essere rese note le date entro cui sarà possibile inviare le domande.

Pensione anticipata, quota 100 e opzione donna: si perde la Naspi?

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Chi matura i requisiti per i nuovi pensionamenti anticipati con le finestre decade dall’indennità di disoccupazione?
Nella generalità dei casi, chi percepisce l’indennità di disoccupazione, che dal 2015 si chiama Naspi, decade dalla stessa una volta che perfeziona il diritto alla pensione.
Ad esempio, se l’interessato, mentre percepisce la Naspi, perfeziona i requisiti per la pensione di vecchiaia, pari, dal 2019, a 67 anni di età e 20 anni di contributi, decade dall’indennità di disoccupazione.
La decadenza immediata dall’indennità di disoccupazione avveniva, sino al 31 dicembre 2018, anche in caso di perfezionamento dei requisiti per la pensione anticipata, pari a 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini ed a 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne.
Dal 2019, però, per chi percepisce la pensione anticipata si pone un nuovo problema, dovuto al fatto che il decreto-legge in materia di pensioni e reddito di cittadinanza ha reintrodotto le finestre per questa tipologia di trattamento.
Che cosa sono le finestre? Si tratta di un periodo di attesa che va dalla data di perfezionamento dei requisiti per la pensione alla data di liquidazione del trattamento.
Il decreto ha previsto l’applicazione delle finestre, tra l’altro, anche alla pensione anticipata dei lavoratori precoci, alla pensione con opzione donna ed alla nuova pensione quota 100. In questi casi, che cosa succede se si perfezionano i requisiti per la pensione mentre si percepisce la Naspi? Si decade dall’indennità di disoccupazione anche se la data di decorrenza della pensione è ancora lontana, a causa delle finestre?
In altre parole, una volta maturato il diritto a pensione anticipata, quota 100 e opzione donna si perde la Naspi?
La questione è tutt’altro che irrilevante: se l’interessato, una volta maturati requisiti per la pensione, perde il diritto all’indennità di disoccupazione, può difatti trovarsi per mesi, cioè per tutta la durata della finestra, senza alcun reddito.

Finestre: quanti sono i mesi di attesa?

Le finestre di attesa non sono uguali per tutte le pensioni, ma cambiano a seconda della tipologia di trattamento e della categoria alla quale appartiene il lavoratore.
Per quanto riguarda l’opzione donna, ad esempio, le lavoratrici dipendenti conseguono la pensione dopo 12 mesi dal perfezionamento dell’ultimo requisito, mentre le lavoratrici autonome dopo 18 mesi.
Addirittura, per quanto riguarda la pensione anticipata quota 100 sono previste cinque diverse finestre:
  • per i lavoratori del settore privato che maturano i requisiti per la pensione entro il 31 dicembre 2018, la finestra si apre il 1° aprile 2019;
  • per i lavoratori del settore privato che maturano i requisiti per la pensione successivamente, si applica invece una finestra pari a tre mesi, che parte dalla data di maturazione dell’ultimo requisito;
  • per i dipendenti pubblici che maturano i requisiti per la quota 100 sino alla data in vigore del decreto-legge sulle pensioni, si apre una finestra il 1° agosto 2019;
  • per i dipendenti pubblici che maturano i requisiti successivamente, invece, si apre una finestra mobile dopo sei mesi;
  • per i lavoratori del comparto scuola, continua ad applicarsi, come avviene per la generalità delle pensioni, la finestra unica annuale.
Per quanto riguarda la pensione anticipata ordinaria si applica una finestra mobile trimestrale, ma coloro che hanno maturato i requisiti dal 1° gennaio 2019 alla data di entrata in vigore del decreto pensioni conseguono il diritto al trattamento pensionistico dal 1 °aprile 2019.
Per quanto riguarda la pensione anticipata dei lavoratori precoci, si applica, ugualmente, una finestra mobile trimestrale.

Maturazione dei requisiti per la pensione: che cosa succede alla Naspi?

Una volta perfezionati i requisiti per la pensione, nella generalità dei casi si decade dalla Naspi: la decadenza immediata è prevista in quanto la legge Fornero, abolendo le finestre per quasi tutti i trattamenti pensionistici, ha stabilito la decorrenza immediata della pensione, ossia dal primo giorno del mese successivo al perfezionamento delle condizioni per il diritto alla prestazione.
Ma che cosa fare nei casi in cui si applicano le finestre? Sul punto è intervenuta una nota circolare dell’Inps del 2015 [1], che fa riferimento, in particolare, all’ipotesi dell’opzione donna.

Opzione donna e Naspi

L’Inps, in merito alla decadenza dalla Naspi per conseguimento del diritto alla quiescenza, considera il fatto che, una volta maturati i requisiti per la pensione con finestre, non si ha diritto a percepire immediatamente l’assegno pensionistico, ma si deve attendere un certo lasso di tempo.
Per questo, a parere dell’istituto, la decadenza dalla Naspi può avvenire soltanto alla decorrenza della pensione, quindi una volta trascorsa la finestra.
In buona sostanza, chi matura i requisiti per l’opzione donna continua a percepire la Naspi sino al momento della decorrenza della pensione.

Pensione anticipata e Naspi

Sino al 31 dicembre 2018, non sussistevano problemi in merito alla decadenza della Naspi, una volta perfezionati i requisiti per la pensione anticipata ordinaria: la decorrenza del trattamento era difatti immediata, precisamente il primo giorno del mese successivo alla maturazione dell’ultimo requisito utile.
Con il nuovo decreto-legge in materia di pensioni, però, a causa della previsione delle finestre trimestrali per la pensione anticipata, si crea un grosso problema per chi ha diritto all’indennità di disoccupazione. Come ci si deve comportare? Si deve “prendere per buono” quanto chiarito dall’Inps in merito all’opzione donna, cioè si deve attendere la decorrenza del trattamento per la decadenza dalla Naspi, oppure la decadenza è immediata?
Anche se sembrerebbe corretto, da un punto di vista logico, seguire le precedenti indicazioni dell’istituto, sarebbe opportuno un nuovo chiarimento in merito da parte dell’Inps.

Naspi e quota 100

Lo stesso problema si pone in merito alla decadenza dalla Naspi per chi perfeziona i requisiti per la quota 100: anche in questo caso, dovendosi applicare le finestre di attesa, la decorrenza della pensione risulta spostata in avanti rispetto alla data di perfezionamento dei requisiti.
Pertanto, è auspicabile che l’Inps chiarisca in quale data avviene la decadenza dalla Naspi, se al momento del perfezionamento dei requisiti per quota 100 oppure al momento della decorrenza della pensione, come avviene oggi per opzione donna.

Pensioni: come cambiano col decreto quota 100

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Pensione quota 100, proroga opzione donna e Ape social, blocco requisiti pensione anticipata ordinaria e precoci, prepensionamento a 59 anni: novità previdenza.
Con la pubblicazione del decreto-legge in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni [1], cambia notevolmente il panorama delle possibilità per chi vuole uscire dal lavoro. Alla pensione anticipata ordinaria e per i lavoratori precoci, alle quali non si applicheranno, peraltro, gli adeguamenti alla speranza di vita fino al 2026, si aggiunge una nuova possibilità di pensionarsi prima: si tratta della cosiddetta quota 100, che può essere ottenuta, sino al 2021, con un minimo di 62 anni di età e di 38 anni di contributi.
Sono poi state accolte le istanze delle lavoratrici che vogliono anticipare la quiescenza, con la proroga dell’opzione donna: questo regime sperimentale di pensionamento offre la possibilità di percepire il trattamento con 58 anni di età e 35 di contributi, 59 anni di età e 35 di contributi per le lavoratrici autonome. In cambio, però, l’assegno di pensione è ricalcolato con il sistema contributivo. Prorogato anche l’Ape sociale, cioè l’anticipo pensionistico a carico dello Stato, che può essere richiesto a partire dal 63 anni di età.
Ai lavoratori ai quali non mancano più di 3 anni alla quota 100, poi, è data la possibilità di beneficiare di un prepensionamento, sostenuto dall’azienda e dai fondi di solidarietà bilaterali.
La nuova normativa ha inoltre reintrodotto le finestre, dei periodi di attesa che partono dalla maturazione dell’ultimo requisito utile alla pensione sino alla liquidazione del trattamento.
Ma procediamo per ordine, e facciamo il punto sulle pensioni: come cambiano col decreto quota 100.

Pensione quota 100

Il primo intervento del decreto pensioni è la cosiddetta quota 100: si tratta della possibilità di pensionarsi con 62 anni di età e 38 di contributi, senza penalizzazioni o ricalcoli del trattamento.
Il requisito di 38 anni di contributi può essere raggiunto anche utilizzando contribuzione figurativa ed il cumulo di versamenti accreditati presso gestioni previdenziali differenti, ad esclusione delle casse dei liberi professionisti.
Chi si pensiona con quota 100, però, non può lavorare fino al compimento dell’età per la pensione di vecchiaia, attualmente pari a 67 anni. È soltanto possibile percepire compensi per lavoro autonomo occasionale, in misura inferiore a 5000 euro l’anno.
Chi si pensiona con quota 100 deve attendere un lasso di tempo tra la maturazione dell’ultimo requisito utile alla quiescenza e la liquidazione della prestazione: si tratta delle cosiddette finestre. Le finestre previste con la pensione quota 100 sono differenti a seconda della categoria a cui appartiene il lavoratore:
  • ai dipendenti del settore privato si applica una finestra mobile, a partire dalla data di maturazione dell’ultimo requisito utile, pari a 3 mesi; per chi ha maturato i requisiti per la quota 100 entro il 31 dicembre 2018, però, si apre una finestra fissa dal 1° aprile 2019;
  • per i dipendenti del settore pubblico, le finestre mobili sono pari a sei mesi; per chi ha maturato i requisiti per la quota 100 entro il 29 gennaio 2019, però, si apre una finestra fissa dal 1° agosto 2019;
  • ai dipendenti del comparto scuola continua ad applicarsi la finestra unica annuale.
I requisiti per la pensione quota 100, ad ogni modo, possono essere maturati solo fino al 31 dicembre 2021.

Proroga opzione donna

Il decreto quota 100 ha prorogato l’opzione donna, cioè la possibilità, per le lavoratrici, di pensionarsi con requisiti ridotti in cambio del ricalcolo contributivo del trattamento.
I nuovi requisiti previsti dal dl quota 100, nel dettaglio, sono:
  • 58 anni di età e 35 anni di contributi al 31 dicembre 2018 per le dipendenti;
  • 59 anni di età 35 anni di contributi al 31 dicembre 2018 per le lavoratrici autonome;
  • ai requisiti si applica una finestra pari a 12 mesi per le dipendenti ed a 18 mesi per le autonome.

Pensione anticipata ordinaria

Il dl quota 100 ha bloccato i requisiti per la pensione anticipata ordinaria fino al 31 dicembre 2026. Sino a tale data, dunque, è possibile pensionarsi con:
  • 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne;
  • 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini.
Il decreto, però, ha previsto anche l’applicazione di finestre mobili pari a tre mesi.

Pensione anticipata dei lavoratori precoci

Il decreto ha bloccato anche il requisito contributivo richiesto per la pensione anticipata dei lavoratori precoci, o quota 41: questo trattamento, nel dettaglio, può essere ottenuto sino al 31 dicembre 2026 consoli 41 anni di contributi.
Per ottenere questo trattamento, però, bisogna essere lavoratori precoci, ossia con 12 mesi di contributi da effettivo lavoro accreditati prima del compimento del 19º anno di età. Inoltre, non basta essere lavoratori precoci, ma si deve appartenere anche a determinate categorie tutelate: disoccupati di lungo corso, invalidi dal 74%, caregiver e addetti ai lavori gravosi e usuranti.

Proroga Ape sociale

Il decreto pensioni ha prorogato l’Ape sociale, cioè l’anticipo pensionistico a carico dello Stato. Si tratta di un assegno, calcolato allo stesso modo della futura pensione ma non superiore a 1500 euro mensili, che si può richiedere dai 63 anni di età.
Per raggiungere l’Ape sociale si devono possedere almeno 30 anni di contributi se si appartiene alle seguenti categorie: disoccupati di lungo corso, anche a seguito di lavoro a termine; invalidi dal 74%; caregiver; bisogna invece possedere 36 anni di contributi se si appartiene alla categoria degli addetti ai lavori gravosi. Le donne hanno diritto a uno sconto contributivo pari a un anno per ogni figlio, sino a un massimo di due. Per approfondire: Ape sociale 2019.

Prepensionamento a 59 anni

Per i lavoratori in esubero delle aziende che aderiscono ai fondi di solidarietà bilaterali è prevista la possibilità di pensionamento con un minimo di 59 anni di età e di 35 anni di contributi. Per la precisione, possono essere prepensionati i lavoratori ai quali non mancano più di tre anni per raggiungere la quota 100. Il costo del pensionamento, però, è a carico dei fondi bilaterali e delle aziende. Inoltre, perché i lavoratori possono essere prepensionati devono essere sostituiti da nuovi dipendenti: la misura, infatti, è volta a favorire il ricambio generazionale.

Come aumenta l’età pensionabile

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Aumento dell’età pensionabile nel 2019 e negli anni a venire: pensione di vecchiaia ordinaria e contributiva, Ape, pensione anticipata contributiva e precoci.

Con il termine età pensionabile si intende, comunemente, l’età prevista per ottenere la pensione di vecchiaia. L’età pensionabile, però, non è una soltanto: esiste, difatti, anche l’età minima per la pensione anticipata contributiva, quella prevista per l’anticipo pensionistico, o Ape, l’età per la pensione di anzianità degli addetti ai lavori usuranti e notturni o delle lavoratrici che si avvalgono del pensionamento con opzione donna.

Senza contare che non esiste nemmeno un’unica età minima per la pensione di vecchiaia: un conto, difatti, è il requisito anagrafico previsto per la pensione di vecchiaia ordinaria, un conto quello previsto per la pensione di vecchiaia contributiva, e un altro ancora quello previsto per la pensione di vecchiaia anticipata per invalidità. Per non parlare dei differenti requisiti di età previsti da particolari gestioni previdenziali, come quelle dei liberi professionisti o dei lavoratori dello sport e dello spettacolo (Enpals).

Insomma, non esiste una sola età pensionabile, ma i requisiti cambiano sia in base alla gestione previdenziale di appartenenza, sia in base alla categoria di appartenenza, che a seconda del tipo di pensione di cui si usufruisce.

L’età pensionabile, poi, cresce nel tempo, in base agli adeguamenti alla speranza di vita media. Come aumenta l’età pensionabile? Vediamo come sono incrementati i requisiti di età per la pensione negli anni, in base alle attuali previsioni, per le principali tipologie di pensioni.

Età pensionabile pensione di vecchiaia ordinaria

Per ottenere la pensione di vecchiaia ordinaria, è necessario possedere un determinato requisito anagrafico, assieme ad almeno 20 anni di contributi (15 anni per chi rientra nella Deroga Amato o nell’Opzione Contributiva Dini).

La pensione di vecchiaia ordinaria, nello specifico, è un trattamento che gli iscritti all’Inps (assicurazione generale obbligatoria, gestioni sostitutive ed esclusive, gestioni dei lavoratori autonomi, gestione separata…) possono ottenere alle seguenti condizioni:

  • 67 anni dal 2019;
  • 20 anni di contributi;
  • un assegno superiore a 1,5 volte l’assegno sociale, cioè superiore a 686,99 euro, per chi non possiede versamenti entro il 31 dicembre 1995;
  • aver cessato l’attività lavorativa dipendente (come avviene per la generalità delle pensioni dirette; in seguito, è possibile rioccuparsi).

Vediamo, nella tabella, l’età pensionabile per la pensione di vecchiaia ordinaria, prevista anno per anno:

  • 2016: 66 anni e 7 mesi per gli uomini e le dipendenti pubbliche, 66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome, 65 anni e 7 mesi per le dipendenti;
  • 2017: 66 anni e 7 mesi per gli uomini e le dipendenti pubbliche, 66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome, 65 anni e 7 mesi per le dipendenti;
  • 2018: 66 anni e 7 mesi per tutti;
  • 2019: 67 anni;
  • 2020: 67 anni;
  • 2021: 67 e 3 mesi;
  • 2022: 67 e 3 mesi;
  • 2023: 67 e 6 mesi;
  • 2024: 67 e 6 mesi;
  • 2025: 67 e 9 mesi;
  • 2026: 67 e 9 mesi;
  • 2027: 68 anni;
  • 2028: 68 anni;
  • 2029: 68 e 2 mesi;
  • 2030: 68 e 2 mesi;
  • 2031: 68 e 4 mesi;
  • 2032: 68 e 4 mesi;
  • 2033: 68 e 6 mesi;
  • 2034: 68 e 6 mesi;
  • 2035: 68 e 8 mesi;
  • 2036: 68 e 8 mesi;
  • 2037: 68 e 10 mesi;
  • 2038: 68 e 10 mesi;
  • 2039: 69 anni;
  • 2040: 69 anni;
  • 2041: 69 e 2 mesi;
  • 2042: 69 e 2 mesi;
  • 2043: 69 e 4 mesi;
  • 2044: 69 e 4 mesi;
  • 2045: 69 e 6 mesi.

I requisiti, successivamente a tale data, aumentano sempre di 2 mesi ogni biennio; gli adeguamenti automatici, però, potrebbero variare nel caso in cui l’aspettativa di vita riscontrata dall’Istat sia differente da quella prevista.

I requisiti per la pensione di vecchiaia sono bloccati a 66 anni e 7 mesi per gli addetti ai lavori gravosi con almeno 30 anni di contributi.

Per chi utilizza il cumulo dei contributi per raggiungere la pensione di vecchiaia, se iscritto a una cassa professionale, deve essere rispettato il requisito di età più severo eventualmente previsto dalla gestione previdenziale dei liberi professionisti. In pratica, al compimento dell’età pensionabile per la pensione di vecchiaia ordinaria Inps è liquidato l’assegno a carico dell’Istituto, mentre la quota di pensione a carico della cassa professionale è liquidata alla maturazione del più severo requisito anagrafico previsto dalla cassa.

Età pensione di vecchiaia in totalizzazione

La totalizzazione, come il cumulo, è uno strumento che dà la possibilità di ottenere il diritto alla pensione sommando i contributi versati in gestioni diverse.

In pratica, i contributi non coincidenti accreditati presso fondi previdenziali diversi sono sommati per verificare il diritto alla pensione. Per quanto riguarda la misura della pensione, cioè l’ammontare dell’assegno, ogni gestione calcola la quota di prestazione secondo le proprie regole: se, però, presso la gestione non si raggiunge il diritto ad autonoma pensione, si applica il calcolo contributivo della prestazione.

La facoltà di totalizzazione, prima dell’introduzione del cumulo, era molto utilizzata, soprattutto per l’aumentare dei lavoratori con una carriera discontinua, che versano contributi in più gestioni.

Con la totalizzazione è possibile ottenere, oltre alla pensione di anzianità, la pensione di vecchiaia, con:

  • 66 anni dal 2019;
  • 20 anni di contributi;
  • l’attesa di una finestra, dal momento della maturazione dei requisiti alla liquidazione del trattamento, pari a 18 mesi;
  • in ogni caso, per ottenere la pensione di vecchiaia in regime di totalizzazione, devono esistere gli ulteriori requisiti, diversi da quelli di età ed anzianità contributiva, previsti dai rispettivi ordinamenti dei fondi previdenziali.

I requisiti di età per la pensione di vecchiaia in totalizzazione aumentano di 3 mesi ogni biennio, e di 2 mesi ogni biennio dal 2029.

Età pensionabile Ape

Se si decide di utilizzare l’Ape, l’anticipo pensionistico volontario prorogato sino al 31 dicembre 2019, si può anticipare la pensione di vecchiaia sino a un massimo di 3 anni e 7 mesi, se si possiedono 20 anni di contributi, con un minimo di 63 anni di età.

Sarà così possibile pensionarsi a 63 anni sino al 2018, ed a 63 anni e 5 mesi nel 2019.

Bisogna però ricordare che l’Ape comporta delle penalizzazioni sulla futura pensione, in quanto il trattamento è erogato grazie a un prestito bancario, che va restituito. Non subiscono penalizzazioni soltanto coloro che beneficiano dell’Ape sociale, interamente a carico dello Stato sino a 1.500 euro mensili; inoltre, subiscono tagli minori i lavoratori in esubero, per i quali parte dell’Ape è pagata dall’azienda e i lavoratori che possono beneficiare di una rendita integrativa anticipata.

Per approfondimenti, si veda: Ape, come si calcola l’anticipo pensionistico.

Età pensionabile Ape sociale

L’età per uscire dal lavoro resta la stessa anche per l’Ape sociale, l’anticipo pensionistico a carico dello Stato, prorogato anch’esso sino al 31 dicembre 2019.

L’Ape sociale ha un funzionamento molto simile all’Ape volontario, in quanto consente di anticipare la pensione di vecchiaia sino a 3 anni e 7 mesi: il costo dell’anticipo pensionistico, però, è a carico dello Stato, e l’importo dell’assegno è uguale a quello della futura pensione, con un massimo di 1500 euro mensili.

Le categorie beneficiarie dell’Ape sociale sono i disoccupati, i caregiver e gli invalidi dal 74%, che ottengono l’anticipo con almeno 30 anni di contributi, mentre per gli addetti ai lavori gravosi ne occorrono 36. Le donne hanno diritto a una riduzione del requisito contributivo di un anno per ogni figlio, sino a un massimo di 2 anni.

Età pensione di vecchiaia contributiva

Chi ha diritto al calcolo interamente contributivo del trattamento, ha diritto alla pensione di vecchiaia con soli 5 anni di contributi, ma con i seguenti requisiti di età:

  • nel triennio 2016-2018, 70 anni e 7 mesi;
  • nel 2019-2020, 71 anni;
  • nel 2021-2022, 71 anni e 3 mesi.

I requisiti continuano, poi, ad aumentare di 3 mesi ogni biennio, e di 2 mesi ogni biennio dal 2029.

Per approfondire: Pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi.

Età pensione di vecchiaia anticipata per invalidità

Il decreto Amato [1] ha  introdotto la possibilità di fruire della pensione di vecchiaia anticipata, cioè con un’età pensionabile inferiore a quella prevista per la pensione di vecchiaia ordinaria, per i non vedenti e per chi possiede un’invalidità riconosciuta almeno pari all’80%. Oltre al riconoscimento dell’invalidità, però, il lavoratore deve soddisfare diverse condizioni per usufruire dell’agevolazione:

  • possesso di almeno 20 anni di contributi;
  • possesso di un’età almeno pari a 61 anni per gli uomini ed a 56 anni per le donne, dal 2019;
  • per i non vedenti, i requisiti di età sono pari, rispettivamente, a 56 anni per gli uomini ed a 51 anni per le donne.

Non sono ammessi al beneficio i lavoratori del settore pubblico ed i lavoratori autonomi.

L’età pensionabile per la pensione di vecchiaia anticipata aumenterà di 3 mesi ogni biennio, e di 2 mesi ogni biennio dal 2029.

Età pensione anticipata contributiva

Chi non possiede contributi al 31 dicembre 1995 può ottenere uno speciale pensionamento agevolato, la pensione anticipata contributiva: per ottenere il trattamento, nel 2019, sono sufficienti 64 anni di età, unitamente al possesso di 20 anni di contributi, e di un assegno superiore a 2,8 volte l’assegno sociale.

Vediamo, nella tabella, come aumentano i requisiti anagrafici necessari al trattamento, in base all’anno di nascita:

Anno di pensionamento
Requisito d’età
Raggiungimento del requisito al 31 dicembre se il

soggetto è nato

entro il
2016
63 anni e 7 mesi 01-giu-53
2017
63 anni e 7 mesi 01-giu-54
2018
63 anni e 7 mesi 01-giu-55
2019
64 anni 01-gen-56
2020
64 anni 01-gen-57
2021
64 anni e 3 mesi 01-ott-57
2022
64 anni e 3 mesi 01-ott-58
2023
64 anni e 6 mesi 01-lug-59
2024
64 anni e 6 mesi 01-lug-60
2025
64 anni e 9 mesi 01-apr-61
2026
64 anni e 9 mesi 01-apr-62
2027
65 anni 01-gen-63
2028
65 anni 01-gen-64
2029
65 anni e 2 mesi 01-nov-64
2030
65 anni e 2 mesi 01-nov-65
2031
65 anni e 4 mesi 01-sett-66
2032
65 anni e 4 mesi 01-sett-67
2033
65 anni e 6 mesi 01-lug-68
2034
65 anni e 6 mesi 01-lug-69
2035
65 anni e 8 mesi 01-mag-70
2036
65 anni e 8 mesi 01-mag-71
2037
65 anni e 10 mesi 01-mar-72
2038
65 anni e 10 mesi 01-mar-73
2039
66 anni 01-gen-74
2040
66 anni 01-gen-75
2041
66 anni e 2 mesi 01-nov-75
2042
66 anni e 2 mesi 01-nov-76
2043
66 anni e 4 mesi 01-sett-77
2044
66 anni e 4 mesi 01-sett-78
2045
66 anni e 6 mesi 01-lug-79
2046
66 anni e 6 mesi 01-lug-80
2047
66 anni e 8 mesi 01-mag-81
2048
66 anni e 8 mesi 01-mag-82
2049
66 anni e 10 mesi 01-mar-83
2050
66 anni e 10 mesi 01-mar-84

Anche in questo caso gli adeguamenti automatici potrebbero variare, al variare dell’aspettativa di vita.

Età pensione anticipata quota 100

Oltre alle tipologie di pensione anticipata e di vecchiaia elencate, sono state introdotte dal 2019 delle nuove pensioni agevolate: una di queste è la cosiddetta pensione quota 100. La pensione anticipata quota 100, operativa da aprile 2019, prevede la possibilità di uscire dal lavoro quando la quota, cioè la somma di età e contribuzione posseduta, è pari a 100. In base a quanto indicato nel pacchetto previdenza, però, non tutti coloro la cui quota è pari a 100 potranno pensionarsi con questo trattamento, ma potrà uscire dal lavoro solo chi possiede un requisito di età minimo pari a 62 anni ed una contribuzione minima pari a 38 anni.

La pensione anticipata quota 100 può essere ottenuta col cumulo dei contributi, cioè sommando i versamenti accreditati in casse diverse, ad esclusione delle casse professionali.

Con la pensione quota 100 saranno reintrodotte le finestre di attesa, e non sarà permesso lavorare sino all’età pensionabile (67 anni dal 2019), o meglio cumulare redditi da lavoro col reddito derivante dalla pensione. Per approfondire: Quota 100 con finestre fisse.

Non è previsto l’adeguamento dei requisiti per la quota 100 alla speranza di vita media: l’età pensionabile per la quota 100, quindi, non aumenterà.

Età pensionabile con opzione donna

L’opzione donna consiste nella possibilità, per le lavoratrici, di pensionarsi usufruendo di requisiti agevolati, in cambio del calcolo contributivo del trattamento.

Sino al 2018, ottenere la pensione anticipata con opzione donna era possibile con 35 anni di contributi e un minimo di 57 anni e 7 mesi di età, ma soltanto per chi avesse maturato le condizioni da tempo: grazie alla cristallizzazione dei requisiti, difatti, chi in passato ha raggiunto le condizioni richieste per accedere all’opzione può sempre pensionarsi, anchein presenza di modifiche normative.

Per pensionarsi con le vecchie condizioni, in particolare, bisogna aver maturato i requisiti di età richiesti entro il 31 luglio 2016, mentre il requisito di 35 anni di contributi deve risultare alla data del 31 dicembre 2015.

Grazie alle previsioni del decreto in materia di pensioni, potranno a breve ottenere il trattamento le nate sino al 31 dicembre 1959, se dipendenti, o sino al 31 dicembre 1958, se autonome. Inoltre, è richiesta la maturazione di 35 anni di contributi entro il 31 dicembre 2018, e l’attesa di una finestra di 12 mesi per le dipendenti, e di 18 mesi per le autonome.

Età pensionabile lavori usuranti e notturni

Gli addetti ai lavori usuranti ed ai turni notturni possono beneficiare di una particolare tipologia di pensione di anzianità, raggiungibile con una determinata quota minima (la quota è la somma del requisito di età e del requisito di contribuzione posseduti dal lavoratore). Per ottenere la pensione di anzianità, è necessario che il lavoratore maturi i seguenti requisiti, validi sino al 31 dicembre 2026 (non si applicano gli adeguamenti alla speranza di vita):

  • quota pari a 97,6, con:
    • almeno 61 anni e 7 mesi d’età;
    • almeno 35 anni di contributi.

Se l’interessato possiede anche contributi da lavoro autonomo, i requisiti sono aumentati di un anno.

Hanno diritto alla pensione d’anzianità anche i lavoratori adibiti a turni notturni, ma le quote sono differenti a seconda del numero di notti lavorate nell’anno.

Chi ha lavorato per almeno 78 notti l’anno deve possedere, per accedere alla pensione di anzianità agevolata, i seguenti requisiti, che sono gli stessi validi per tutti gli addetti ai lavori usuranti sino al 31 dicembre 2026 (non si applicano gli adeguamenti alla speranza di vita):

  • quota 97,6, con un minimo di:
  • 61 anni e 7 mesi d’età;
  • 35 anni di contributi.

I requisiti, come già visto in merito agli addetti ai lavori usuranti, sono innalzati di un anno (quota 98,6 e 62 anni e 7 mesi di età) per chi possiede contribuzione mista da lavoro dipendente ed autonomo.

Chi ha lavorato per un numero di notti tra le 72 e le 78 l’anno deve possedere, invece, i seguenti requisiti:

  • quota 98,6, con un minimo di:
  • 62 anni e 7 mesi d’età;
  • 35 anni di contributi.

Se l’interessato possiede anche contributi da lavoro autonomo, la quota è innalzata a 99,6, con un minimo di 63 anni e 7 mesi di età.

Chi ha lavorato per un numero di notti tra le 64 e le 71 l’anno deve possedere i seguenti requisiti:

  • quota 99,6, con un minimo di:
  • 63 anni e 7 mesi d’età;
  • 35 anni di contributi.

Se l’interessato possiede anche contributi da lavoro autonomo, la quota è innalzata a 100,6, con un minimo di 64 anni e 7 mesi di età.

Il lavoratore, in ogni caso, deve aver prestato servizio per almeno 6 ore per ciascuna notte; in caso contrario, il lavoro notturno viene valorizzato se si raggiungono almeno 3 ore di attività notturna svolte per l’intero anno.

Perché possano aver accesso alla pensione agevolata, i lavoratori devono aver svolto l’attività usurante:

  • per almeno 7 anni, negli ultimi 10 anni di vita lavorativa;
  • per almeno metà della vita lavorativa.

Opzione donna, come funziona?

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Come funziona l’opzione contributiva per la pensione anticipata delle lavoratrici: chi ne ha diritto, quali sono i requisiti, come si calcola il trattamento.

L’opzione donna è stata prorogata nel decreto di riforma delle pensioni 2019: l’intervento, che consente alle lavoratrici di pensionarsi con requisiti agevolati, era atteso da molti anni.

Sino al 2018, ottenere la pensione anticipata con opzione donna, con 35 anni di contributi e un minimo di 57 anni e 7 mesi di età, era ancora possibile, ma soltanto per chi avesse maturato i requisiti da tempo: grazie alla cristallizzazione [1], difatti, chi in passato ha raggiunto le condizioni richieste per accedere all’opzione può comunque pensionarsi, anche se la normativa nel frattempo è cambiata.

Per pensionarsi con le vecchie condizioni, in particolare, bisogna aver maturato i requisiti di età richiesti entro il 31 luglio 2016, mentre il requisito di 35 anni di contributi deve risultare alla data del 31 dicembre 2015.

Grazie alle previsioni del decreto in materia di pensioni, potranno a breve ottenere il trattamento le nate sino al 31 dicembre 1960, se dipendenti, o sino al 31 dicembre 1959, se autonome.

Ma procediamo per ordine e facciamo il punto sull’opzione donna: come funziona, quali sono le condizioni richieste per pensionarsi, come si calcola il trattamento.

Quali sono i vecchi requisiti per l’opzione donna?

Per potersi pensionare con opzione donna, in base alle precedenti disposizioni, devono essere rispettati precisi requisiti:

  • per le lavoratrici dipendenti, è necessario aver raggiunto 57 anni e 7 mesi di età entro il 31 luglio 2016, e 35 anni di contributi al 31 dicembre 2015; dalla data di maturazione dell’ultimo requisito alla liquidazione della pensione è prevista l’attesa di un periodo, detto finestra, pari a 12 mesi;
  • per le lavoratrici autonome, è necessario aver raggiunto 58 anni e 7 mesi di età entro il 31 luglio 2016, e 35 anni di contributi al 31 dicembre 2015; dalla data di maturazione dell’ultimo requisito alla liquidazione della pensione è prevista l’attesa di un periodo di finestra pari a 18 mesi.

In pratica, possono ottenere la pensione le dipendenti che hanno compiuto 57 anni e le autonome che hanno compiuto 58 anni entro il 31 dicembre 2015, se possiedono 35 anni di contributi entro la stessa data.

Quali sono i nuovi requisiti per l’opzione donna?

Per potersi pensionare con opzione donna, dal 2019, le lavoratrici devono:

  • aver compiuto 58 anni di età, se dipendenti, e possedere 35 anni di contributi al 31 dicembre 2018; dalla data di maturazione dell’ultimo requisito alla liquidazione della pensione è prevista l’attesa di un periodo, detto finestra, pari a 12 mesi;
  • aver compiuto 59 anni di età, se autonome, e possedere 35 anni di contributi al 31 dicembre 2018; dalla data di maturazione dell’ultimo requisito alla liquidazione della pensione è prevista l’attesa di un periodo di finestra pari a 18 mesi.

In pratica, possono ottenere la pensione le dipendenti che nate entro il 1960, e le autonome nate entro il 1959, se raggiungono 35 anni di contributi al 31 dicembre 2018.

La pensione con opzione donna è penalizzata?

In cambio dell’uscita anticipata dal lavoro, il trattamento spettante con opzione donna è calcolato col sistema contributivo: questo metodo di calcolo è basato sui contributi effettivamente accreditati e risulta sfavorevole rispetto al sistema di calcolo retributivo, che invece si basa sulla media degli ultimi stipendi o redditi.

Non esiste una penalizzazione fissa, perché il calcolo della pensione dipende da numerose variabili, tuttavia si parla di un taglio della pensione che può anche superare il 30%, rispetto al trattamento calcolato col sistema retributivo.

Come si calcola la pensione con opzione donna?

Nello specifico, il calcolo contributivo, utilizzato con opzione donna, non si basa sugli ultimi stipendi o retribuzioni percepite come il sistema retributivo, ma sui contributi effettivamente versati nel corso dell’attività lavorativa, rivalutati e trasformati in rendita da un coefficiente che aumenta all’aumentare dell’età pensionabile.

Il sistema di calcolo contributivo si divide in due quote:

  • la quota A, sino al 31 dicembre 1995 (valida solo per chi ha optato per il calcolo interamente contributivo, oppure per il computo o per la totalizzazione);
  • la quota B, dal 1° gennaio 1996 in poi.

Per ricavare l’assegno di pensione corrispondente alla Quota B, bisogna:

  • accantonare, per ogni anno, il 33% della retribuzione lorda corrisposta dal 1996 (il 33% è l’aliquota valida per la generalità dei lavoratori dipendenti), oppure l’aliquota contributiva prevista dall’Inps per le altre categorie di lavoratori;
  • rivalutare i contributi accantonati ogni anno, in base alla media mobile quinquennale della crescita della ricchezza nazionale, ovvero all’incremento del Pil nominale, che comprende anche il tasso di inflazione che si registra anno per anno;
  • sommare i contributi rivalutati, ottenendo così il montante contributivo;
  • moltiplicare il montante contributivo per il coefficiente di trasformazione, una cifra espressa in percentuale che varia in base all’età, ottenendo così la quota B di pensione.

Per determinare la Quota A della pensione, in caso di opzione per il sistema contributivo, computo o totalizzazione, il procedimento è più complicato.

Il complesso meccanismo dovrebbe risultare più semplice spiegato in questo modo:

  • si prendono le 10 retribuzioni annue precedenti il 1996 (o le retribuzioni 1993-1995 per i dipendenti pubblici);
  • si applica l’aliquota contributiva pensionistica riferita all’epoca del versamento (quella del 1995, ad esempio, era pari al 27,12% per la generalità dei dipendenti);
  • si rivalutano i contributi così ottenuti, sulla base della media quinquennale del Pil nominale;
  • si ricava una media annua di contribuzione (capitalizzata) dividendo il totale della somma complessivamente accantonata per 10 (o per 3, per i dipendenti pubblici);
  • si moltiplica il risultato ottenuto per il numero complessivo degli anni di anzianità, valutati però ponderandoli con il rapporto tra l’aliquota contributiva vigente in ciascun anno e la media delle aliquote contributive vigenti nei 10 (o 3) anni precedenti quello in cui viene esercitata l’opzione;
  • si ottiene, così, il montante contributivo della quota A, che deve essere moltiplicato per il coefficiente di trasformazione per trasformarsi in quota A di pensione.

Si possono, in alternativa, sommare i due montanti contributivi, della Quota A e della Quota B, per giungere al montante contributivo totale, che viene poi trasformato in rendita dal coefficiente di trasformazione, che varia in base all’età pensionabile.

Il procedimento può cambiare a seconda della particolare gestione previdenziale in cui si possiedono i contributi.

Domanda opzione donna

Chi ha raggiunto i requisiti prescritti dalle precedenti disposizioni per l’opzione, può pensionarsi utilizzando questo particolare regime anche adesso: l’Inps ha difatti chiarito che anche a questo speciale regime si applica la cristallizzazione dei requisiti, un principio, generalmente valido in materia previdenziale, che consente di ottenere la pensione con un previgente regime se entro le date previste sono stati raggiunti i requisiti, anche se successivamente la legge è cambiata.

Domanda nuova opzione donna 2019

L’opzione donna con i nuovi requisiti dovrebbe poter essere richiesta a breve, considerando che il decreto di riforma delle pensioni è appena entrato in vigore. Molto probabilmente, però, perché le procedure Inps per evadere le nuove domande siano pienamente operative occorreranno dei mesi.

Pensione quota 100: come fare domanda

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È già possibile inviare la domanda di pensione con quota 100: le istruzioni dell’Inps.

Il decreto in materia di reddito di cittadinanza e pensioni, appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale, introduce una nuova possibilità di pensionamento: si tratta della cosiddetta pensione quota 100. Questo trattamento può essere raggiunto con un minimo di 62 anni di età e di 38 anni di contributi: si tratta sicuramente di un vantaggio per molti lavoratori, che anziché aspettare l’età pensionabile o la maturazione dei requisiti per la pensione anticipata (pari a 42 anni e 10 mesi per gli uomini ed a 41 anni e 10 mesi per le donne), possono uscire dall’impiego con requisiti ridotti.

L’Inps ha appena pubblicato un messaggio [1] con le istruzioni per inviare la domanda di pensione con quota 100: non sarà dunque necessaria un’attesa di mesi per poter inviare le istanze di pensionamento, ma è possibile provvedere sin da ora.

Bisogna tenere in considerazione, comunque, che la pensione quota 100 non ha una decorrenza immediata, ma la liquidazione del trattamento è differita a causa dell’applicazione delle finestre. Ricordiamo che la finestra è il lasso di tempo che trascorre tra la maturazione dell’ultimo requisito utile alla pensione e la liquidazione della prestazione. Con la pensione quota 100 sono previste, in prima istanza, due finestre fisse di uscita, cioè con date prestabilite; successivamente, sono previste finestre mobili pari a tre mesi per i lavoratori del settore privato ed a sei mesi per i dipendenti pubblici.

Ma procediamo per ordine e, dopo aver ricordato quelle che sono le principali caratteristiche del nuovo pensionamento, vediamo, in merito alla pensione quota 100 come fare domanda.

Quali sono i requisiti per la quota 100?

Per raggiungere la pensione con quota 100 è necessario maturare almeno 38 anni di contributi ed aver compiuto 62 anni di età. I 38 anni di contributi possono essere raggiunti anche attraverso il cumulo, ossia sommando gratuitamente i versamenti accreditati presso gestioni previdenziali differenti. Sono esclusi, però, i contributi accreditati presso le casse dei liberi professionisti.

A quanto ammonta la pensione con quota 100?

La pensione con quota 100 è calcolata alla pari della generalità dei trattamenti pensionistici: non sono applicate penalizzazioni, né il ricalcolo contributivo dell’assegno.

Quando si esce con la quota 100?

La decorrenza della pensione con quota 100 è differita, in quanto si devono applicare le cosiddette finestre di uscita.

In particolare:

  • i Lavoratori del settore privato che hanno già maturato i requisiti per la quota 100 entro il 31 dicembre 2018, possono uscire dal 1° aprile 2019;
  • i lavoratori del settore privato che perfezionano i requisiti successivamente, possono uscire dopo tre mesi dalla maturazione dell’ultimo requisito;
  • i dipendenti pubblici che maturano i requisiti per la quota 100 entro la data di entrata in vigore del decreto pensioni, ossia entro il 29 gennaio, possono uscire dal 1° agosto 2019;
  • i dipendenti pubblici che maturano i requisiti successivamente, possono uscire dopo sei mesi dal perfezionamento dell’ultimo requisito;
  • ai dipendenti del comparto scuola continua invece ad applicarsi la finestra unica annuale.

Come si fa la domanda di pensione quota 100?

Come chiarito dall’Inps con un nuovo messaggio [1], è sin da ora possibile inviare le domande di pensione con quota 100. Per inoltrare la domanda di pensione è possibile utilizzare il sito web dell’Inps, oppure chiamare il call center dell’istituto o farsi assistere da un patronato.

Se si vuole inviare la domanda di pensione tramite il portale web dell’Inps bisogna innanzitutto possedere le credenziali di accesso: Pin dispositivo, identità unica digitale Spid, oppure carta nazionale dei servizi.

Una volta effettuato l’accesso, bisogna entrare nella sezione:” “Domanda Pensione, Ricostituzione, Ratei, Ecocert, Ape Sociale e Beneficio precoci”.

Una volta effettuato l’accesso e scelta l’opzione “Nuova Domanda” nel menù di sinistra, occorre selezionare, per richiedere la pensione quota 100: “Pensione di anzianità/vecchiaia”, “Pensione di anzianità/anticipata”, “Requisito quota 100”.

In seguito, bisogna selezionare il fondo e la gestione di liquidazione (ad esempio Fpld, Fondo pensione lavoratori dipendenti).

Questa modalità di presentazione delle domande può essere utilizzata da parte dei lavoratori iscritti alle gestioni private, alla gestione pubblica e alla gestione spettacolo e sport, amministrate dall’Inps, anche per chiedere, per la pensione quota 100, il cumulo dei periodi assicurativi.

Per conoscere, nel dettaglio, tutti i passaggi necessari alla presentazione della domanda di pensione: Come presentare la domanda di pensione all’Inps.

Bonus bebè 2019: come funziona

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Bonus bebè 2019 da 80 a 160 euro al mese, maggiorazione del 20% per i figli successivi al primo: che cosa cambia.

Il bonus bebè, nel 2019, è stato prorogato e maggiorato: grazie alla legge di Bilancio 2019, difatti, il beneficio è stato non solo “salvato” dalla mancata proroga, ma anche rifinanziato in misura maggiore.

Il bonus bebè, nel dettaglio, beneficia di una maggiorazione del 20% per ogni figlio successivo al primo: chi è al secondo figlio, ad esempio, non deve più contare, per la sua nascita, su 80 euro al mese o 160 euro al mese, a seconda dell’Isee della famiglia, ma su 96 euro al mese o 192 euro al mese.

L’assegno spetta sino al compimento di 1 anno di età del bambino, se l’Isee del nucleo familiare non supera 25mila euro, ed è raddoppiato nel caso in cui l’Isee non superi i 7mila euro. Non sono richiesti ulteriori requisiti economici oltre l’Isee: non è quindi necessario essere lavoratori dipendenti per beneficiare del bonus.

Ma facciamo subito un breve punto della situazione sul bonus bebè 2019: come funziona e che cosa cambia con la nuova legge.

Come funziona il bonus bebè per i nati sino al 2017

Il bonus bebè, per i nati sino al 31 dicembre 2017, consiste in un contributo riconosciuto mensilmente ai genitori con figli minori di 3 anni. L’ammontare del bonus è pari a:

  • 80 euro mensili, per ogni figlio minore di 3 anni, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 25mila euro;
  • 160 euro, per ogni figlio minore di 3 anni, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 7mila euro.

Nel dettaglio, il bonus bebè spetta per ogni figlio nato, adottato (se minorenne) o in affido preadottivo tra il 1º gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017, ai genitori che possiedono i seguenti requisiti:

  • cittadinanza italiana, di uno Stato europeo o di uno Stato extraeuropeo con regolare permesso di soggiorno;
  • residenza in Italia;
  • convivenza con il figlio;
  • nucleo familiare in possesso di un reddito ai fini Isee non superiore a 25mila euro annui, per tutta la durata dell’assegno.

L’incentivo viene corrisposto, sotto forma di assegno, a partire dal giorno di nascita o di ingresso del figlio nella famiglia (in caso di adozione o di affido preadottivo) e fino al compimento del terzo anno di età o al terzo anno dall’ingresso nel nucleo (o, se precedente, al compimento della maggiore età).

Come funziona il bonus bebè per i nati nel 2018

Il bonus bebè, per i nati dal 1° gennaio 2018 sino al 31 dicembre 2018, consiste in un contributo riconosciuto mensilmente ai genitori con figli minori di 1 anno. L’ammontare del bonus è pari a:

  • 80 euro mensili, per ogni figlio minore di  un anno, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 25mila euro;
  • 160 euro, per ogni figlio minore di un anno, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 7mila euro.

Nel dettaglio, il bonus bebè spetta per ogni figlio nato, adottato (se minorenne) o in affido preadottivo tra il 1º gennaio 2018 e il 31 dicembre 2018, ai genitori che possiedono i seguenti requisiti:

  • cittadinanza italiana, di uno Stato europeo o di uno Stato extraeuropeo con regolare permesso di soggiorno;
  • residenza in Italia;
  • convivenza con il figlio;
  • nucleo familiare in possesso di un reddito ai fini Isee non superiore a 25mila euro annui, per tutta la durata dell’assegno.

L’incentivo viene corrisposto, sotto forma di assegno, a partire dal giorno di nascita o di ingresso del figlio nella famiglia (in caso di adozione o di affido preadottivo) e fino al compimento del primo anno di età o al primo anno dall’ingresso nel nucleo (o, se precedente, al compimento della maggiore età).

Come funzionerà il bonus bebè per i nati nel 2019

Il bonus bebè, per i nati dal 2019, consiste, ugualmente, in un contributo riconosciuto mensilmente ai genitori con figli minori di 1 anno. L’ammontare del bonus è pari a:

  • 80 euro mensili, per ogni figlio minore di  un anno, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 25mila euro;
  • 160 euro, per ogni figlio minore di un anno, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 7mila euro.

Per il secondo figlio, il bonus è maggiorato del 20%, arrivando dunque a:

  • 96 euro mensili, per ogni figlio minore di  un anno, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 25mila euro;
  • 192 euro mensili, per ogni figlio minore di un anno, per le famiglie il cui Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) non supera 7mila euro.

Un’ulteriore maggiorazione del 20% è riconosciuta per ogni figlio successivo.

Anche per il 2019, i requisiti richiesti ai genitori sono:

  • cittadinanza italiana, di uno Stato europeo o di uno Stato extraeuropeo con regolare permesso di soggiorno;
  • residenza in Italia;
  • convivenza con il figlio;
  • nucleo familiare in possesso di un reddito ai fini Isee non superiore a 25mila euro annui, per tutta la durata dell’assegno.

L’incentivo viene corrisposto, sempre sotto forma di assegno, a partire dal giorno di nascita o di ingresso del figlio nella famiglia (in caso di adozione o di affido preadottivo) e fino al compimento del primo anno di età o al primo anno dall’ingresso nel nucleo (o, se precedente, al compimento della maggiore età).

Bonus bebè: domanda

Per ottenere il bonus bebè il genitore, come prima cosa, deve risultare in possesso di una dichiarazione Isee in corso di validità. Deve poi presentare un’apposita domanda all’Inps, tramite le seguenti modalità:

  • sito internet dell’istituto (www.inps.it), sezione servizi per il cittadino, se in possesso di Pin dispositivo o identità digitale unica Spid;
  • contact center integrato Inps (803.164 da rete fissa o 06.164164 da rete mobile); è sempre necessario il possesso del codice Pin.

La domanda, accompagnata dall’autocertificazione dei requisiti che danno titolo all’assegno, deve essere presentata entro 90 giorni dalla nascita o dall’ingresso del figlio adottato nel nucleo familiare: l’istanza deve essere presentata una sola volta per ciascun figlio.

Se la domanda viene presentata in ritardo, si ha comunque diritto a ricevere l’importo sino al limite di età del bambino, ma si perde il diritto agli arretrati.


Buono nido 2019

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Anche nel 2019 è operativo il contributo riconosciuto dall’Inps per la frequenza dell’asilo nido: requisiti, come richiederlo.

Può essere richiesto anche nel 2019 il cosiddetto buono nido, chiamato anche bonus asilo nido: si tratta di un contributo di mille euro riconosciuto dall’Inps per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido pubblici e privati, per ogni figlio sino a 3 anni di età. Questo sussidio serve anche a garantire forme di supporto, presso la propria abitazione, a favore di bambini sotto i 3 anni con gravi patologie croniche. Dal 2019, il contributo è aumentato a 1500 euro mensili.

In base a quanto annunciato, per il buono nido 2019 sono state stanziate apposite risorse. A questo proposito l’Inps, con una recente circolare [1], aveva informato che era possibile, tramite l’apposito servizio online, inviare le richieste di buono nido sino al 31 dicembre 2018. Per il 2019, le domande possono essere presentate dal 28 gennaio.

Vediamo allora come presentare domanda per il buono nido 2019, quali sono gli adempimenti da effettuare e chi possiede i requisiti per richiedere il bonus. La procedura per richiedere il buono nido non è semplice, in quanto è richiesta la rendicontazione del pagamento delle rette dell’asilo (o la rendicontazione dei pagamenti effettuati per i servizi di assistenza domiciliare). In pratica, chi non paga l’asilo, o chi perde le ricevute, non vede i soldi. Ma procediamo per ordine.

Chi ha diritto al buono nido 2019

Hanno diritto al bonus nido 2019 tutte le famiglie, a prescindere dal reddito e dall’indicatore Isee, con figli sotto i 3 anni che frequentano l’asilo nido, o che, a causa di gravi patologie croniche, necessitino di supporto specifico in casa.

L’asilo frequentato deve essere pubblico, oppure può trattarsi di un asilo privato autorizzato all’apertura e al funzionamento da parte dell’ente locale compete.

Il buono non rimborsa le spese sostenute per la frequenza di ludoteche, spazi gioco, pre-scuola e servizi educativi integrativi all’asilo nido.

Il diritto al buono nido, come precisato dall’Inps, è subordinato allo stanziamento delle apposite risorse: terminati i fondi, le domande non sono più prese in considerazione.

A quanto ammonta il buono nido 2019

Il buono nido ammonta a 1500 euro l’anno. È riconosciuto per 11 mensilità, in misura pari a 136,36 euro al mese. Il buono è erogato dall’Inps per ogni retta mensile pagata e documentata ed entro, comunque, l’importo della retta mensile.

Alcune recenti proposte prevedono di raddoppiare il buono nido, altre addirittura di portarlo a 300 euro al mese. Ad oggi non si sa ancora, però, se saranno attuate.

Buono nido 2019: è compatibile con altri incentivi?

L’importo del buono nido è incompatibile con la detrazione fiscale spettante per le spese per la frequenza dell’asilo nido.

È inoltre incompatibile con i voucher baby-sitting, ossia con i buoni lavoro erogati dall’Inps per il pagamento della babysitter, beneficio offerto in sostituzione del congedo parentale.

Se si hanno più figli sotto i 3 anni che frequentano l’asilo nido, è possibile ottenere il bonus per ciascuno di loro, cumulando gli assegni.

Vediamo adesso come presentare domanda per il buono nido.

Domanda buono nido 

È possibile inviare all’Inps la domanda di buono nido 2019 dal 28 gennaio, a seguito dell’apposito stanziamento di fondi; la richiesta di buono nido può essere presentata esclusivamente in via telematica, attraverso uno dei seguenti canali:

  • sito web dell’Inps, per chi dispone delle credenziali (Pin dispositivo, Spid di secondo livello o Cns, carta nazionale dei servizi);
  • contact center integrato – numero verde 803.164 (numero gratuito da rete fissa) o numero 06 164.164 (numero da rete mobile con tariffazione a carico dell’utenza chiamante);
  • enti di patronato attraverso i servizi offerti dagli stessi.

Nella domanda bisogna specificare se si intende richiedere il contributo per l’asilo nido o il contributo per forme di supporto presso la propria abitazione (nel caso di bambino affetto da gravi patologie croniche).

Se il bambino frequenta un asilo privato autorizzato, bisogna indicare nella domanda gli estremi del provvedimento autorizzativo.

Bisogna poi indicare nella domanda le mensilità relative ai periodi di frequenza scolastica compresi nell’anno di riferimento per le quali si richiede il beneficio.

Quali documenti allegare alla domanda di buono nido

È necessario allegare anche:

  • i documenti che provano il pagamento almeno della retta relativa al primo mese di frequenza dell’asilo;
  • se l’asilo prevede il pagamento delle rette posticipato rispetto al periodo di frequenza, i documenti da cui risulti l’iscrizione o l’avvenuto inserimento in graduatoria del bambino;
  • per chi richiede il supporto domiciliare, per bambini con gravi patologie croniche, un’attestazione del pediatra di libera scelta da cui risultino i dati anagrafici del minore (data di nascita, città, indirizzo di residenza) e l’impossibilità di frequentare l’asilo nido per l’intero anno solare di riferimento, a causa della grave patologia cronica.

È poi necessario allegare entro la fine del mese di riferimento e, comunque, non oltre il 31 gennaio 2020, le ricevute corrispondenti ai pagamenti delle rette relative ai mesi successivi (entro il 1° aprile, se l’asilo emette i bollettini di pagamento dell’ultimo trimestre oltre il 31 gennaio 2020).

È possibile allegare, per provare i pagamenti, ricevute, fatture quietanzate, bollettini bancari o postali e, per i nidi aziendali, le attestazioni del datore di lavoro o dell’asilo nido dell’avvenuto pagamento della retta o della trattenuta in busta paga.

La documentazione deve in ogni caso riportare i seguenti dati:

  • denominazione e partita Iva dell’asilo nido;
  • codice fiscale del minore;
  • mese di riferimento;
  • estremi del pagamento o quietanza di pagamento;
  • nominativo del genitore che sostiene l’onere della retta.

Nessun rimborso è effettuato senza allegare la ricevuta di pagamento; se l’ente emette ricevute che si riferiscono a più mesi, il documento va comunque allegato per ogni mese a cui si riferisce.

Licenziamento per pensione: spetta il preavviso?

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Chi raggiunge l’età pensionabile può essere licenziato senza preavviso dal datore di lavoro?

Hai raggiunto da poco l’età pensionabile, che dal 2019 è pari a 67 anni, e adesso hai paura di essere licenziato “in automatico” e senza preavviso, dato che hai maturato i requisiti per la pensione? Temi che il datore di lavoro abbia il potere di mandarti via su due piedi, da un giorno all’altro?

Non devi preoccuparti: pur essendo vero che, una volta compiuta l’età pensionabile, il datore di lavoro può recedere liberamente dal rapporto, è anche vero che, in caso di licenziamento per pensione, spetta il preavviso. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con una recente sentenza [1], nella quale chiarisce che il compimento dell’età per la pensione di vecchiaia da parte del dipendente non determina l’estinzione automatica del rapporto di lavoro. Pertanto, in mancanza del licenziamento, che deve essere redatto per iscritto dal datore di lavoro, il rapporto prosegue anche successivamente al compimento dell’età pensionabile.

Di conseguenza, per quanto riguarda la risoluzione del rapporto per limiti di età del dipendente del settore privato, al datore di lavoro è imposto comunque l’obbligo di preavviso, oltreché la forma scritta.

Ma come funziona il licenziamento per limiti di età? Facciamo il punto della situazione.

Licenziamento per pensione dipendenti del settore privato

Il cosiddetto “licenziamento ad nutum”, cioè il licenziamento senza obbligo di motivazione, può essere intimato dal datore di lavoro, per raggiunti limiti di età del dipendente, quando questi compie 67 anni. Il lavoratore deve però possedere, oltre al requisito di età, il requisito contributivo utile alla pensione di vecchiaia, pari a 20 anni di contributi e, nei casi in cui è richiesto, anche il requisito economico (pensione pari a 1,5 volte l’assegno sociale) .

Se l’azienda non lo licenzia, comunque, il lavoratore può restare in servizio sino a 71 anni.

Prima del compimento dei 67 anni l’azienda non licenzia in automatico, ma valgono le regole generali, in tema di scioglimento del rapporto di lavoro, quindi il licenziamento è possibile per giusta causa, giustificato motivo soggettivo (ad esempio, licenziamento disciplinare) o oggettivo (licenziamento per motivi economici).

Farebbe eccezione il solo caso in cui sussista un’apposita clausola nel contratto collettivo applicato, che preveda la possibilità di recedere dal contratto compiuta una determinata età, solitamente pari a 65 anni: in buona sostanza, al compimento dei 65 anni, o del diverso limite di età previsto dal contratto collettivo, il dipendente potrebbe essere licenziato, sussistendo l’apposita clausola risolutiva nel ccnl. Sul punto, però, gli orientamenti della giurisprudenza non sono concordi; licenziare a una determinata età a causa delle previsioni del contratto collettivo sarebbe possibile solo se è presente la giusta causa, un giustificato motivo oggettivo o soggettivo

Negli altri casi, per quanto riguarda le aziende del settore privato, il licenziamento non è possibile, prima del raggiungimento del limite di età, nemmeno nell’ipotesi in cui il dipendente possieda i requisiti per la pensione anticipata.

Licenziamento per pensione dipendenti pubblici

La disciplina è diversa per i dipendenti pubblici [2], che in alcuni casi subiscono il licenziamento in automatico: una volta raggiunti i requisiti per la pensione, difatti, l’amministrazione è obbligata a cessarli dal servizio, se è raggiunta anche l’età ordinamentale, ossia l’età prevista per la cessazione dall’ordinamento a cui appartiene il lavoratore. Nel caso in cui l’età ordinamentale non sia raggiunta, ma siano raggiunti i requisiti per la pensione, la cessazione è invece a discrezione dell’amministrazione.

Nel dettaglio, le ipotesi di pensionamento “forzato” da parte della pubblica amministrazione sono 3:

  • in due casi si tratta di pensionamento forzato, applicabile verso chi ha maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia, oppure il diritto alla pensione anticipata, assieme al raggiungimento del limite d’età ordinamentale previsto dai singoli settori d’appartenenza;
  • un’ulteriore ipotesi è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione, ed è rivolta a chi ha raggiunto le condizioni previste dalla riforma Monti Fornero [3] per la pensione anticipata, senza aver raggiunto il limite d’età ordinamentale.

Che cosa succede a chi ha raggiunto l’età ordinamentale e l’età per la pensione di vecchiaia, ma non possiede i requisiti per la pensione? Il dipendente si può trattenere in servizio sino ai 71 anni (requisito valido dal 2019), per maturare gli anni di contributi richiesti per il trattamento.

Pensione Quota 100: istruzioni dell’Inps

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L’Inps ha chiarito le regole principali della nuova pensione Quota 100: a chi spetta, cumulo dei contributi, decorrenza, divieto di lavorare.

L’Inps, con una nuova circolare [1], ha illustrato le disposizioni principali relative alla nuova pensione con quota 100: si tratta di una tipologia di pensionamento introdotta dal decreto-legge in materia di reddito di cittadinanza e pensioni [2], che prevede dei requisiti flessibili per uscire dal lavoro. Per pensionarsi, difatti, è sufficiente aver compiuto 62 anni di età e possedere 38 anni di contributi.

I 38 anni di contributi, peraltro, possono essere raggiunti anche attraverso il cumulo dei versamenti presenti in gestioni previdenziali diverse, se amministrate dall’Inps: ai fini del diritto alla pensione, sono sommati tutti i periodi non coincidenti, mentre ai fini della misura, cioè dell’importo del trattamento, valgono tutti i contributi accreditati. Nessuna penalizzazione è prevista nel calcolo della pensione, né il ricalcolo contributivo del trattamento.

L’uscita con Quota 100 è differita a causa dell’applicazione delle cosiddette finestre, dei periodi di attesa che cambiano a seconda della categoria di appartenenza del lavoratore e della data di perfezionamento dei requisiti per la pensione.

Inoltre, la pensione Quota 100 è sospesa per chi produce redditi di lavoro dipendente e autonomo (esclusi i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo occasionale, sino a 5mila euro annui).

Ma procediamo per ordine, e facciamo il punto sulla pensione Quota 100: istruzioni dell’Inps.

A chi spetta la pensione quota 100?

In primo luogo, può richiedere la pensione con quota 100 chi è iscritto all’assicurazione generale obbligatoria (Ago) e alle forme esclusive e sostitutive della stessa, gestite dall’Inps, o alla gestione separata. Sono esclusi dalla Quota 100 gli iscritti in via esclusiva alle gestioni previdenziali dei liberi professionisti e gli appartenenti alle Forze armate, alle Forze di Polizia e di Polizia penitenziaria; escluso anche il personale operativo del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ed il personale della Guardia di finanza.

I requisiti richiesti per la quota 100, ossia il compimento dei 62 anni di età ed il versamento di 38 anni di contributi, devono essere perfezionati nel periodo compreso tra il 2019 ed il 2021. La pensione può essere richiesta anche successivamente, se i requisiti sono maturati entro il 31 dicembre 2021.

Requisito contributivo per la quota 100

Il requisito di 38 anni di contributi per la Quota 100:

  • non subisce gli adeguamenti alla speranza di vita;
  • deve comprendere almeno 35 anni di contributi utili per il diritto alla pensione di anzianità (sono esclusi i contributi figurativi per malattia e disoccupazione), se richiesto dalla gestione a carico della quale è liquidata la pensione;
  • è verificato tenendo conto delle regole della gestione previdenziale che liquida il trattamento;
  • può essere raggiunto anche attraverso il cumulo gratuito dei versamenti accreditati presso le gestioni amministrate dall’Inps; per gli iscritti all’ex Enpals (gestione spettacolo e sport), è possibile cumulare i versamenti accreditati presso la gestione con i contributi accreditati presso l’Inps, secondo le disposizioni vigenti [3].

È possibile accedere alla pensione quota 100 anche avvalendosi dell’opzione contributiva [4] o della facoltà di computo dei versamenti nella gestione separata.

Quota 100: come funzionano le finestre?

La pensione quota 100 inizierà ad essere corrisposta da aprile 2019. Per evitare l’esodo di massa dei lavoratori con l’uscita anticipata quota 100, sono state reintrodotte le finestre di attesa, che spostano la decorrenza della pensione. In particolare:

  • i lavoratori del settore privato che maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2018, conseguono il diritto alla decorrenza della pensione il 1° aprile 2019;
  • i lavoratori del settore privato che maturano i requisiti dal 1° gennaio 2019, conseguono il diritto alla decorrenza della pensione trascorsi tre mesi dalla data di maturazione dei requisiti stessi;
  • i dipendenti pubblici che maturano i requisiti entro l’entrata in vigore del decreto pensioni, conseguono il diritto alla decorrenza della pensione il 1° agosto 2019;
  • i dipendenti pubblici che maturano i requisiti dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto, conseguono il diritto alla decorrenza del trattamento pensionistico trascorsi 6 mesi dalla data di maturazione dei requisiti stessi;
  • la domanda di collocamento a riposo, per i dipendenti pubblici, deve essere presentata all’amministrazione di appartenenza con un preavviso di sei mesi;
  • per i dipendenti del comparto scuola si applica la finestra unica di uscita.

In base a quanto esposto nel decreto, dunque, escluse le finestre per i dipendenti della scuola, e la finestra del 1° aprile e del 1° agosto, rispettivamente dedicate ai lavoratori del settore privato e pubblico, le ulteriori finestre saranno mobili, e non finestre fisse.

Se il trattamento pensionistico è liquidato a carico di una gestione esclusiva dell’assicurazione generale obbligatoria (Ago), la prima decorrenza utile della pensione è fissata al primo giorno successivo all’apertura della finestra.

Se, invece, il trattamento è liquidato a carico di una gestione diversa da quella esclusiva dell’assicurazione generale obbligatoria, la prima decorrenza utile della pensione è fissata al primo giorno del mese successivo all’apertura della finestra.

Sospensione della pensione quota 100 per chi lavora

Una volta liquidato l’assegno di pensione, questo non è cumulabile, in base a quanto disposto dal decreto, con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, ad eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5mila euro lordi annui.

L’impossibilità di cumulare la pensione coi redditi di lavoro opera sino alla maturazione del requisito di età per la pensione di vecchiaia (pari, nella generalità delle gestioni amministrate dall’Inps, a 67 anni dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2020; il requisito è adeguato alla speranza di vita media).

Se si lavora mentre si percepisce la pensione con quota 100, e non è stata ancora compiuta l’età pensionabile, la prestazione è sospesa per tutto l’anno di produzione del reddito.

La pensione è sospesa per parte dell’annualità se l’interessato compie, nell’anno, l’età per la pensione di vecchiaia.

Se il reddito prodotto è di lavoro autonomo occasionale, la pensione è sospesa soltanto se il reddito supera i 5mila euro annui.

In ogni caso, l’interessato deve comunicare immediatamente all’Inps:

  • lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, diversa da quella autonoma occasionale, dalla quale derivi un reddito anche inferiore a 5mila euro lordi annui;
  • lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa autonoma occasionale, dalla quale derivi un reddito superiore a 5mila euro lordi annui.

In entrambi i casi, l’Inps provvede alla sospensione del trattamento pensionistico per l’intero anno di produzione del reddito (per parte dell’anno, in caso di compimento dell’età pensionabile).

Le rate di pensione indebitamente corrisposte sono recuperate dall’Inps retroattivamente.

Aiuti per i nati nel 2019

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Bonus bebè, premio nascita, bonus asilo nido: le agevolazioni per chi avrà un figlio nel 2019.

Nel 2019 sono stati prorogati e modificati i bonus a favore dei nuovi nati. La legge di bilancio 2019 ha difatti confermato diverse misure, in qualche caso ampliando i benefici. Il bonus bebè, ad esempio, è stato maggiorato del 20% per i secondi ed i terzi figli. Il bonus asilo nido, oltre a essere stato riconfermato anche per il 2019, è passato da 1000 a 1500 euro all’anno. Resta inalterato, poi, il premio alla nascita, un bonus una tantum di 800 euro per ogni nuovo nato o adottato, che può essere richiesto a partire dal settimo mese di gravidanza (è difatti chiamato anche bonus Mamma Domani). Ma procediamo per ordine, e facciamo il punto sugli aiuti per i nati nel 2019.

Bonus bebè 2019

Il bonus bebè è un contributo mensile che spetta alle famiglie con un indice Isee (l’indicatore della situazione economica equivalente del nucleo familiare, in pratica l’indice che “misura la ricchezza” della famiglia) inferiore a 25mila euro: per il 2019, viene erogato per il primo anno di vita del bambino.

L’importo del contributo è pari a 80 euro al mese, ma raddoppia a 160 euro per le famiglie il cui indicatore Isee non supera i 7mila euro.

Dal 2019, poi, il contributo è maggiorato del 20% per ogni figlio successivo al primo, quindi gli assegni salgono, ad esempio, a 96 euro per il secondo figlio, ed a 112 euro al mese per il terzo figlio.

Che cosa si deve fare per ottenere il bonus bebè 2019?

Per ottenere il contributo, deve essere inoltrata un’apposita domanda all’Inps, che va fatta entro tre mesi dalla nascita del bimbo.

La richiesta può essere inviata attraverso il sito dell’Inps, per chi possiede le credenziali di accesso (codice Pin dispositivo, identità unica digitale Spid o carta nazionale dei servizi), oppure chiamando il call center dell’Inps, al numero 803. 164 (06. 16 4,164 per chi chiama da rete mobile), o, ancora, tramite patronato. Per quanto riguarda la domanda di bonus 2019, però, si deve ancora attendere la circolare dell’Inps, che sarà emanata a breve, con le istruzioni dettagliate.

Nel frattempo, occorre conservare il certificato di nascita e farsi rilasciare una nuova attestazione Isee aggiornata: l’indicatore Isee, ossia l’indicatore della situazione economica della famiglia, subisce infatti delle variazioni con l’aumento dei componenti del nucleo familiare ed è un presupposto indispensabile per inviare la domanda di bonus bebè. Per approfondire: Bonus bebè 2019.

Bonus asilo nido 2019

Il bonus asilo nido è un contributo concesso a tutte le famiglie, indipendentemente dal reddito, per la frequenza degli asili nido, oppure per l’assistenza domiciliare, per quanto riguarda i bambini affetti da patologie ed impossibilitati a frequentare un asilo.

Dal 2019, il contributo passa da mille a 1500 euro all’anno, ossia a circa 136 euro al mese per 11 mesi. Il bonus viene concesso per i primi tre anni di vita del bambino.

L’asilo frequentato deve essere pubblico, oppure può trattarsi di un asilo privato autorizzato all’apertura e al funzionamento da parte dell’ente locale compete.

Il buono non rimborsa le spese sostenute per la frequenza di ludoteche, spazi gioco, pre-scuola e servizi educativi integrativi all’asilo nido.

La domanda di bonus asilo nido deve essere presentata online sul sito dell’Inps dal genitore che paga la retta dell’asilo, a partire dal 28 gennaio 2019, allegando la ricevuta della retta del nido o l’attestazione dell’iscrizione. È comunque possibile farsi assistere da un patronato. Per i bambini che non possono andare all’asilo e hanno bisogno di un aiuto a casa, è necessario allegare alla domanda il certificato del pediatra in cui si dichiara che il bambino non può frequentare il nido.

Premio alla nascita

Resta inalterato, per tutto il 2019, il premio alla nascita, conosciuto anche come bonus mamma domani. Si tratta di un contributo una tantum, cioè che viene erogato soltanto una volta, pari a 800 euro, per ogni nuovo nato o adottato. La domanda si può presentare dal settimo mese di gravidanza, alla nascita del bambino o all’adozione, direttamente sul sito Inps o con l’aiuto di un patronato.

Il beneficio è concesso in un’unica soluzione e per ogni singolo evento, gravidanza o parto, adozione o affidamento. Va dunque presentata una domanda per ogni evento e quindi per ogni minore, nato, adottato o affidato: se, ad esempio, si presenta la domanda al compimento del settimo mese di gravidanza, non si deve presentare un’altra domanda per l’evento nascita relativo allo stesso bambino. Lo stesso vale per l’affidamento di un minore: se è stato richiesto il bonus nascita per l’affidamento, non è possibile richiederlo nuovamente per la successiva adozione.

Se, invece, si verifica un parto plurimo ed è stata inoltrata la domanda del bonus al compimento del settimo mese, bisogna ripresentarla dopo la nascita, inserendo tutte le informazioni necessarie per l’integrazione del premio rispetto al numero dei bambini nati.

Per approfondire: Bonus mamma domani 2019

Firma digitale: come fare

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Come firmare digitalmente un documento: differenza tra firma elettronica e digitale, che cosa serve, come attivare il kit per la firma.

Carta e penna sono destinati ad andare in soffitta molto presto, sostituiti dai documenti elettronici firmati digitalmente. L’utilizzo della firma digitale permette di snellire significativamente i rapporti tra le pubbliche amministrazioni, i cittadini e le imprese, velocizzando le tempistiche burocratiche e riducendo la gestione in forma cartacea dei documenti. Ad oggi, è possibile firmare digitalmente qualsiasi documento elettronico: non solo le fatture elettroniche, ma anche atti ufficiali, come comunicazioni alle pubbliche amministrazioni, contratti pubblici d’appalto, visure camerali, atti giudiziari, eCc. Proprio per questo motivo, la tecnologia alla base della firma digitale è ormai da tempo alla portata di tutti, amministrazioni, imprese e cittadini.

Come dici? Non puoi fare la firma digitale perché non hai la tavoletta grafica con l’apposita penna? Forse hai le idee un po’ confuse: devi sapere che per apporre la firma digitale, solitamente, si utilizza una chiavetta usb, o un lettore di smart card. Inoltre, è importante che tu non faccia confusione tra firma digitale e semplice firma elettronica: solo la firma digitale, difatti, assicura autenticità, integrità e validità legale del documento. Vuoi capire come firmare digitalmente un documento, ma non sai da che parte cominciare? Facciamo il punto della situazione sulla firma digitale: come fare per procurare un dispositivo di firma, come attivare il kit per la firma digitale, come si appone la firma a un documento informatico.

Che cos’è la firma digitale?

La firma digitale è l’equivalente informatico di una tradizionale firma autografa apposta su carta: in parole semplici, è uno strumento grazie al quale cittadini, professionisti e imprese possono firmare un documento elettronico, dandogli un valore legale.

La firma digitale attribuisce al documento firmato:

  • l’autenticità: garantisce infatti l’identità del sottoscrittore del documento;
  • l’integrità: assicura che il documento non sia stato modificato dopo la sottoscrizione;
  • la piena validità legale.

Qual è la differenza tra firma digitale ed elettronica?

La firma digitale è una tipologia di firma elettronica, ma non bisogna fare confusione tra le diverse tipologie di firma, perché solo la firma digitale si può equiparare, in sostanza, alla firma autografa, cioè a quella apposta di proprio pugno.

Nel dettaglio, il codice dell’amministrazione digitale prevede quattro tipologie diverse di firma elettronica:

  • firma elettronica semplice: non ha valore legale, perché per la sua apposizione non si utilizzano strumenti capaci di garantire l’autenticità e l’integrità dei documenti firmati;
  • firma elettronica avanzata: ha valore legale certo nella generalità dei casi, perché è generata con mezzi che consentono di dimostrare l’integrità del documento; non ha valore legale certo nei contratti immobiliari;
  • firma elettronica qualificata: è un particolare tipo di firma elettronica avanzata, basata su un certificato qualificato rilasciato da un certificatore accreditato e realizzata mediante un dispositivo sicuro per la creazione della firma; consente di verificare con certezza l’identità di chi ha firmato un documento e ne garantisce l’originalità e l’integrità: pertanto, ha un valore legale certo;
  • firma digitale: ha pieno valore legale, perché è generata con un sistema di crittografia in cui una coppia di chiavi (una pubblica e una privata) viene usata per verificare l’integrità e l’originalità dei documenti firmati.

È fondamentale che il rilascio della firma digitale avvenga solo dopo che il firmatario sia stato identificato da parte del certificatore: in caso contrario, non può essere garantita l’associazione che il certificato effettua tra chiave pubblica e dati anagrafici del titolare della firma.

Che cosa serve per la firma digitale?

La firma digitale è costituita da un dispositivo (solitamente, una smart card o una chiavetta usb) che contiene un certificato digitale di sottoscrizione, tramite il quale è possibile firmare digitalmente i documenti elettronici.

Per firmare digitalmente un documento ci si può dotare, nel dettaglio, di:

  • una smart card, un lettore di smart card ed un certificato digitale di sottoscrizione, rilasciato da un certificatore accreditato;
  • un dispositivo usb ed un certificato digitale di sottoscrizione, rilasciato da un certificatore accreditato;
  • un kit per la firma digitale remota, che permette di firmare i documenti senza usare chiavette o smart card fisiche, sfruttando le potenzialità del cloud; in sostanza, si acquista una smart card virtuale e, quando si ha la necessità di firmare un documento, la si utilizza tramite l’immissione di una password usa-e-getta da generare tramite chiavetta OTP (one time password), app per smartphone o tramite la ricezione di un SMS; naturalmente anche in questo caso è necessario un certificato digitale di sottoscrizione, rilasciato da un certificatore accreditato.

È inoltre indispensabile dotarsi di un software di firma digitale, che può essere fornito al momento dell’acquisto della firma digitale, oppure può essere scaricato gratuitamente da internet (Dike, Firma Certa…).

Come attivare la firma digitale

Per cominciare a utilizzare un kit di firma digitale si deve verificare la propria identità. La verifica può avvenire:

  • tramite un Pubblico ufficiale: ci si deve recare in Comune, con un documento d’identità valido, una marca da bollo e la documentazione ricevuta dall’ente certificatore;
  • tramite centro di spedizione o ufficio postale: è sufficiente recarsi in una filiale del corriere scelto dall’ente certificatore per la consegna del kit, fornendo un documento d’identità valido e pagando il corrispettivo per il completamento della pratica;
  • a domicilio: è possibile farsi identificare direttamente dal postino alla consegna del kit di firma digitale, fornendo un documento d’identità valido e firmando la documentazione recapitata insieme al kit;
  • tramite Web: alcuni enti certificatori, come InfoCert, consentono di effettuare il riconoscimento online, usando la webcam del computer.

Quali documenti si possono firmare digitalmente?

La firma digitale può essere apposta su un documento informatico redatto in un formato statico (come Pdf o Xml). I documenti in formato Doc (Word), Xls (Excel), Odt o Ods (Open Office), non possono essere firmati digitalmente perché sono modificabili anche dopo la sottoscrizione.

Come si firma digitalmente un documento?

Una volta collegato il dispositivo di firma (un lettore di smart card, ovviamente con la carta inserita, o una penna usb, o il kit per la firma digitale remota), e scaricato l’apposito software per la firma elettronica (Dike, Firma Certa…), posizionandosi sul documento con il tasto destro del mouse, si può scegliere la voce Firma, o Firma e Marca (se abbiamo bisogno anche di fornire data certa al documento: in questo caso, però, è necessario acquistare delle marche temporali).

Il sistema chiede poi di scegliere tra diverse estensioni:

  • formato p7m, contenente il documento originale e i files della firma digitale.
  • formato pdf, disponibile solo per i files aventi già lo stesso formato: consente di ottenere un file pdf con la firma digitale inclusa, invisibile o grafica;
  • formato xml.

Bisogna poi firmare il documento digitando il codice pin che è stato fornito col dispositivo di firma: il procedimento, così, si conclude, il documento risulta firmato digitalmente ed acquisisce il formato prescelto.

Reddito di cittadinanza: come diventare navigator

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Assunzione come tutor presso i centri per l’impiego: posti disponibili, requisiti, contratto di lavoro.

Con il via al reddito di cittadinanza nasce una nuova figura professionale, grazie alla quale saranno presto disponibili ben 10mila nuovi posti di lavoro in tutt’Italia: si tratta del navigator.

Ogni beneficiario del reddito di cittadinanza, difatti, dovrà essere seguito e supportato da un tutor, come indicato nel decreto-legge in materia [1], che si occuperà di sostenere l’interessato nel suo percorso di formazione, di riqualificazione e di ricerca del lavoro.

In base a quanto reso noto, 6mila navigator saranno assunti dall’Anpal, l’Agenzia nazionale delle politiche attive per il lavoro (precisamente, da Anpal servizi SpA), tramite contratto di co.co.co. (collaborazione coordinata e continuativa), senza concorso, con una procedura selettiva pubblica. Altri 4mila navigator saranno assunti dalle Regioni.

La retribuzione mensile di un navigator dovrebbe aggirarsi intorno ai 1800 euro.  Ma esistono corsi di formazione per diventare navigator? Come si diventa tutor per il reddito di cittadinanza? Qual è la procedura per candidarsi e quali sono i requisiti richiesti?

Per rispondere a queste domande, facciamo il punto sul reddito di cittadinanza: come diventare navigator, requisiti richiesti, come candidarsi, mansioni, stipendio.

Quali sono i requisiti per diventare navigator?

Per diventare navigator serve la laurea? In base a quanto annunciato, per diventare navigator è richiesta la laurea magistrale in economia, giurisprudenza, sociologia, scienze politiche, psicologia o scienze della formazione.

Sono inoltre richiesti 4 anni di esperienza nella consulenza sul lavoro.

I requisiti richiesti devono comunque essere confermati dai bandi di selezione, la cui uscita è prevista a breve.

Per diventare navigator si deve frequentare un corso di formazione?

Per diventare navigator non esistono appositi corsi di formazione ma, in base a quanto annunciato, queste figure professionali dovranno seguire degli appositi corsi per poter operare, a carico di Anpal Servizi SpA.

Anpal, con un recente comunicato stampa, ha precisato che non esiste una certificazione ufficiale e che i corsi recentemente pubblicizzati sono organizzati da enti di formazione esterni.

Come saranno assunti i navigator?

Il decretone in materia di reddito di cittadinanza e pensioni ha disposto dei consistenti stanziamenti a favore di Anpal Servizi SpA (200 milioni di euro per l’anno 2019, 250 milioni di euro per l’anno 2020 e 50 milioni di euro per l’anno 2021): gli stanziamenti servono a consentire la stipulazione di incarichi di collaborazione con le professionalità necessarie ad organizzare l’avvio del reddito di cittadinanza.

La forma contrattuale prevista è dunque quella delle collaborazioni coordinate e continuative, o co.co.co. La durata della collaborazione prevista è pari a 2 anni.

I navigator assunti dalle Regioni saranno invece inseriti tramite concorso.

Quanti sono i posti disponibili per i navigator?

Inizialmente sono previsti 10mila posti di lavoro per i navigator:

  • 6mila tutor lavoreranno per Anpal Servizi SpA come collaboratori;
  • altri 4mila tutor saranno assunti dalle Regioni.

Quanto guadagna il navigator?

Il navigator guadagnerà, secondo quanto annunciato, circa 30mila euro all’anno lordi, che corrispondono a oltre 1800 euro netti su 12 mensilità (1700-1800 euro netti su 13 mensilità).

Quando saranno assunti i navigator?

Non essendo ancora stato pubblicato il bando di selezione Anpal, né i bandi di concorso delle Regioni, non si sa ancora da quando inizieranno a lavorare i navigator. Secondo diverse fonti, le prime 5 mila assunzioni potrebbero arrivare a maggio 2019. Tuttavia, considerando che queste nuove figure avranno necessità di essere appositamente formate, i tutor potrebbero iniziare ad essere pienamente operativi non prima di settembre/ottobre 2019.

Navigator: come presentare la domanda?

Come inviare la candidatura per diventare navigator? L’Anpal ha confermato il reclutamento di circa 6 mila esperti delle politiche attive del lavoro con incarichi di collaborazione attraverso una selezione pubblica.

L’avvio delle procedure di selezione sarà comunicato non appena Anpal Servizi avrà adeguato i propri regolamenti.

Con tutta probabilità, sarà possibile candidarsi accedendo alla sezione Lavora con noi/ Opportunità/ Ricerca avvisi pubblicati, o alla sezione Bandi /Avvisi e chiarimenti del sito Anpal Servizi SpA.

Che cosa fa il navigator?

Ma di che cosa si occuperà, nel concreto, il navigator? Dovrà, sostanzialmente, affiancare il beneficiario del reddito di cittadinanza nella ricerca di un nuovo lavoro, anche attraverso le seguenti attività:

  • seguire l’interessato nella frequenza di corsi di formazione,
  • accompagnare l’interessato nel centro per l’impiego per l’avvio del patto di formazione o di lavoro,
  • selezionare e raggruppare per l’interessato le offerte di lavoro congrue, sulla base delle professionalità o attitudini;
  • controllare che il beneficiario del sussidio rispetti gli obblighi previsti nel patto per il lavoro: ad esempio, che svolga le attività a favore del Comune di residenza, che ricerchi attivamente lavoro ogni giorno, che si presenti agli incontri di formazione ed orientamento previsti.

Il navigator, quindi, oltre ad aiutare il beneficiario del reddito a trovare un impiego, dovrà anche controllare che non “faccia il furbetto”, quindi che si impegni attivamente per rientrare nel mercato del lavoro. Dovrà quindi segnalare eventuali violazioni del patto per il lavoro ai servizi competenti.

Estratto conto pensione errato: l’Inps deve risarcire i danni

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L’Inps è obbligata a risarcire i danni se l’estratto conto contributivo riporta degli errori che inducono il lavoratore a dimettersi per pensionarsi.

Il tuo estratto conto Inps, il documento dove sono indicati tutti i contributi accreditati in una vita di lavoro, indica chiaramente che hai raggiunto il requisito minimo richiesto per la pensione. In preda alla gioia, presenti le dimissioni dal lavoro. Ma la gioia si trasforma presto in disperazione, quando l’Inps rigetta la tua domanda di pensione spiegando che tu non hai i requisiti. L’estratto conto che hai consultato, difatti, non ha valore certificativo e tu non avresti dovuto farci affidamento: questa è la risposta dell’Inps, che non ti risarcirà alcun danno.

In questa situazione si sono trovati, purtroppo, moltissimi lavoratori, rimasti senza stipendio e senza pensione per aver fatto affidamento sull’estratto conto contributivo dell’Inps. Ma per l’estratto conto pensione errato l’Inps deve risarcire i danni?

La risposta è positiva: l’Inps è costretta a risarcire i danni per gli errori nell’indicazione dei contributi, a prescindere dal fatto che l’estratto conto consultato dal lavoratore sia certificativo o meno; lo ha stabilito la Cassazione, con una nota sentenza [1], che ha la chiara finalità di porre rimedio a quelle situazioni in cui il lavoratore, per colpa dell’Inps, si ritrova senza via d’uscita.

Ma procediamo per ordine e cerchiamo di capire come mai l’Inps ha sempre considerato l’estratto conto ordinario “senza valore” e come mai la Cassazione, invece, gli abbia attribuito valore certificativo.

Che cos’è l’estratto conto Inps

L’estratto conto dell’Inps è il documento in cui sono contenuti tutti i contributi previdenziali accreditati al lavoratore nelle gestioni che fanno capo all’Inps (fondo pensione lavoratori dipendenti, gestione separata, gestione commercianti, etc.). I contributi che figurano nell’estratto conto possono essere obbligatori, volontari, risultare dal riscatto di un determinato periodo (ad esempio degli anni di laurea), o essere stati ricongiunti da un’altra gestione, o ancora, infine, essere stati accreditati dall’Inps figurativamente.

Estratto conto certificativo Inps

L’Inps distingue, poi, l’estratto conto “generico” dall’estratto conto certificativo: soltanto quest’ultimo, secondo l’istituto, ha lo stesso valore di una certificazione, mentre l’estratto conto generico può contenere degli errori. L’Inps si è sempre rifiutata di rispondere degli errori nell’estratto conto ordinario in quanto il documento, secondo l’istituto, non ha natura certificativa perché non è emesso a seguito di una richiesta formale da parte dell’assicurato [2]: per questo motivo, non può considerarsi come una certificazione tale da determinare affidamento e, dunque, un danno nei confronti di chi si è fidato di quanto descritto nel documento.

Errori nell’estratto conto contributivo Inps

Secondo la Cassazione, invece, la normativa citata dall’Inps [3] non richiede che l’estratto conto contributivo, per avere il valore di certificazione, debba essere richiesto dal cittadino con particolari adempimenti, né che debba essere emesso con specifiche formalità: perché si possa riconoscere all’estratto conto il valore di certificazione basta che sia comprensibile dal cittadino munito del livello di istruzione obbligatoria. La legge, inoltre, non prevede che delle parti dell’estratto conto possano essere meramente incidentali e accessorie: in pratica, l’estratto non può contenere delle indicazioni che l’interessato non deve considerare, o che può considerare senza farci affidamento

Al contrario, il principio di buon andamento della Pubblica  Amministrazione [4] impone la veridicità degli atti e dei provvedimenti degli enti pubblici: i documenti emessi da un ente pubblico, come l’Inps, non possono dunque mai essere considerati come affermazioni delle quali per prudenza non ci si deve fidare.

Gli enti pubblici che possono rilasciare certificazioni sono, peraltro, obbligati a non frustrare la fiducia di chi è titolare di un interesse a conseguire beni essenziali della vita (come la pensione), fornendo informazioni sbagliate o approssimative, anche se contenute in documenti senza valore certificativo. Se disattendono quest’obbligo, vanno incontro a responsabilità contrattuale [5].

Dimissioni per informazioni errate sul diritto alla pensione

In base a quanto chiarito dalla Cassazione, dunque, se il lavoratore si dimette, convinto di aver diritto alla pensione, e scopre, in seguito al rigetto della domanda di pensione da parte dell’Inps, che l’estratto conto su cui si è basato è errato, l’istituto deve risarcire i danni, anche se l’estratto conto consultato non era quello certificativo.


Errori estratto conto Inps: diritto al risarcimento danni

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Se l’estratto conto previdenziale dell’Inps presenta degli errori che influiscono sul diritto o sulla misura della pensione, il lavoratore deve essere risarcito?

Dopo aver studiato il tuo estratto conto Inps, il documento in cui sono indicati tutti i contributi accreditati in una vita di lavoro, eri sicuro di aver diritto alla pensione, hai presentato le dimissioni, ma hai in seguito scoperto che non ti compete alcun trattamento? Oppure, in base al tuo estratto conto, eri sicuro che ti spettasse un buon assegno di pensione e ti sei dimesso, scoprendo invece che la rendita spettante è molto più bassa? Certamente, avendolo saputo prima, non avresti rassegnato le dimissioni! E adesso, come porre rimedio alla situazione? Se sei stato indotto a dimetterti a causa di valutazioni sbagliate, determinate da calcoli fatti male da te, non puoi farci nulla, purtroppo. Se, invece, le valutazioni errate sono state determinate da errori presenti nell’estratto conto, l’Inps deve risarcire il danno, anche se i calcoli sono stati fatti sulla base dell’estratto conto ordinario (quello che trovi accedendo con le tue credenziali al sito dell’Inps, all’interno del fascicolo previdenziale), e non dell’estratto conto certificativo: lo ha chiarito la corte di Cassazione, con una nuova sentenza [1], che segue un orientamento della giurisprudenza già consolidato [2].

Questo, nonostante l’Inps sostenga che l’estratto conto che si trova sul portale web non abbia valore certificativo [3] e che non ci si debba fare affidamento. Ma procediamo per ordine e facciamo il punto della situazione sugli errori estratto conto Inps: diritto al risarcimento danni, valore certificativo dell’estratto conto ordinario e dei dati forniti dal servizio Inps La mia pensione, che cosa fare se ci si è dimessi per informazioni errate sul diritto al trattamento pensionistico.

Che cos’è l’estratto conto Inps?

L’estratto conto dell’Inps è il documento in cui sono contenuti tutti i contributi previdenziali accreditati al lavoratore nelle gestioni dell’Inps (fondo pensione lavoratori dipendenti, gestione separata, gestione commercianti, etc.). I contributi che figurano nell’estratto conto possono essere obbligatori, volontari, risultare dal riscatto di un determinato periodo (ad esempio degli anni di laurea), o essere stati ricongiunti da un’altra gestione, o ancora, essere stati accreditati dall’Inps figurativamente.

Che cos’è l’estratto conto certificativo Inps?

L’Inps distingue, poi, l’estratto conto “generico” dall’estratto conto certificativo: soltanto quest’ultimo, secondo l’istituto, ha lo stesso valore di una certificazione, mentre l’estratto conto generico può contenere degli errori. L’Inps si è sempre rifiutato di rispondere degli errori nell’estratto conto ordinario in quanto il documento, secondo l’istituto, non ha natura certificativa perché non è emesso a seguito di una richiesta formale da parte dell’assicurato [3]: per questo motivo, sempre secondo l’interpretazione dell’istituto, non può considerarsi come una certificazione tale da determinare affidamento e, dunque, non determina il sorgere del diritto al risarcimento del danno nei confronti di chi si è fidato di quanto descritto nel documento.

Che cosa succede se ci sono errori nell’estratto conto contributivo Inps?

Secondo la Cassazione, la normativa previdenziale [4] non dispone che l’estratto conto contributivo, per avere il valore di certificazione, debba essere richiesto dal cittadino con particolari adempimenti, né che debba essere emesso con specifiche formalità: perché si possa riconoscere all’estratto conto il valore di certificazione basta che sia comprensibile dal cittadino munito del livello di istruzione obbligatoria. La legge, inoltre, non prevede che delle parti dell’estratto conto possano essere meramente incidentali e accessorie: in parole semplici, l’estratto conto Inps non può contenere delle indicazioni che l’interessato non deve considerare, o che può considerare senza farci affidamento

Al contrario, il principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione [5] impone la veridicità degli atti e dei provvedimenti degli enti pubblici: i documenti emessi da un ente pubblico, come l’Inps, non possono dunque mai essere considerati come affermazioni delle quali per prudenza non ci si deve fidare.

Gli enti pubblici che possono rilasciare certificazioni sono, peraltro, obbligati a non vanificare la fiducia di chi è titolare di un interesse a conseguire beni essenziali della vita (come la pensione), fornendo informazioni sbagliate o approssimative, anche se contenute in documenti senza valore certificativo. Se disattendono quest’obbligo, vanno incontro alla responsabilità contrattuale [6].

Che cosa fare se ci si dimette per informazioni errate sul diritto alla pensione?

In base a quanto chiarito dalla Cassazione, dunque, se il lavoratore si dimette, convinto di aver diritto alla pensione, e scopre, in seguito al rigetto della domanda di pensione da parte dell’Inps, che l’estratto conto su cui si è basato è errato, l’Inps deve risarcire i danni, anche se l’estratto conto consultato non è quello certificativo. Il lavoratore deve dunque agire in giudizio per richiedere i danni all’istituto previdenziale, che è tenuto a risarcire il danno sofferto anche se le informazioni erronee sono state fornite mediante il rilascio di estratti conto assicurativi non richiesti dall’interessato e inidonei a rivestire efficacia certificativa: il comportamento dell’ente è dunque illegittimo in questi casi, in quanto ha ingenerato l’affidamento dell’assicurato sulla consistenza della propria posizione contributiva.

Che cosa fare se le informazioni errate non sono state ricavate dall’estratto conto?

Il diritto al risarcimento del danno, peraltro, può sorgere anche se le informazioni errate non sono ricavate dall’estratto conto, ma da diverse comunicazioni dell’Inps, come una campagna informativa di carattere generale [7]: in pratica, ci sono numerose situazioni in cui, anche al di fuori di errori contenuti nell’estratto conto certificativo, è possibile far valere una responsabilità da parte dell’Inps.

Cessione quinto pensione

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Come funzionano i prestiti personali con cessione del quinto della pensione: chi può richiederli, come si calcola l’importo da restituire.

Sei un pensionato e hai bisogno di un prestito, ma non hai garanzie? Forse non sai che puoi ottenere un prestito personale grazie alla cessione del quinto della pensione. Con la cessione del quinto, difatti, i finanziamenti possono essere estinti con una trattenuta diretta sulla rata della pensione. Calcolare il quinto della pensione può sembrare semplice, ma in realtà la quota cedibile della pensione non coincide sempre col quinto del trattamento, in quanto non può essere ridotta la pensione minima. L’Inps, però, viene in aiuto a chi ha difficoltà con i calcoli, grazie ad un’apposita applicazione.

Vediamo allora come funziona la cessione quinto pensione: chi può richiederla, come chiedere il prestito, come si calcola la quota cedibile.

Che cos’è la cessione del quinto della pensione?

La cessione del quinto è una forma di prestito personale che il pensionato può ottenere da un istituto di credito e rimborsare attraverso un addebito automatico, che l’Inps effettua sulla sua pensione.

Il prelievo non può superare un quinto dell’importo mensile della pensione, e non può ridurre l’assegno al di sotto del trattamento minimo.

Come funziona la cessione del quinto della pensione?

Il prestito con cessione del quinto della pensione deve essere richiesto dal pensionato, in possesso di comunicazione di cedibilità del trattamento, alla banca o alla società finanziaria prescelta. L’Inps provvede poi a versare la quota stabilita trattenendola direttamente dalla pensione.

La durata del contratto di prestito non può superare i dieci anni ed è obbligatoria la copertura assicurativa per il rischio di premorienza del titolare della pensione.

Per quali pensioni non può essere chiesta la cessione del quinto?

La cessione del quinto può essere chiesta su tutte le pensioni, ad eccezione dei seguenti trattamenti:

  • pensione sociale e assegno sociale;
  • pensione integrata al minimo
  • pensione d’invalidità civile;
  • pensione d’inabilità civile, o assegno mensile di assistenza per gli invalidi civili totali;
  • sussidi di sostegno al reddito;
  • assegni al nucleo familiare;
  • pensioni con contitolarità per la quota parte non di pertinenza del soggetto richiedente la cessione;
  • prestazioni di esodo.

Come si ottiene la cessione del quinto della pensione?

Per ottenere un prestito con cessione del quinto, il pensionato deve prima richiedere all’Inps la comunicazione di cedibilità della pensione: si tratta di un documento in cui viene indicato l’importo massimo della rata del prestito.

La quota cedibile può essere richiesta personalmente dal pensionato presso qualsiasi sede Inps, tramite patronato o telematicamente, e va consegnata alla banca o alla società finanziaria con la quale stipulare il contratto di finanziamento.

Nel caso in cui il pensionato, per la stipula del contratto, si rivolga ad una banca o a una finanziaria convenzionata con l’Inps, la comunicazione di cedibilità viene elaborata direttamente dalla banca/finanziaria attraverso un collegamento telematico con l’istituto stesso. Normalmente, per i prestiti convenzionati i tassi di interesse applicati al contratto di finanziamento risultano più vantaggiosi.

Come si calcola la cessione del quinto della pensione?

Il pensionato, per rimborsare il prestito, come abbiamo osservato può cedere fino a un quinto della propria pensione: l’ammontare della rata ceduta dipende dall’importo del trattamento.

L’importo cedibile è calcolato al netto delle trattenute fiscali e previdenziali, in modo da non intaccare l’importo della pensione minima stabilito annualmente dalla legge (il trattamento minimo, per il 2019, è pari a 513,01 euro mensili). Per questo motivo i trattamenti pensionistici integrati al minimo non possono essere oggetto di cessione.

Nel caso il pensionato risulti titolare di più pensioni cedibili, il calcolo si effettua sull’importo totale delle pensioni percepite.

Vediamo, nel dettaglio, come si calcola la quota cedibile:

  • per prima cosa, bisogna dividere la pensione netta per 5, di modo da ottenere così il quinto della pensione.
  • il risultato ottenuto deve essere sottratto al valore della pensione netta;
  • la pensione netta decurtata del suo quinto deve essere quindi confrontata con il valore del trattamento minimo: se è maggiore del trattamento minimo, allora la quota cedibile corrisponde esattamente al quinto della pensione; se è minore, la quota cedibile corrisponde alla differenza tra pensione netta e trattamento minimo.

Esempi di calcolo cessione del quinto della pensione

Facciamo degli esempi per capire meglio come calcolare la quota cedibile della pensione:

  • ipotizziamo che la pensione, al netto delle tasse, sia pari a 596,50 euro mensili;
  • il quinto della pensione è pari a 119,30 euro;
  • sottraendo il quinto dalla pensione, otteniamo un trattamento decurtato pari a 477,20 euro, che è inferiore alla pensione minima, pari a 513,01 euro per il 2019;
  • l’importo cedibile della pensione corrisponde allora alla differenza tra la pensione al netto delle tasse e la pensione minima, cioè a 83,49 euro (596,50-513,01).

Osserviamo, invece, un esempio di calcolo con una pensione più elevata:

  • ipotizziamo che la pensione, al netto delle tasse, sia pari a 900 euro mensili;
  • il quinto della pensione è pari a 180 euro;
  • sottraendo il quinto dalla pensione, otteniamo un trattamento decurtato pari a 720 euro, che è superiore alla pensione minima, pari a 513,01 euro per il 2019;
  • l’importo cedibile della pensione corrisponde allora al suo quinto, cioè a 180 euro.

Quota cedibile pensione

L’Inps, per facilitare il calcolo della quota cedibile, ha reso disponibile il servizio mobile «Quota cedibile pensione». Al servizio Quota cedibile pensione si può accedere con Pin, dopo aver scaricato dagli store l’app Inps Servizi Mobile per Iphone (con sistema operativo IOS) o per smartphone (con sistema operativo Android), oppure accedendo con altri dispositivi fissi o mobili al sito mobile m.inps.it.

La quota viene calcolata in base all’imponibile pensionistico e può mutare a seguito delle variazioni mensili di quest’ultimo. Ai fini del calcolo l’imponibile pensionistico va considerato al netto delle trattenute fiscali e previdenziali nonché delle altre trattenute aventi natura prioritaria, tenuto inoltre conto della salvaguardia del limite del trattamento minimo della pensione.

Quali sono le banche convenzionate con l’Inps?

Il servizio Quota cedibile propone anche la lista delle banche e degli istituti di credito che aderiscono alla convenzione con l’Inps, per la gestione di prestiti estinguibili a fronte della cessione del quinto della pensione a tassi controllati.

A quanto ammonta il reddito di cittadinanza?

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Ammontare del reddito di cittadinanza: la tabella con tutti gli importi, suddivisi secondo la composizione del nucleo familiare.

Il reddito di cittadinanza, il nuovo sussidio che inizierà ad essere riconosciuto da aprile 2019, non ha un importo unico, come alcuni erroneamente ritengono. Il sostegno, che sarà erogato con una carta acquisti, non ammonta, difatti, a 780 euro mensili, ma il suo ammontare può variare a seconda della composizione del nucleo familiare, dei redditi dei componenti della famiglia e dell’eventuale pagamento di un affitto (canone di locazione) o di un mutuo.

In pratica, un reddito di cittadinanza pari a 780 euro mensili può essere teoricamente ottenuto soltanto da chi è single, non ha altri redditi e paga l’affitto, oppure paga il mutuo se è pensionato.

Chi non è single, ha diritto a un aumento del reddito di cittadinanza in proporzione ai componenti del nucleo familiare: il reddito, in particolare, è aumentato dello 0,40 per ogni componente adulta e dello 0,20 per ogni componente minorenne. Inoltre, se si possiedono altri redditi o non si paga l’affitto, l’importo base del reddito di cittadinanza viene ridotto.

Ma procediamo per ordine e cerchiamo di capire meglio a quanto ammonta il reddito di cittadinanza a seconda della situazione nella quale si trova chi richiede il sussidio.

Perché l’importo del reddito di cittadinanza risulti chiaro, in base alle situazioni, abbiamo pubblicato una tabella nella quale sono previsti tutti i casi in cui si può rientrare.

Qual è l’importo del reddito di cittadinanza?

Il reddito di cittadinanza ammonta sino a un massimo di 780 euro al mese per ogni persona adulta e disoccupata senza alcun reddito; per chi ha un reddito sotto soglia, il sussidio integrerà gli importi percepiti sino ad arrivare a 780 euro al mese.

Se nel nucleo familiare ci sono ulteriori componenti, il reddito è aumentato:

  • dello 0,40 per ogni adulto;
  • dello 0,20 per ogni minorenne;
  • sino a un parametro massimo della scala di equivalenza pari a 2,1.

Nello specifico, l’importo del reddito di cittadinanza è determinato da due quote:

  • la prima quota, a integrazione del reddito familiare, ammonta a una soglia massima pari a 6mila euro annui, 500 euro al mese (630 euro al mese, 7.560 euro annui nel caso di pensione di cittadinanza) per il singolo componente; in presenza di più componenti si può arrivare a massimo 12.600 euro, cioè a 1.050 euro al mese;
  • la seconda quota, a integrazione del reddito familiare, è riconosciuta ai nuclei che pagano l’affitto dell’abitazione, ed è pari al canone annuo previsto dal contratto di affitto, sino a 280 euro al mese (150 euro al mese, 1.800 euro annui nel caso di pensione di cittadinanza);
  • la seconda quota è pari alla rata del mutuo, fino a un massimo di 150 euro al mese, 1.800 euro annui, nel caso di nuclei familiari residenti in abitazioni di proprietà per il cui acquisto o per la cui costruzione sia stato stipulato un contratto di mutuo da un componente della famiglia.

In ogni caso il beneficio economico:

  • non può superare la soglia di 9.360 euro annui (780 euro al mese) nel caso di nucleo familiare con un solo componente, ridotta del valore del reddito familiare; la misura massima in caso di più componenti può arrivare, teoricamente, a 1.638 euro al mese, 19.656 euro annui; nel concreto, al momento, può arrivare a 15.960 euro all’anno (1.330 euro al mese);
  • non può essere inferiore a 480 euro annui (40 euro al mese).

Sia il reddito che la pensione di cittadinanza sono esentasse.

Reddito di cittadinanza, tabella con gli importi

Nella seguente tabella, vediamo a quanto può ammontare, al massimo, il reddito di cittadinanza per ogni nucleo familiare (abbiamo ipotizzato l’assenza di redditi percepiti dai componenti della famiglia).

In particolare:

  • nella colonna 1 è indicata la composizione del nucleo familiare;
  • nella colonna 2 il parametro della scala di equivalenza (come osservato, si aggiunge lo 0,4 per ogni componente del nucleo maggiorenne oltre al primo, e lo 0,2 per ogni componente minorenne), che non può superare, attualmente, 2,1;
  • nella colonna 3, l’importo del sussidio mensile per chi non paga né mutuo né affitto;
  • nella colonna 4 l’importo del sussidio mensile massimo per chi paga il mutuo;
  • nella colonna 5, l’importo del sussidio mensile massimo per chi paga l’affitto.
Nucleo familiarecon reddito pari a zero Scala di equivalenza Importo del reddito mensile spettante
Senza mutuo Con mutuo In affitto
1 componente maggiorenne 1 500 650 780
2 componenti maggiorenni 1,4 700 850 980
2 componenti di cui 1 minorenne 1,2 600 750 880
3 componenti maggiorenni 1,8 900 1050 1180
3 componenti di cui 1 minorenne 1,6 800 950 1080
3 componenti di cui 2 minorenni 1,4 700 850 980
4 o più componenti maggiorenni 2,1 1050 1200 1330
4 componenti di cui 1 minorenne 2,0 1000 1150 1280
4 componenti di cui 2 minorenni 1,8 900 1050 1180
4 componenti di cui 3 minorenni 1,6 800 950 1080
5 componenti di cui 1 o 2 minorenni 2,1 1050 1200 1330
5 componenti di cui 3 minorenni 2,0 1000 1150 1280
5 componenti di cui 4 minorenni 1,8 900 1050 1180
6 componenti di cui 1 minorenni 2,1 1050 1200 1330
6 componenti di cui 2 minorenni 2,1 1050 1200 1330
6 componenti di cui 1 maggiorenne 2,0 1000 1150 1280
6 componenti di cui 2 maggiorenni 2,1 1050 1200 1330
Oltre 2,1 1050 1200 1330

Come osserviamo, il reddito di cittadinanza non può superare 1.330 euro mensili, anche in caso di famiglie con oltre 6 componenti.

L’importo del sussidio non può essere inferiore a 480 euro annui (40 euro al mese).

Importo reddito di cittadinanza per chi percepisce altri sussidi

Il decreto prevede che ai fini del reddito di cittadinanza, il reddito familiare è determinato al netto dei trattamenti assistenziali eventualmente inclusi nell’Isee non più in godimento, ed include i trattamenti assistenziali in corso di godimento da parte dei componenti del nucleo familiare, fatta eccezione per le prestazioni non sottoposte alla prova dei mezzi, come l’assegno di accompagnamento.

Nel valore dei trattamenti di assistenza non rilevano il pagamento di arretrati, le riduzioni nella compartecipazione al costo dei servizi e le esenzioni e agevolazioni per il pagamento di tributi, i rimborsi di spese sostenute, i buoni servizio o altri titoli che svolgono la funzione di sostituzione di servizi. Non rilevano il bonus bebè e lo stesso reddito di cittadinanza.

Requisiti per il reddito di cittadinanza e adempimenti per mantenerlo

Ottenere il reddito di cittadinanza richiede il soddisfacimento di numerosi requisiti (non si può avere, oltre alla prima casa, un immobile di valore superiore a 30mila euro, non si devono possedere veicoli immatricolati nei 6 mesi precedenti o superiori a 1600 cc, si possono depositare solo piccole somme in banca…).

Una volta ottenuto, poi, si può perdere facilmente: se non è speso integralmente l’importo mensile, ad esempio, è ridotto del 20%. Si decade dal sussidio se non si eseguono le attività previste nel patto per il lavoro, come la ricerca attiva di un’occupazione, la frequenza di incontri di orientamento, di formazione, di riqualificazione…Inoltre si è obbligati ad offrire lavoro gratuito per il proprio Comune di residenza.

Chi si rifiuterà di lavorare per il proprio Comune perderà il sussidio; il reddito si perderà anche nel caso in cui si rifiutino tre offerte di lavoro congrue, oppure la prima offerta di lavoro, se si percepisce il sussidio di cittadinanza in fase di rinnovo.

Per saperne di più: Adempimenti per ottenere il reddito di cittadinanza.

Cessione quinto pensione di cittadinanza: è possibile?

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Prestito personale con cessione del quinto della pensione integrata dal reddito di cittadinanza: è consentito?

Hai bisogno di un prestito, ma non puoi cedere il quinto della tua pensione perché risulta inferiore al trattamento minimo, che nel 2019 ammonta a 513,01 euro mensili.

Da quest’anno, però, hai diritto al reddito di cittadinanza, il nuovo sussidio che spetta alle famiglie in situazione di bisogno economico. Considerando che il tuo nucleo familiare è numeroso, hai diritto al sussidio massimo, che per il 2019 consente un’integrazione del reddito sino a 1.330 euro mensili.

In questo modo, la tua pensione, integrata dal reddito di cittadinanza, arriva a 1.330 euro mensili: di conseguenza superi il trattamento minimo e, tolto il quinto della pensione, ti resta comunque una cifra maggiore della vecchia pensione.

Ma la cessione quinto pensione di cittadinanza è possibile? In altre parole, è possibile la cessione del quinto della pensione se la prestazione ha un importo più basso del trattamento minimo, quindi di per sé non è cedibile, ma supera il minimo integrata dalla pensione di cittadinanza, o dal reddito di cittadinanza?

Facciamo il punto della situazione.

Come funziona la cessione del quinto della pensione?

La cessione del quinto della pensione consente di ottenere un prestito personale con una trattenuta diretta sulla rata mensile del trattamento. È possibile cedere sino a 1/5 della prestazione, che non deve mai scendere al di sotto del trattamento minimo: per questo motivo, i trattamenti pensionistici integrati al minimo non possono essere oggetto di cessione, e l’ammontare della rata ceduta dipende dall’importo della pensione.

Nel caso in cui il pensionato risulti titolare di più pensioni cedibili, il calcolo si effettua sull’importo totale delle pensioni percepite.

Come si calcola la cessione del quinto della pensione?

Vediamo, nel dettaglio, come si calcola la quota cedibile:

  • per prima cosa, bisogna dividere la pensione netta per 5, di modo da ottenere così il quinto della pensione.
  • il risultato ottenuto deve essere sottratto al valore della pensione netta;
  • la pensione netta decurtata del suo quinto deve essere quindi confrontata con il valore del trattamento minimo: se è maggiore, la quota cedibile corrisponde esattamente al quinto della pensione; se è minore, la quota cedibile corrisponde alla differenza tra pensione netta e trattamento minimo.

Per quali pensioni non si può chiedere la cessione del quinto?

La cessione del quinto può essere chiesta su tutte le pensioni, ad eccezione dei seguenti trattamenti:

  • pensione sociale e assegno sociale;
  • pensione integrata al minimo
  • pensione d’invalidità civile;
  • pensione d’inabilità civile, o assegno mensile di assistenza per gli invalidi civili totali;
  • sussidi di sostegno al reddito;
  • assegni al nucleo familiare;
  • pensioni con contitolarità per la quota parte non di pertinenza del soggetto richiedente la cessione;
  • prestazioni di esodo.

A quanto ammontano il reddito e la pensione di cittadinanza?

L’importo del reddito e della pensione di cittadinanza è determinato da due quote:

  • la prima quota, a integrazione del reddito familiare, ammonta a una soglia massima pari a 6mila euro annui, 500 euro al mese (630 euro al mese, 7.560 euro annui nel caso di pensione di cittadinanza) per il singolo componente; in presenza di più componenti, il reddito di cittadinanza può arrivare a massimo 12.600 euro, cioè a 1.050 euro al mese;
  • la seconda quota, a integrazione del reddito familiare, è riconosciuta ai nuclei che pagano l’affitto dell’abitazione, ed è pari al canone annuo previsto dal contratto di affitto, sino a 280 euro al mese (150 euro al mese, 1.800 euro annui nel caso di pensione di cittadinanza);
  • la seconda quota è pari alla rata del mutuo, fino a un massimo di 150 euro al mese, 1.800 euro annui, nel caso di nuclei familiari residenti in abitazioni di proprietà per il cui acquisto o per la cui costruzione sia stato stipulato un contratto di mutuo da un componente della famiglia.

In ogni caso il beneficio economico:

  • non può superare la soglia di 9.360 euro annui (780 euro al mese), moltiplicata per la scala di equivalenza, ridotta del valore del reddito familiare; la misura massima in caso di più componenti può arrivare, al momento, a 15.960 euro all’anno (1.330 euro al mese) per il reddito di cittadinanza;
  • non può essere inferiore a 480 euro annui (40 euro al mese).

Il reddito e la pensione di cittadinanza aumentano la pensione?

Fatte queste necessarie premesse, è importante sottolineare che né il reddito, né la pensione di cittadinanza determinano un aumento diretto dell’importo della pensione.

La prestazione percepita (pensione di vecchiaia, anticipata, di anzianità…), difatti, resta sempre la stessa: l’assegno erogato dall’Inps non aumenta per effetto del reddito di cittadinanza o della pensione di cittadinanza, perché entrambi i sussidi sono riconosciuti con una carta acquisti.

In pratica, il cittadino riceve una sorta di bancomat, nel quale mensilmente è accreditato l’importo del sussidio spettante: con la carta acquisti (la carta Rdc) è possibile pagare le utenze, acquistare i generi di prima necessità, eseguire i bonifici per pagare l’affitto o il mutuo, e prelevare da 100 a 210 euro mensili (a seconda dei componenti del nucleo familiare).

Cessione del quinto reddito di cittadinanza

In base a quanto osservato, anche se il reddito di cittadinanza (o la pensione di cittadinanza), integrando la pensione, consente di superare il trattamento minimo, non rende possibile la cessione del quinto della prestazione. Innanzitutto, perché, come abbiamo visto, il reddito di cittadinanza non fa aumentare direttamente la pensione, ma integra il reddito attraverso una carta acquisti.

In secondo luogo, anche nel caso in cui il reddito di cittadinanza, da solo, superi il trattamento minimo, non sarebbe possibile chiedere un prestito con cessione del quinto del sussidio.

Perché non è possibile la cessione del quinto del reddito di cittadinanza? Chiedere un prestito con cessione del quinto del reddito di cittadinanza, o della pensione di cittadinanza, non è possibile perché si tratta di sussidi di sostegno al reddito, quindi di prestazioni non cedibili.

Ferie imposte dall’azienda: esiste un limite?

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Il datore di lavoro ha sempre l’ultima parola sulla fruizione delle ferie del dipendente, oppure le vacanze si devono concordare?

Quel pacchetto- viaggio tutto compreso è un’occasione da non perdere, ma il capo non vuole proprio saperne di concederti le ferie in quelle giornate lì. Il problema, comunque, è che non riesci mai ad organizzare le vacanze come vorresti, perché è sempre il titolare a decidere la collocazione dei giorni di ferie: ti impone di assentarti, anche per settimane di fila, quando i tuoi amici e familiari sono tutti al lavoro. Così, ti ritrovi a dover fare le “vacanze” da solo, senza poter mai organizzare un viaggio, o almeno un momento di svago con la famiglia o con gli amici. Ma alle ferie imposte dall’azienda esiste un limite? In altri termini, il datore di lavoro ha sempre e comunque il potere di decidere quando collocare le giornate di ferie, oppure è obbligato a concordare almeno un “periodo minimo” con il dipendente? Per dare una risposta a questa domanda, dobbiamo capire che cosa dispongono, a questo proposito, le leggi ed i contratti collettivi.

Che cosa sono le ferie?

Le ferie sono delle giornate libere che spettano ogni anno a tutti i lavoratori subordinati, in una misura minima stabilita dalla normativa, a prescindere dal loro inquadramento. Queste assenze costituiscono un diritto fondamentale e irrinunciabile del lavoratore, previsto dalla legge [1] e dalla Costituzione [2], perché sono finalizzate al recupero psico-fisico del dipendente: le ferie permettono infatti al lavoratore non solo di riposarsi, ma anche di poter “recuperare” i rapporti sociali e familiari e i momenti di svago, normalmente compromessi dall’attività lavorativa.

Quante ferie spettano all’anno?

Le ferie che spettano complessivamente in un anno alla generalità dei dipendenti, nella misura minima prevista dalla legge, sono pari a 4 settimane, cioè a 26 giornate (in quanto non sono contate le domeniche o i diversi giorni di riposo settimanale): tutte le 26 giornate (o il numero superiore previsto dal contratto collettivo applicato), però, spettano soltanto a coloro che hanno lavorato per un anno intero (escluse determinate assenze per le quali la maturazione avviene comunque).

Diversi contratti collettivi prevedono, comunque, un maggior numero di giornate di ferie spettanti: ad esempio, nella maggior parte dei contratti collettivi del settore pubblico sono previsti 30 o 32 giorni (per i dipendenti con maggiore anzianità) di ferie l’anno.

In ogni caso, la maturazione delle ferie avviene in proporzione ai mesi lavorati: in pratica, per ogni mese matura un rateo di ferie pari a un dodicesimo delle assenze totali che spettano in un anno.

Come devono essere godute le ferie?

La legge dispone la fruizione delle ferie, durante l’anno di maturazione, in misura pari ad almeno 2 settimane, possibilmente consecutive; le rimanenti 2 settimane devono essere godute nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione (salvo eventuale deroga da parte di eventuali accordi collettivi, che comunque non possono ritardare eccessivamente le giornate di vacanza, per non pregiudicarne la finalità di recupero psico-fisico).

Se il contratto collettivo prevede ferie aggiuntive oltre al minimo di 4 settimane, queste giornate possono essere godute anche successivamente ai 18 mesi posteriori all’anno di maturazione.

Chi decide quando si deve andare in ferie?

Nonostante le ferie siano solitamente concordate tra dipendente e datore di lavoro, è quest’ultimo ad avere il potere di decidere in quali giorni deve essere fruito il periodo di vacanza: il codice civile [3], infatti, prevede che sia il datore di lavoro a stabilire il periodo annuale di ferie retribuite, possibilmente continuativo, nel rispetto del periodo minimo previsto dalle leggi e dalla contrattazione collettiva.

In pratica, il datore di lavoro può scegliere l’esatta collocazione del periodo di ferie del dipendente anche senza accordo, purché:

  • tenga conto anche delle esigenze del lavoratore;
  • assicuri il godimento del periodo minimo di 2 settimane di ferie previsto dalla legge nell’anno di maturazione, o del maggiore periodo stabilito dal contratto collettivo;
  • assicuri che il restante periodo di ferie sia goduto entro i successivi 18 mesi dall’anno di maturazione, salvo diversa previsione del contratto collettivo;
  • comunichi al lavoratore con sufficiente e congruo anticipo la collocazione del periodo spettante.

Ferie forzate: sono sempre consentite?

Abbiamo appena osservato che è sempre il datore di lavoro ad avere l’ultima parola sulla collocazione delle giornate di ferie. Quindi la legge non prevede un vero e proprio limite alle ferie imposte dall’azienda.

Tuttavia, nel decidere la collocazione delle ferie, il datore deve comunque tenere in considerazione le esigenze del lavoratore: anche se le esigenze dell’azienda prevalgono su quelle del dipendente, le necessità di quest’ultimo non possono essere “ignorate all’infinito” ma, se possibile, si deve pervenire a un accordo.

La maggior parte delle aziende, per ovviare a questo problema, predispone un piano ferie, concordato con i dipendenti.

Inoltre, l’azienda deve garantire la fruizione del periodo minimo di ferie annuali: se non lo fa, il datore può essere sanzionato dai competenti organi ispettivi.

Per di più, la collocazione del periodo spettante deve essere comunicata al lavoratore con sufficiente e congruo anticipo, cosicché questi possa organizzare al meglio le sue giornate libere. In pratica, un’azienda non può obbligare il dipendente a fare le ferie forzate con poco preavviso, senza tenere conto delle sue esigenze, oppure in modo frazionato: il datore di lavoro può essere sanzionato per questo.

Ferie imposte sempre dall’azienda: c’è un rimedio?

Che cosa può fare il dipendente se l’azienda, nello stabilire le ferie, ignora sistematicamente le sue esigenze, impone le giornate libere con poco preavviso o addirittura le “spezzetta”, cioè non consente di godere dei giorni di riposo in modo continuativo?

In questi casi, oltre a rivolgersi al sindacato ed ai competenti organi ispettivi (Itl, ispettorato territoriale del lavoro), ci si può rivolgere anche al Giudice del lavoro.

Il Tribunale di Pordenone, ad esempio, con una nota sentenza [4], ha condannato un’azienda per aver obbligato un dipendente a smaltire tutte le ferie spettanti in modo forzato, frazionato e con un preavviso minimo.

In conclusione, in diversi casi è possibile imporre le ferie al dipendente, ed in alcune ipotesi è addirittura inevitabile, come in caso di chiusura aziendale: ciò non comporta, però, che si possa mandare in ferie il lavoratore in qualsiasi periodo dell’anno e ogni volta che il titolare della società abbia intenzione di farlo, se questo crea dei problemi all’interessato.

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